Scrivici,
attendiamo le tue considerazioni.

 

 

 

 

 

Handicap e solidarietà

 

 

 

Sono un'insegnante elementare, mamma di Francesco, un ragazzo di 13 anni affetto da sindrome di Angelman, una rara malattia genetica che provoca un grave ritardo psicomotorio e intellettivo. Sono sola: mio marito e mancato dopo il primo anno di matrimonio; non ho sorelle ne' fratelli, suoceri e cognati sono "spariti" dopo la morte di mio marito; ho solo mia madre, ultraottantenne, che la sofferenza e l'età hanno reso fragile e indifesa come un bambino. Ho vissuto momenti di intenso dolore ma anche di profonda disperazione, fra l'indigenza di alcuni e la compassione di molti: «Poverino», mi si diceva, e questo era tutto. Sentivo che da sola non ce l'avrei mai fatta a portare una croce così pesante!

Ma quando fui certa che stavo per andare a fondo, ecco che all'improvviso, come per incanto, mi venne tesa una mano... Questa "mano "e una famiglia composta dai genitori e quattro figli ormai adulti, che hanno capito veramente la mia sofferenza e il mio estremo bisogno di aiuto. Da quel momento sono passati nove anni e Francesco è diventato una parte di loro:

lo amano come se fosse un figlio e un fratello. Hanno condiviso con me le angosce e le speranze di questi lunghi e terribili anni. Hanno seguito e seguono mio figlio giorno dopo giorno per sostenerlo nella sua difficile crescita. E ora, se Francesco è molto migliorato, lo devo non solo alle terapie, ma sopra tutto a questa famiglia che, con tanto pazienza, esercizio e amore lo ha stimolato a camminare, lo ho aiutato a farsi capire e a vivere in mezzo agli altri. Grazie per l'aiuto grande che ancora continuate a donarmi; grazie perché voi amate Francesco così com'e, con i suoi grossi limiti; grazie per la gioia e la serenità che gli sapete infondere; grazie perché io e mio figlio non siamo più soli.

 

Maria

 

Da: "Colloqui col padre"
Famiglia Cristiana 13/1999

 

 

Grazie perché io e Francesco non siamo più soli.

 

Un angelo biondo alle soglie della notte

 

 

Sono un cardiologo. Un paio d’anni fa ho assistito a un episodio che ho custodito come un piccolo tesoro. Era ricoverato in Unità coronarica un paziente di circa 65 anni, affetto da scompenso cardiaco cronico, con una persistente difficoltà respiratoria. Durante un mio turno di guardia, la sua “fame d’aria” peggiorò improvvisamente, ad annunciare l’ormai prossima fine. La mia impotenza era totale. Ed ecco che Barbara, un’infermiera di turno, dopo avergli asciugato il sudore dal volto, come la Veronica dal volto di Cristo, gli prese il viso tra le mani accostandogli il suo e sussurrandogli parole di conforto. Un familiare forse si sarebbe disperato e non sarebbe riuscito a dire nulla, lei invece gli parlò per quasi un minuto. Non so che cosa gli disse, ma probabilmente quell’uomo non morì solo.

Se, come disse Madre Teresa di Calcutta, nel volto di un malato morente si può vedere il volto di Cristo morente, forse quel malato alle soglie del mistero pensò:

«Mia gentile infermiera, con questo gesto di pietà ti sei guadagnata il Regno dei cieli».

 

Francesco

 

Da: "Colloqui col padre"
Famiglia Cristiana 49/199
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gli prese il viso tra le mani accostandogli il suo e sussurrandogli parole di conforto.

 

 

 

Sindrome di Down

 

 

Scrivo in riferimento alla lettera della zia di Gianfranco, il ragazzo con problemi mentali, pubblicata sul numero 47 di Famiglia Cristiana.

