Si Tirano le Somme

Di De Benetti Tommaso

Dedicato a F.K. : credo che tu faccia così solo perché hai bisogno di attenzioni. Quando deciderai di cambiare, mascherina, sappi che qui c’è qualcuno che ti aspetta a braccia aperte.

"Canzone per chi non dice le cose in faccia
non chiedo che tu mi prenda fra le tue braccia
vorrei capire il tuo pensiero e basta
parlarsi in faccia è l’ideale e preferisco che sia così
le mezze parole mi fanno male e la tua maschera mi butta giù

Canzone per chi non me la racconta giusta
Non chiedo che tu mi prenda fra le tue braccia sai
Vorrei capire il tuo pensiero e basta
Vuoi farmi il pacco? Poi dimmi perché
Nella mia testa vedrò cose più vere
E ti conosco, mascherina, ti conosco
Ti riconosco mascherina, ti conosco oppo oppo
Non ti capisco mascherina ma ti conosco
Oppoppo oppoppo"

Litfiba - Mascherina

 

"La vita è come un libro aperto. Non chiuderlo prima di aver finito di leggere".

Metallica

 

I

Sapete, molte volte da giovane ho cercato di immaginare come sarebbe stata la mia morte. Avrei immaginato di morire in un incidente (e lo credetti davvero, nel ’62, quando per poco non mi investirono giù al Rose) o di vecchiaia o perché mi avrebbero sparato. Quante volte nel Vietnam ho sognato di morire per uscire da quell’inferno. Voglio morire per liberarmi di te, Vietnam mi ripetevo immerso nel fango fino alle ginocchia, mentre i miei compagni cadevano come foglie secche nel vento bucherellate dai raggi di un sole crudele.
E invece eccomi qui, ancora qui, moribondo, nel letto di casa mia, al civico 16 di J. Grace Street. Già, non me ne sono andato in nessuno di quei modi così romantici (se romantici si possono definire) di cui vi ho parlato poco fa, ma la vita mi sta abbandonando ugualmente, divorata dal flagello viscido e silenzioso, il cancro.
Non c’è niente di poetico in tutto questo. Semplicemente me ne sto andando.
Così, fra la visita di un parente e di un amico, non posso far altro che aspettare. Aspettare. Aspettare. E ripensare al passato. Sono riuscito a procurarmi una piccola agenda e una penna, con cui annoto tutto quello che ho da dire prima di essere messo sotto tre metri di terra. Se osservo la mano mentre scrivo, mi viene da ridere. Bianca, ossuta, tremolante, ben diversa dalla mano che in altri anni era appartenuta al Capitano Jason Omar Noonan. Eppure questa mano ha ancora qualcosa da fare prima di andare in pensione definitivamente. Scrivo da solo, quando i miei figli lasciano la stanza per farmi riposare. Non voglio che sappiano prima del tempo. Quando sarò morto e sepolto, bhè, questa è un’altra storia. Questo lo sto facendo soprattutto per me. Per ricordare cosa c’è stato di buono nella mia vita.
Viene per tutti, prima o poi, il momento di tirare le somme.

II

Sono settimane che i miei dolori all’intestino mi torturano. Mi rigiro continuamente nel letto e mi mordo le labbra per non chiedere aiuto. Non voglio finire i miei giorni in un ospedale. Lì mi toglierebbero anche quest’ultima soddisfazione.
E poi, anche se negli ultimi giorni la mia biancheria intima è macchiata di sangue, non voglio che i miei figli ne soffrano. Hanno i loro impegni, la loro vita, i loro bambini. Quando è morta mia madre è stata una tragedia. Medici che venivano e andavano, parenti disperati, scenate isteriche. Ricordo ancora l’impressione che fece quella vecchia in coma, candida come neve, magra da far paura a Mike e agli altri. Non voglio che anche i miei nipoti ne risentano.
Meglio che mi ricordino com’ero.
A Sarah e a Jem è stata raccontata una cosa del tipo: "Il nonno non sta molto bene, ed è meglio che lo lasciate riposare, bambini". Ieri, Jack, il mio nipote più grande, figlio di Mike, mi ha telefonato. Ho cercato di sembrare allegro e gli ho detto: "Allora Jack, come è andata domenica la partita contro i Red Ba…". "Nonno…" mi ha risposto, "io…io…"
Non ce l’ha fatta a finire la frase ed è scoppiato a piangere a dirotto. Avevo un gran nodo alla gola e stavo combattendo con lacrime prepotenti che si sforzavano di sgorgare dai miei occhi.
Digli qualcosa, Jason.
Digli qualcosa.
Ci fu una pausa lunghissima, disturbata solo dai singhiozzi spezzati di Jack e dal rumore dei miei pensieri vorticosi. Mi venne in mente solo un "Abbi cura di te, ragazzo.".
Abbi cura di te, Jack.
Aspettai un suo flebile assenso, poi riagganciai.
Non lo risentirò più, e credo che mi mancherà.

