La base navale britannica di Scapa Flow, Orcadi (Scozia) E... Gli italiani
Rivista Marittima, CXXIX, dicembre 1996, 208 - 210
Franco Pelliccioni
1966 - 2006
QUARANTA ANNI DI PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE E DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA
Quando anni fa, quasi per caso, ebbi a iniziare quel lungo cammino che nel tempo mi avrebbe avvicinato alle più diverse realtà esistenziali e culturali di arcipelaghi e isole dell'Atlantico Settentrionale, mi sarei spesso dovuto confrontare, da quel momento in poi, anche con fatti e accadimenti storici di cui avevo esclusivamente una qualche reminiscenza scolastica o universitaria, certamente non specialistica. E più volte sarei stato costretto a documentarmi, approfondendo quelle tematiche, poiché connesse, in tutto o in parte, con le popolazioni isolane a cui mi interessavo. Come nel caso delle isole Orcadi, dove arrivai in un gelido inverno di alcuni anni fa, dopo una "ricognizione sul terreno" effettuata nelle più settentrionali isole Shetland. Fu appunto da questi due arcipelaghi scozzesi, ma "norvegesi" nell'anima, che prese forma e contenuto il mio Programma sulle Comunità dell'Atlantico Settentrionale, che negli anni successivi mi avrebbe portato a Saint-Pierre e Miquelon, a Terranova e poi, ancora, fino "ai confini del mondo": alle Svalbard. E infine alle isole Fær Øer.
Viaggiando a sud del capoluogo delle Orcadi, Kirkwall, nell'isola più importante, che non può che chiamarsi Mainland, in ore che si stavano ormai approssimando al precocissimo - per quelle alte latitudini - tramonto invernale, arrivai fino ai margini di una grandiosa, tranquilla e splendida baia. Aperta, quindi, solo da un lato dal mare. Ma artificialmente.
Dopo che la mia attenzione venne attirata dalla vista di numerose beccacce di mare, che si stavano velocemente nutrendo sulla battigia, spostandomi appena un po' mi accorsi come il suo lato occidentale fosse stato chiuso grazie ad una grossa e lunga diga. Un'imponente barriera bloccava quella parte della baia. Inoltre si vedevano, qua e là, i particolari dei relitti di numerose navi, parzialmente insabbiate, o di cui solo le strutture superiori emergevano dall'acqua. In quelle ore liscia come l'olio, dopo un tempo tempestoso, che fino a poco tempo prima aveva duramente flagellato l'isola.
Mi trovavo in quello che, dal punto di vista della Storia della Marineria e della Storia senza aggettivazioni, rappresenta, penso, uno dei suoi capisaldi. Quella era Scapa Flow, la potente e sicura base della flotta britannica (l'Home Fleet, poi divenuta Grand Fleet). Dove in alcuni periodi hanno stazionato fino a 20.000 uomini. E' qui che si sarebbe autoaffondata la flotta d'alto mare germanica (72 navi) dopo la fine della prima guerra mondiale (1919). Fu sempre da qui che nel 1916 sarebbe partito l'incrociatore Hamphshire diretto verso Arcangelo e la Russia, ma che non vi sarebbe mai arrivato. Poiché a non molta distanza, sulla costa di nord-ovest della Mainland, doveva saltare in aria, a causa di una mina vagante tedesca (o un siluro), che lo affondò in soli quindici minuti. Portando appresso quasi tutti i membri dell'equipaggio, compreso il Ministro della Guerra Kitchener, di cui avevamo avuto modo di approfondire, altrove, la sua ricca e personale storia. Che si sarebbe dovuta profondamente intrecciare con quella di una terra lontana, nello spazio e nel tempo. Così diversa da quelle brulle, aspre e nordiche isole scozzesi. E sì, perché Kitchener era stato l'eroe di Khartoum. Colui che seppe riconquistare il Sudan "alla civiltà" togliendolo, dopo anni di terrore e di "anarchia", ai dervisci del Califfo (e del Mahdi). E fu l'uomo che seppe evitare, a Fashoda, una prima guerra mondiale "anticipata". Grazie al componimento diplomatico dell'affaire Marchand. E questa terra africana, ma anche i luoghi che ricordo, è a me molto cara. E nota direttamente.