Sano la mamma di Maria, una ragazza di 20 anni affetta da sindrome di Down e grave cordiopatia congenita. Non ci sono parole per descrivere il calvario che abbiamo vissuto in questi lunghi e terribili anni, la mia bambina, io e il resto della mia famiglia: ricoveri in ospedale, emarginazione, difficoltà o mantenere un rapporto di amicizia, altri problemi di carattere sociale. Anche noi, come tanti, siamo soli nelle difficoltà. Ho chiesto, ho bussato a molte porte, ho elemosinato aiuto fra i parenti e gli amici, e in special modo nelle comunità cristiane, ma ho solo suscitato compassione e generato rifiuto proprio da parte di quelle persone che in chiesa si mettono in prima fila e gioiosamente cantano nei cori parrocchiali. Sono stata ripresa persino dal parroco, che mi ha seriamente detto: «Ognuno porti la croce che il Signore gli ha dolo, tutti hanno problemi più o meno gravi in famiglia».

Caro padre, lei parla di solidarietà, di fratellanza. Che nobili concetti! Ma dove, se oggi è tutto egoismo e materialismo. Riguardo alle varie associazioni e poi agli operatori del settore, non danno alcun aiuto concreto alle famiglie. Tutto si ferma alla diagnosi e a una recitata comprensione.

A me la forza la dà solo il Signore, affidandomi a lui e offrendo a lui tutta la mia sofferenza giorno dopo giorno, la serenità attraverso mia figlia arriva fino a me. Nell'abbracciare lei, è come se abbracciassi Gesù. Ho trovato così la forza di fare un altro figlio e, nonostante tutto, ogni mattina vado al lavoro, mentre Maria frequenta un istituto psico-pedagogico. Purtroppo anche l'inserimento in una scuola tra i cosiddetti "normali” è stato un disastro. Ma sono serena perché questa vita è temporanea e noi mamme di handicappati siamo infine fortunate. Il Signore ci da la possibilità di guadagnarci il Paradiso.

 

Una mamma serena

 

Da: "Colloqui col padre"
Famiglia Cristiana 7/1999

 

Noi mamme di handicappati siamo infine fortunate. Il Signore ci da la possibilità di guadagnarci il Paradiso.

 

 

 

 

Anziani “dipendenti”

 

 

Sono un'anziana ammalata, che è stata in pellegrinag­gio a Lourdes nell'aprile del 1999 con l'oftal (Opera fede­rativa trasporti a Lourdes), e vorrei dire al barelliere Massi­mo Mancini di Gavirate (Va) il mio grazie per quello che ha scritto su Famiglia Cristia­na n. 16/1999.

Caro Massimo, io non la Co­nosco, ma quelle sue belle pa­role sono tutte vere Anch'io ho provato le stesse cose; ap­pena arrivata a casa, sarei tor­nata indietro subito.

So che fate molta fatica a trasportare le nostre carrozzi­ne. Siete meravigliosi. Ecco un caso accaduto a me. Tutte le mattine eravamo pronti per la visita alla Grotta e alle basili­che. Una mattina arriva una ragazzina giovane e mi chie­de: «Posso trasportare io la sua carrozzina?». «Certo, se ti senti di farlo, segui gli altri e vedrai che arriveremo anche noi». Per lei era la prima volta.

Nell'andata, tutto bene. Il ritorno è stato più duro per le salite abbastanza ripide. Tanta gente è venuta ad aiu­tare quella ragazzina corag­giosa. Grazie di cuore a tutti, ma specialmente a te, cara intrepida volontaria così gio­vane. Forse ci incontreremo ancora. Ricordi? Io avevo pu­re un bastone e sono facil­mente riconoscibile. Grazie a tutti coloro che ci sorrido­no e ci incoraggiano.

 

Lettera firmata

 

Da: "Cara famiglia"
Famiglia Cristiana

 

Grazie perché io e Francesco non siamo più soli.

 

 

La suora senza nome:

"miracolo" in carcere

 

 

Sono la madre di un dete­nuto che ne ha fatte di cotte e di crude, ha girato diverse carceri restando sempre in­correggibile, violento, pieno di sé. Ho versato tante lacri­me, ma nulla da fare Finalmente cambia ancora una vol­ta carcere e arriva ad Avezza­no (Aq). Qui incontra un’umi­le suora e un prete sereno, tranquillo, che l'accolgono carità, offrendosi di aiu­tarlo. Lui dapprima si beffa di loro poi, pian piano, la suora lo invita a cantare e a leggere le letture della Messa.

