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Scrivici, |
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Handicap e solidarietà |
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Sono un'insegnante elementare,
mamma di Francesco, un ragazzo di 13 anni affetto da sindrome di Angelman,
una rara malattia genetica che provoca un grave ritardo psicomotorio e
intellettivo. Sono sola: mio marito e mancato dopo il primo anno di
matrimonio; non ho sorelle ne' fratelli, suoceri e cognati sono
"spariti" dopo la morte di mio marito; ho solo mia madre,
ultraottantenne, che la sofferenza e l'età hanno reso fragile e indifesa come
un bambino. Ho vissuto momenti di intenso dolore ma anche di profonda
disperazione, fra l'indigenza di alcuni e la compassione di molti:
«Poverino», mi si diceva, e questo era tutto. Sentivo che da sola non ce
l'avrei mai fatta a portare una croce così pesante! Ma quando fui certa che stavo
per andare a fondo, ecco che all'improvviso, come per incanto, mi venne tesa
una mano... Questa "mano "e una famiglia composta dai genitori e
quattro figli ormai adulti, che hanno capito veramente la mia sofferenza e il
mio estremo bisogno di aiuto. Da quel momento sono passati nove anni e
Francesco è diventato una parte di loro: lo amano come se fosse un figlio
e un fratello. Hanno condiviso con me le angosce e le speranze di questi
lunghi e terribili anni. Hanno seguito e seguono mio figlio giorno dopo
giorno per sostenerlo nella sua difficile crescita. E ora, se Francesco è
molto migliorato, lo devo non solo alle terapie, ma sopra tutto a questa
famiglia che, con tanto pazienza, esercizio e amore lo ha stimolato a
camminare, lo ho aiutato a farsi capire e a vivere in mezzo agli altri.
Grazie per l'aiuto grande che ancora continuate a donarmi; grazie perché voi
amate Francesco così com'e, con i suoi grossi limiti; grazie per la gioia e
la serenità che gli sapete infondere; grazie perché io e mio figlio non siamo
più soli. Maria Da: "Colloqui col
padre" |
Grazie perché io e Francesco non siamo più soli. |
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Un angelo biondo
alle soglie della notte
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Sono un cardiologo. Un paio d’anni fa ho assistito a un episodio che ho custodito come un piccolo tesoro. Era ricoverato in Unità coronarica un paziente di circa 65 anni, affetto da scompenso cardiaco cronico, con una persistente difficoltà respiratoria. Durante un mio turno di guardia, la sua “fame d’aria” peggiorò improvvisamente, ad annunciare l’ormai prossima fine. La mia impotenza era totale. Ed ecco che Barbara, un’infermiera di turno, dopo avergli asciugato il sudore dal volto, come la Veronica dal volto di Cristo, gli prese il viso tra le mani accostandogli il suo e sussurrandogli parole di conforto. Un familiare forse si sarebbe disperato e non sarebbe riuscito a dire nulla, lei invece gli parlò per quasi un minuto. Non so che cosa gli disse, ma probabilmente quell’uomo non morì solo. Se,
come disse Madre Teresa di Calcutta, nel volto di un malato morente si può
vedere il volto di Cristo morente, forse quel malato alle soglie del mistero
pensò: «Mia
gentile infermiera, con questo gesto di pietà ti sei guadagnata il Regno dei
cieli». Francesco Da:
"Colloqui col padre" |
gli prese il viso tra le mani
accostandogli il suo e sussurrandogli parole di conforto. |
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Sindrome di
Down |
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Scrivo in riferimento alla
lettera della zia di Gianfranco, il ragazzo con problemi mentali, pubblicata
sul numero 47 di Famiglia Cristiana. Sano la mamma di Maria, una
ragazza di 20 anni affetta da sindrome di Down e grave cordiopatia congenita.