La vita è come un libro imponente e meraviglioso. Appena lo prendi in mano credi che dovrai leggere per anni, ma quando ti ritrovi con una manciata di pagine che scorrono fra dita voraci inizi a ripeterti è solo una mia impressione, non può essere già finito, vero?.
La vita funziona in modo analogo, solo che non sempre il Grande Scrittore ci soddisfa. Le ultime pagine della nostra esistenza raramente sono belle come quelle iniziali. E’ così per tutti, e tutti prima o poi saranno costretti a leggere la parola FINE dall’ultima facciata del loro libro personale. C’è chi non vorrebbe, chi lo fa con serenità, chi lo fa bruscamente e chi, come me, spera di farlo solo dopo aver assaporato il gusto del romanzo.
Chissà se è stato così.

III

In questi giorni ho pensato molto. Alla fine sono giunto alla conclusione che tutto il tempo che ho passato su questa terra si può riassumere in tre episodi fondamentali: la morte di Ryan Thomas Helburne, il mio migliore amico, in Vietnam, la prima volta che mi sono innamorato seriamente e la soddisfazione di essere cresciuto in maniera "diversa" dagli altri.
Ma andiamo con ordine. Spero di riuscire a giungere alla fine del mio racconto, perché la mano oggi tremola più del solito. Il momento si sta avvicinando, lo sento. Non sono l’unico ad averlo percepito. I miei figli gironzolano attorno alla casa da due giorni ormai. Ora sono giù in salotto a discutere della cerimonia funebre o qualcosa del genere. Li capisco.
Già da tempo ho fatto risistemare il testamento affinchè non sorgano le solite dispute per l’eredità tipiche fra fratelli. Sto solo cercando di andarmene nel modo più indolore possibile.
Credono che stia dormendo, e invece sono qui a imbrattare queste pagine stropicciate e giallastre.
Già.
Oh, accidenti, sto divagando in maniera eccessiva. Credo che sia ora che inizi il mio racconto, altrimenti rischio di morire ancor prima di aver iniziato!

Io e Ryan ci conoscevamo dall’asilo. Siamo sempre stati grandi amici. Abbiamo frequentato la stessa scuola elementare, le stesse secondarie e perfino i primi due anni del college. Ovviamente non eravamo sempre nelle stesse classi, ma comunque ci vedevamo ogni giorno. Il mio rapporto con lui era diverso rispetto a quello con gli altri ragazzi. Lui era speciale. Uno di quegli amici con cui si sperimentano le cose nuove della vita, tipo la prima sigaretta o il primo seno scoperto delle compagne. Ryan era un grande: a casa sua le cose funzionavano poco, e non passava giorno che non le prendesse dal padre Frank o dal fratello Sam, ma nonostante questo era sempre di buon umore e caricava tutti i ragazzi della compagnia. A 12 anni ci costruimmo una specie di rifugio segreto nelle cave abbandonate di Rock Ill giù vicino al lago. Solo io e lui ne conoscevamo l’ubicazione ed era un po’ il nostro posto intimo. Non fraintendete. Io e Ryan avevamo per la testa le ragazze, come tutti i mocciosi di una certa età hanno dalla preistoria a questa parte, ma quel rifugio era un posto dove noi due potevamo parlare. Del football, del baseball, delle ragazze che ci piacevano, delle sigarette, delle figurine dei giocatori, di cose da ragazzi, insomma. Non mi raccontava volentieri di quello che succedeva a casa, anche se a volte lo vedevo arrivare ricoperto di ematomi. Appena lo conobbi, cercai di essergli solidale, ma con il tempo imparai che non gradiva essere commiserato dagli amici. Con il tempo capii che Ryan preferiva tenere rinchiusi i suoi scheletri in un armadio profondo dieci metri.