Gradualmente, mio figlio cambia. Al colloquio mi rac­conta tutto e mi dice: “Mam­ma, sai che ho iniziato a pregare e cantare? Sono più libe­ro, più calmo, non litigo più”. Ascolta anche Radio Maria, su invito dello suora che gli ha dato l'auricolare. Ora gli hanno di nuovo cambiato car­cere e lui ha pianto, perché era affezionato alla suora La sua pena è lunga, e lui scrive sempre alla suora e al prete.

Ho voluto scrivere per dire grazie; questo figlio era perso e ora è cambiato.  Su TV e giornali si vedono tante cose brut­te; “Del bene che fa una suora si parla poco”, dice mio figlio. Una suora che passa lunghe ore in carcere come volonta­ria: lei vuole aiutare queste persone che hanno sbagliato. A me basta sapere che mio figlio ora è tornato quello di pri­ma e mi ha chiesto perdono. Grazie, suora senza nome.

 

La madre dl un detenuto

 

Da: "Cara famiglia"

Famiglia Cristiana

 

 

Questo figlio era perso e ora è cambiato. 

 

 

Club Alcolisti in Trattamento

 

 

Sono un alcolista e mi scuso per il tempo che le sottraggo, ma il tempo, soprattutto quello della disperazione, non ha mai fine. Illusioni vestite di vetro mi hanno condotto alla cirrosi epatica, malattia che però non eguaglia l'inenarrabile orrore della cirrosi dell'anima.

La prima la curo con l'astinenza assoluta dall'alcol, per l'altra la sola astinenza non basta: essa porta a situazioni indescrivibili, senza speranza. Ma ecco l'intervento, direi miracoloso, di alcolisti anonimi, che mi suggerisce una risposta basata su un programma spirituale di vita e di amore. Fulcro di questa cura è il gruppo, dove attraverso la testimonianza e l'esempio di una vita senza alcol la persona-alcolista, in costante recupero, aiuta altri alcolisti a raggiungere la sobrietà: scambio e perpetuo dono d'amore! Alcolisti anonimi è un'associazione di uomini e donne che mettono in comune la loro esperienza, forza e speranza al fine di risolvere il loro problema comune e di aiutare gli altri a recuperarsi. L 'unico requisito per divenirne membri è il desiderio di smettere di bere. Non vi sono quote o tasse, non vi sono legami con alcuna setta, idea politica, organizzazione o istituzione, il nostro scopo primario è rimanere sobri e aiutare altri alcolisti a raggiungere la sobrietà.

 

Alcolista anonimo - Pordenone

 

Da: "Colloqui col padre"

Famiglia Cristiana n° 26/1999

 

 

La cirrosi epatica non è niente in confronto della cirrosi dell’anima

 

 

 

 

Opero da 10 anni in un "Club Alcolisti in Trattamento" (metodo del professor W. Hudolin, seguito da 4000 gruppi in Italia. A questi gruppi devono partecipare l'alcolista e i suoi familiari, per togliere a lui il senso di solitudine, farlo vivere con un insieme di famiglie, riacquistare la fiducia e sperare che anche per lui sia possibile smettere di bere. E i suoi famigliari devono aiutarlo collaborando a restituirgli i suoi ruolini famiglia, che aveva abbandonato.

Ecco una testimonianza di una signora che, dopo cinque anni di alcolismo, ha partecipato al CAT in cui opero e ora ha superato il primo anno di astinenza:

«Vivo con grande gioia la mia rinascita. Ho let­to su Famiglia Cristiana una richiesta di aiuto, e desidero darlo parlando della mia espe­rienza. Era diventata alcol-di­pendente per problemi Fami­liari gravi. Cominciai... e non riuscivo più a smettere, ri­schiando di incorrere nel disprezzo di parenti e conoscen­ti. Mi dicevo: "Oggi è l'ultimo giorno che bevo!.". Ma quel giorno non arrivava mai.