Non ci sono parole per descrivere il calvario che abbiamo vissuto in questi
lunghi e terribili anni, la mia bambina, io e il resto della mia famiglia:
ricoveri in ospedale, emarginazione, difficoltà o mantenere un rapporto di
amicizia, altri problemi di carattere sociale. Anche noi, come tanti, siamo
soli nelle difficoltà. Ho chiesto, ho bussato a molte porte, ho elemosinato
aiuto fra i parenti e gli amici, e in special modo nelle comunità cristiane,
ma ho solo suscitato compassione e generato rifiuto proprio da parte di
quelle persone che in chiesa si mettono in prima fila e gioiosamente cantano
nei cori parrocchiali. Sono stata ripresa persino dal parroco, che mi ha
seriamente detto: «Ognuno porti la croce che il Signore gli ha dolo, tutti
hanno problemi più o meno gravi in famiglia». Caro padre, lei parla di
solidarietà, di fratellanza. Che nobili concetti! Ma dove, se oggi è tutto
egoismo e materialismo. Riguardo alle varie associazioni e poi agli operatori
del settore, non danno alcun aiuto concreto alle famiglie. Tutto si ferma
alla diagnosi e a una recitata comprensione. A me la forza la dà solo il
Signore, affidandomi a lui e offrendo a lui tutta la mia sofferenza giorno
dopo giorno, la serenità attraverso mia figlia arriva fino a me.
Nell'abbracciare lei, è come se abbracciassi Gesù. Ho trovato così la forza
di fare un altro figlio e, nonostante tutto, ogni mattina vado al lavoro,
mentre Maria frequenta un istituto psico-pedagogico. Purtroppo anche
l'inserimento in una scuola tra i cosiddetti "normali” è stato un
disastro. Ma sono serena perché questa vita è temporanea e noi mamme di
handicappati siamo infine fortunate. Il Signore ci da la possibilità di
guadagnarci il Paradiso. Una mamma serena Da: "Colloqui col
padre" |
Noi mamme di
handicappati siamo infine fortunate. Il Signore ci da la possibilità di
guadagnarci il Paradiso. |
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Anziani “dipendenti” |
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Sono un'anziana
ammalata, che è stata in pellegrinaggio a Lourdes nell'aprile del 1999 con
l'oftal (Opera federativa trasporti a Lourdes), e vorrei dire al barelliere
Massimo Mancini di Gavirate (Va) il mio grazie per quello che ha scritto su
Famiglia Cristiana n. 16/1999. Caro
Massimo, io non la Conosco, ma quelle sue belle parole sono tutte vere
Anch'io ho provato le stesse cose; appena arrivata a casa, sarei tornata
indietro subito. So che
fate molta fatica a trasportare le nostre carrozzine. Siete meravigliosi.
Ecco un caso accaduto a me. Tutte le mattine eravamo pronti per la visita
alla Grotta e alle basiliche. Una mattina arriva una ragazzina giovane e mi
chiede: «Posso trasportare io la sua carrozzina?». «Certo, se ti senti di
farlo, segui gli altri e vedrai che arriveremo anche noi». Per lei era la
prima volta. Nell'andata,
tutto bene. Il ritorno è stato più duro per le salite abbastanza ripide.
Tanta gente è venuta ad aiutare quella ragazzina coraggiosa. Grazie di
cuore a tutti, ma specialmente a te, cara intrepida volontaria così giovane.