Solo una volta mi raccontò qualcosa. Era veramente conciato male e quella fu la prima e ultima volta che lo vidi arrivare piagnucolando. Io ero già giù al rifugio da circa 20 minuti e ascoltavo interessato la partita di baseball con una scassatissima radiolina della Philips. Quando lo intravidi camminare sul ghiaione, mi alzai esclamando :"Ehi Ryan, vecchio figlio di puttana, sai a quanto stanno quei fottutissimi New York Y…" (quel linguaggio andava molto di moda fra i ragazzini della mia età). Avanzava barcollando, tenendosi con una mano il naso sanguinante. Aveva il sopracciglio destro distrutto e il labbro ridotto a brandelli. Piangeva, e le lacrime si mescolavano al sangue mentre imbrattavano il ghiaione candido delle cave.
Lasciai cadere al suolo la Philips (che, se non ricordo male, da quel giorno non funzionò mai più bene come prima) e gli corsi incontro per aiutarlo. Mi scostò con violenza, urlando: "Stammi lontano! Hai capito Jason? Stammi lontano!". Arrivò fino all’entrata del rifugio, poi accoccolato al suolo, iniziò un lungo pianto di dolore, intervallato da singhiozzi ritmici di incredibile intensità. Tanto intensi, ricordo, che credevo che si soffocasse.

Quando si calmò un poco, mi disse: "Sai, Sam ha combinato un bel casino con sua moglie. Credo che vogliano lasciarsi. A casa mia c’è un gran macello. Mio fratello ha avuto una discussione con Frank" (chissà perché, ma chiamava sempre suo padre per nome) "e hanno litigato. La storia riguarda l’affidamento di mio nipote, Mark.". Sospirò. Fu uno dei sospiri più tristi e carichi di significato che io abbia mai sentito. "Io me ne stavo lì per caso, ad assistere alla scena. Ero impietrito, cazzo, sì. Non li avevo mai visti litigare così. E quando si sono accorti di me mi hanno conciato così".
Iniziò a piangere di nuovo, questa volta più sommessamente.
"Da piccolo Sam mi adorava. Sai, un giorno mi aveva promesso che quando sarei stato grande e lui avrebbe avuto abbastanza soldi, saremmo andati a vivere insieme. Come veri fratelli.".
Poi lui è cambiato, avrei voluto aggiungere.
Continuando a lagnarsi, sussurrò rivolto a me: "Che devo fare Jason? Che devo fare?…".
Non ho mai risposto a quella domanda e me ne pento.

I veri casini in Vietnam scoppiarono nel 1965. A quel tempo io e Ryan eravamo già adulti ben piazzati. Da anni ormai non ci vedevamo (perlomeno da quando lasciai il college), e ritrovarmelo in squadra fu una grande sorpresa. Sembrava quasi che il destino ci avesse legato indissolubilmente. Io e Ryan. Amici nella vita, compagni nella morte.
Torniamo per un attimo alla situazione in Vietnam. A partire dal 1965 si manifestò una rapida intensificazione del conflitto. Le forze americane nei pressi di Ho Chi Minh passarono da un organico di 125.000 uomini nel luglio del ’65 a uno di 510.000 uomini nel ’68. Cristo, in quel periodo l’esercito aveva bisogno di uomini. Di qualsiasi età. Io e Ryan eravamo un po’ sopra lo standard medio, ma eravamo forti e capaci.
Né io né lui eravamo addestrati, ma poco contava. Nulla poteva prepararti a quell’inferno.
Non ho mai contato i giorni esatti, ma credo di essere sopravvissuto per circa 6 mesi. 6 mesi di agonia, di paura, di orrore. 6 mesi duranti i quali sono cambiato completamente. 6 mesi sono bastati perché l’anima mi venisse succhiata.
Fui congedato, almeno ufficialmente, per una ferita alla caviglia che non mi permetteva di combattere.
In realtà avevo già smesso di combattere da tempo.
Quando anche voi vedrete interi villaggi divorati dal napalm, uomini, americani, che si trascinano nella fanghiglia con gli arti a brandelli o che distesi in una pozza di sangue invocano con urla strazianti la vostra clemenza: "Ti prego, soldato, fai che finisca. Fammi andare via da questo posto…", capirete cosa significa l’espressione: il Vietnam gli ha succhiato l’anima.
Avevo smesso di combattere anche per un altro motivo.
Mai durante tutto l’arco della mia vita provai un orrore così profondo verso la guerra come quando morì Ryan.