La sofferenza nel vedermi così ridotta mi spinse (dopo aver bevuto) a staccare il tele­fono e ingoiare tante pasti­glie di psicofarmaci. Mi sve­gliai all'ospedale, e fu allora che capii la verità sull'alcol. Noi pensiamo che un bicchie­re in più aiuti a superare i pro­blemi. Invece ne crea degli al­tri. Malgrado tutto, ora mi considero fortunata. Fre­quento il CAT, dove ho trovato persone veramente speciali, operatori, parenti, alcolisti, ciascuno cerca di dare il me­glio di se. Da tutti s'impara qualcosa, si diventa migliori e soprattutto non si giudica mai nessuno».

Da parte mia ringrazio Famiglia Cristiana perché ci aiu­ta a far conoscere a tutti che è possibile uscire dalla dipen­denza e dal tunnel dell'alcol.

 

Anna Farina - Como

 

Da: "Colloqui col padre"

Famiglia Cristiana n° 26/1999

 

 

Così l'alcolismo si può sconfiggere

 

Quegli angeli in mezzo a noi

 

 

 

Quel giorno mi trovavo in spiaggia, sotto l’ombrellone, dove mi ero recato per riprendere mia moglie e sua sorella che avevano fatto dieci giorni di mare. Era ancora presto e stavo leggendo per passare il tempo, quando la mia attenzione fu attirata da una carrozzella, che avanzava su una di quelle stradine in cemento tracciata sulla sabbia. La spingeva una donna seguita da un uomo, entrambi ancora giovani. In quella carrozzella vidi una specie di figura umana: sì, il viso e il tronco erano riconoscibili, ma non gli arti. A quelli superiori, tremendamente scheletrici, erano appese due mani con le dita piegate all’indietro. A quelli inferiori erano attaccate due piante deformi. Arrivati all’altezza del mio ombrellone, la coppia si fermò, e mentre la donna preparava la sdraio, l’uomo prese quel fardello e delicatamente ve lo posò: il suo compito, almeno lì, era esaurito. Non per la donna che sedutagli vicino cominciò a massaggiargli le braccia e le gambe con una delicatezza da struggerti l’anima. Colsi l’occasione, mi avvicinai a mia volta e tentai un dialogo che non rimase senza risposte. Il suo “bimbo” si chiamava Gianni, aveva 28 anni:

gliene avevo dati appena 12. Era nato con il cordone ombelicale al collo e l’asfissia di qualche secondo gli aveva leso il cervello con tutte le conseguenze visibili. Col cuore in gola, salutammo quella mamma coraggiosa e ritornammo sotto i nostri ombrelloni, ma senza staccare gli occhi dall’altro vicino. Quella “mamma coraggio” trovatasi sola col suo bimbo, ricominciò a massaggiargli quelle misere ossa ricoperte di sola pelle. Poi gli prendeva le dita piegate delle mani e tentava di raddrizzarle: un lavoro ripetuto mille volte, ma sempre nuovo, mentre con occhi pieni d’amore sollecitava gli altri occhi muti per un dialogo che non si sentiva ma si percepiva. E lo guardava come si ammira un gioiello, o il fiore più bello del proprio giardino. Altri pensieri avvolsero la mia mente mentre un groppone mi attanagliava la gola. Sì, una vera mamma coraggio!

Da questa pietosa vicenda vissuta, si fece strada nella mia mente una certezza: che non tutti gli angeli vivono e restano in cielo; molti, che non tutti vedono, sono in terra tra noi. E quella mamma ne era una testimonianza tangibile.

 

Gino P. (Pesaro)

 

Da: "L’angolo della speranza"

Famiglia Cristiana n° 34/2000

Una testimonianza d’amore sulle spiagge dove si ce­lebra l’esaltazione del corpo: guai se non è perfetto, abbronzato, ta­tuato... secondo i canoni in voga di anno in anno.

 

 

 

Tavolo dei dialoghi