Forse ci incontreremo ancora. Ricordi? Io avevo pure un bastone e sono facilmente
riconoscibile. Grazie a tutti coloro che ci sorridono e ci incoraggiano. Lettera firmata Da: "Cara famiglia" |
Grazie perché io e Francesco non siamo più soli. |
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La suora senza nome: "miracolo" in
carcere |
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Sono la madre di un detenuto che ne ha fatte di cotte e
di crude, ha girato diverse carceri restando sempre incorreggibile, violento,
pieno di sé. Ho versato tante lacrime, ma nulla da fare Finalmente cambia
ancora una volta carcere e arriva ad Avezzano (Aq). Qui incontra un’umile
suora e un prete sereno, tranquillo, che l'accolgono carità, offrendosi di
aiutarlo. Lui dapprima si beffa di loro poi, pian piano, la suora lo invita
a cantare e a leggere le letture della Messa. Gradualmente, mio figlio cambia. Al colloquio mi racconta
tutto e mi dice: “Mamma, sai che ho iniziato a pregare e cantare? Sono più
libero, più calmo, non litigo più”. Ascolta anche Radio Maria, su invito
dello suora che gli ha dato l'auricolare. Ora gli hanno di nuovo cambiato carcere
e lui ha pianto, perché era affezionato alla suora La sua pena è lunga, e lui
scrive sempre alla suora e al prete. Ho voluto scrivere per dire grazie; questo figlio era
perso e ora è cambiato. Su TV e
giornali si vedono tante cose brutte; “Del bene che fa una suora si parla
poco”, dice mio figlio. Una suora che passa lunghe ore in carcere come
volontaria: lei vuole aiutare queste persone che hanno sbagliato. A me basta
sapere che mio figlio ora è tornato quello di prima e mi ha chiesto perdono.
Grazie, suora senza nome. La madre dl un detenuto Da: "Cara
famiglia" Famiglia Cristiana |
Questo figlio era perso
e ora è cambiato. |
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Club
Alcolisti in Trattamento |
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Sono un alcolista e mi scuso per
il tempo che le sottraggo, ma il tempo, soprattutto quello della
disperazione, non ha mai fine. Illusioni vestite di vetro mi hanno condotto
alla cirrosi epatica, malattia che però non eguaglia l'inenarrabile orrore
della cirrosi dell'anima. La prima la curo con l'astinenza
assoluta dall'alcol, per l'altra la sola astinenza non basta: essa porta a situazioni
indescrivibili, senza speranza. Ma ecco l'intervento, direi miracoloso, di
alcolisti anonimi, che mi suggerisce una risposta basata su un programma
spirituale di vita e di amore. Fulcro di questa cura è il gruppo, dove
attraverso la testimonianza e l'esempio di una vita senza alcol la
persona-alcolista, in costante recupero, aiuta altri alcolisti a raggiungere
la sobrietà: scambio e perpetuo dono d'amore! Alcolisti anonimi è
un'associazione di uomini e donne che mettono in comune la loro esperienza,
forza e speranza al fine di risolvere il loro problema comune e di aiutare
gli altri a recuperarsi. L 'unico requisito per divenirne membri è il
desiderio di smettere di bere. Non vi sono quote o tasse, non vi sono legami
con alcuna setta, idea politica, organizzazione o istituzione, il nostro
scopo primario è rimanere sobri e aiutare altri alcolisti a raggiungere la
sobrietà. Alcolista anonimo - Pordenone Da: "Colloqui col
padre" Famiglia Cristiana n°
26/1999 |
La cirrosi epatica non è niente in confronto
della cirrosi dell’anima |
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Opero da 10 anni in un
"Club Alcolisti in Trattamento" (metodo del professor W. Hudolin,
seguito da 4000 gruppi in Italia. A questi gruppi devono partecipare l'alcolista
e i suoi familiari, per togliere a lui il senso di solitudine, farlo vivere
con un insieme di famiglie, riacquistare la fiducia e sperare che anche per
lui sia possibile smettere di bere. E i suoi famigliari devono aiutarlo
collaborando a restituirgli i suoi ruolini famiglia, che aveva abbandonato. Ecco una testimonianza di una
signora che, dopo cinque anni di alcolismo, ha partecipato al CAT in cui
opero e ora ha superato il primo anno di astinenza: «Vivo
con grande gioia la mia rinascita. Ho letto su Famiglia Cristiana una
richiesta di aiuto, e desidero darlo parlando della mia esperienza. Era
diventata alcol-dipendente per problemi Familiari gravi. Cominciai... e non
riuscivo più a smettere, rischiando di incorrere nel disprezzo di parenti e
conoscenti. Mi dicevo: "Oggi è l'ultimo giorno che bevo!.". Ma
quel giorno non arrivava mai. La
sofferenza nel vedermi così ridotta mi spinse (dopo aver bevuto) a staccare
il telefono e ingoiare tante pastiglie di psicofarmaci. Mi svegliai
all'ospedale, e fu allora che capii la verità sull'alcol. Noi pensiamo che un
bicchiere in più aiuti a superare i problemi. Invece ne crea degli altri.