La presenza a Scapa Flow dei relitti è dovuta al fatto che, tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, si fece di tutto per renderla - erroneamente - più sicura. Bloccando l'accesso del lato occidentale (l'unico eventualmente percorribile dai sommergibili, viste le forti correnti esistenti a sud, verso il Pentland Firth) con reti sottomarine e sbarramenti vari. Ma soprattutto affondandovi numerose navi inglesi, che sono proprio quelle di cui ancora si vedono i copiosi, a volte anche imponenti, resti. E che formano una contorta barriera metallica, che non sarebbe riuscita, nel corso dei futuri eventi bellici, nel suo intento. Nulla poté, infatti, il 14 ottobre 1939, contro l'ostinazione, l'esperienza e il coraggio di Brauseköpfchen ("testa calda"). Come era soprannominato il comandante Günther Prien che, con il suo U Boat 47, riuscì a penetrare all'interno di Scapa Flow, affondandovi la celebre Royal Oak e causando la morte di 833 marinai britannici. Che tuttora riposano in quella loro tomba sottomarina, a una profondità di 30 metri. E la Royal Oak può essere vista dall'alto di un aereo, con il mare calmo.
Dopo quella tragedia, sarebbe stato giocoforza progettare la costruzione di un qualcosa di più solido e impenetrabile, di ciò che sarebbe stato poi definito come la "barriera Churchill". Barriera che collega Mainland agli isolotti di Lamb Holm, Glimps Holm e alle isole di Burray e di South Ronalsday, e che venne costruita in quattro anni di lavoro da centinaia di militari italiani, fatti prigionieri in Nord Africa. Su fondali anche di 18 metri vennero deposti 250.000 tonnellate di pietra e roccia. Il tutto venne ricoperto, utilizzando 66.000 immensi blocchi di calcestruzzo, da un terrapieno e poi da una strada. E in quei pressi è possibile talvolta scorgere diverse lontre. E' questa un'altra, imprevedibile, presenza storica italiana, in zone eccentriche geograficamente. Ma l'apporto italico a quei luoghi, del resto stupendi, non si limitano alla diga. Perché a non molta distanza da qui, ecco un'altra testimonianza: la cappella cattolica di Lamb Holm, meglio nota come "la cappella italiana". Che è tutto ciò che rimane del "Campo 60". Questa presenza religiosa, che attesta fede e carità cristiana, fu ideata e ultimata sempre grazie al lavoro dei POW italiani. Ma soprattutto è dovuta alla personale iniziativa di un trentino di Moena, Domenico Chiocchetti. A cui non deficitavano, certamente, sensibilità e capacità artistica, viste le sue splendide creazioni: le vetrate raffiguranti San Francesco e Santa Caterina da Siena, e gli affreschi - La Madonna con il Bambino, e I Quattro Evangelisti - , nonché gli altri arredi di culto. Che riuscì incredibilmente a realizzare con i non molti mezzi a disposizione, quasi tutti di scarto e "artigianali".
Grazie alla collaborazione dei suoi commilitoni, nel tempo il trentino riuscì a trasformare due capannoni metallici Nissen nella stupenda chiesetta che vediamo oggi. E che da tempo è meta di devozione da parte di migliaia di pellegrini, provenienti dalle Orcadi e dalla Scozia. Nel 1958 si formò un Comitato per la sua conservazione e restauro. Nel 1960 il Chiocchietti, rintracciato a Moena, ritornò nelle Orcadi per tre settimane, a spese della BBC. Dove restaurò alcune parti della cappella e, in particolare, gli affreschi. L'anno appresso il comune di Moena avrebbe donato il Crocefisso in legno che si trova all'esterno della cappella.
Nel 1957 le installazioni della base navale (a Lyness, isola di Hoy) vennero definitivamente chiuse. Oggi la baia di Scapa Flow rappresenta un "sogno" per i subacquei. Che, sia pure con estrema attenzione, possono vagabondare sott'acqua, osservando e fotografando i relitti delle decine e decine di navi tedesche e inglesi giacenti sul fondo. In un habitat ancora pieno di vita marina, nonostante nei pressi, nel vicino isolotto di Flotta, a sud della baia, sia localizzato il terminale orcadiano dell'oleodotto petrolifero del Mare del Nord. E malgrado l'avvicendarsi, pressoché quotidiano, di numerose petroliere.
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Modificata: 26 gennaio 2006
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