Malgrado tutto, ora mi considero fortunata. Frequento il CAT, dove ho
trovato persone veramente speciali, operatori, parenti, alcolisti, ciascuno
cerca di dare il meglio di se. Da tutti s'impara qualcosa, si diventa
migliori e soprattutto non si giudica mai nessuno». Da parte mia ringrazio Famiglia
Cristiana perché ci aiuta a far conoscere a tutti che è possibile uscire
dalla dipendenza e dal tunnel dell'alcol. Anna Farina - Como Da: "Colloqui col
padre" Famiglia Cristiana n°
26/1999 |
Così l'alcolismo si può sconfiggere |
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Quegli
angeli in mezzo a noi |
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Quel giorno mi trovavo in spiaggia,
sotto l’ombrellone, dove mi ero recato per riprendere mia moglie e sua
sorella che avevano fatto dieci giorni di mare. Era ancora presto e stavo
leggendo per passare il tempo, quando la mia attenzione fu attirata da una
carrozzella, che avanzava su una di quelle stradine in cemento tracciata
sulla sabbia. La spingeva una donna seguita da un uomo, entrambi ancora
giovani. In quella carrozzella vidi una specie di figura umana: sì, il viso e
il tronco erano riconoscibili, ma non gli arti. A quelli superiori,
tremendamente scheletrici, erano appese due mani con le dita piegate
all’indietro. A quelli inferiori erano attaccate due piante deformi. Arrivati
all’altezza del mio ombrellone, la coppia si fermò, e mentre la donna
preparava la sdraio, l’uomo prese quel fardello e delicatamente ve lo posò:
il suo compito, almeno lì, era esaurito. Non per la donna che sedutagli
vicino cominciò a massaggiargli le braccia e le gambe con una delicatezza da
struggerti l’anima. Colsi l’occasione, mi avvicinai a mia volta e tentai un
dialogo che non rimase senza risposte. Il suo “bimbo” si chiamava Gianni,
aveva 28 anni: gliene avevo dati appena 12. Era nato con
il cordone ombelicale al collo e l’asfissia di qualche secondo gli aveva leso
il cervello con tutte le conseguenze visibili. Col cuore in gola, salutammo
quella mamma coraggiosa e ritornammo sotto i nostri ombrelloni, ma senza staccare
gli occhi dall’altro vicino. Quella “mamma coraggio” trovatasi sola col suo
bimbo, ricominciò a massaggiargli quelle misere ossa ricoperte di sola pelle.
Poi gli prendeva le dita piegate delle mani e tentava di raddrizzarle: un
lavoro ripetuto mille volte, ma sempre nuovo, mentre con occhi pieni d’amore
sollecitava gli altri occhi muti per un dialogo che non si sentiva ma si
percepiva. E lo guardava come si ammira un gioiello, o il fiore più bello del
proprio giardino. Altri pensieri avvolsero la mia mente mentre un groppone mi
attanagliava la gola. Sì, una vera mamma coraggio! Da questa pietosa vicenda vissuta, si
fece strada nella mia mente una certezza: che non tutti gli angeli vivono e
restano in cielo; molti, che non tutti vedono, sono in terra tra noi. E
quella mamma ne era una testimonianza tangibile. Gino P. (Pesaro) Da: "L’angolo della
speranza" Famiglia Cristiana n° 34/2000 |
Una testimonianza d’amore sulle spiagge dove si
celebra l’esaltazione del corpo: guai se non è perfetto, abbronzato, tatuato...
secondo i canoni in voga di anno in anno. |
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