Non morì in un’azione eroica o qualcosa del genere. Eravamo stati assegnati al controllo di una certa zona, chiamata SD34, se non ricordo male. La stavamo ripulendo dai dannati Vietcong, e almeno in apparenza, il nostro compito era perfettamente riuscito. Stanchi, stremati, ci eravamo seduti sugli scalini di un piccolo edificio in cemento, in parte crollato. In due giorni la nostra squadra aveva perso quattro uomini, e cibo e munizioni iniziavano a scarseggiare. Gli altri del gruppo se ne stavano in disparte a pulire le armi o a mangiucchiare carne affumicata, mentre io e Ryan stavamo discutendo di quale posto avremmo voluto visitare prima di morire. Ricordo, a lui piaceva un sacco il Messico. Diceva che avrebbe voluto avere una casa, lì, in riva al mare. C’è una spiaggia, lì, Jason, che non puoi nemmeno immaginare. La sabbia è candida, fine, soffice. Alla mattina ti alzi e senti il suono dei gabbiani e lo sciabordio delle onde. Magari in lontananza vedi un pescatore con la sua barca bianca che spiega le reti. E poi c’è il mare, con il suo profumo che ti scende fino al cuore e il suo colore, blu intenso, che ti riempie gli occhi e l’anima di uno straboccante senso di pace. Ha un nome strano, Zijuatenaio, ma esiste Jason. Ed io un giorno sarò lì.
Poi una raffica di mitra squarciò l’aria. Subito i miei uomini si alzarono in piedi, con le armi in pugno, e iniziarono a sparare nella direzione da cui provenivano i colpi.
Avvertii un dolore lancinante al piede destro.
Sentivo urla di tutti i tipi : "Ehi, Gunn, è lassù. E’ un fottutissimo muso giallo" o "Porca puttana, Dik, passami quel fucile…!".
Il mondo mi appariva avvolto da un alone bianco, lattiginoso, ma tentai di alzarmi ugualmente. Mi voltai verso Ryan, e sbraitai: "Ryan, che cazzo fai, muovi quel c…".
Ma Ryan non avrebbe mai più mosso un bel niente. Ryan che se ne stava disteso in una pozza di sangue, gorgogliando parole senza senso, mentre la vita gli scivolava via dai due fori di mitra che aveva sul torace.
Ryan che mi guardava con occhi spiritati, impauriti, vitrei, che sfrecciavano in tutte le direzioni, come per cogliere un ultimo barlume di luce terrena. Ryan che mi stringeva forte e tremava e mi diceva, incurante delle mie parole ("Oh Ryan, dai amico, tieni duro, non è niente…") e della mia fasciatura da primo soccorso: "Jas…voglio tornare a casa…Jason…voglio tornare a casa…mamma, mamma…voglio…mamma, dove sei, mamma…". Io stringevo quella maledetta fasciatura e piangevo e gli dicevo:" Dai amico, forza Ryan…dai, cazzo, che non muori…non puoi andartene così maledetto bastardo…non puoi…". Continuai ancora per qualche minuto, ma Ryan aveva smesso di respirare da un pezzo. Attorno a me i miei uomini combattevano. Sentivo i proiettili che fischiavano e che esplodevano vicino a me, ma ogni forza mi aveva abbandonato. Mi guardai le mani: sporche, callose, imbrattate del sangue del mio migliore amico.
Piansi e piansi ancora.
Ryan se n’era andato, e anch’io.
Alla fine il Vietnam aveva vinto la sua battaglia per la mia anima.

Come vi ho già detto, fui congedato per la ferita alla caviglia. Non ho più saputo niente dei miei uomini, anche se ho sognato spesso di loro. Spero che ce l’abbiano fatta, che ci siano riusciti, che se ne siano andati da quell’inferno. Lo spero per loro, e per le loro famiglie. Alcuni erano sposati, altri fidanzati, ma tutti avevano qualcuno che li attendeva a casa (Dio, come è bello essere attesi.)
Anch’io.
Passai quasi venti giorni in ospedale e per circa due mesi non riuscii a camminare senza stampelle. Mi era andata bene, e lo sapevo. Non sarei mai più riuscito a correre, o a giocare a football, o a combattere, ma mi era andata bene.
C’era una cosa che dovevo fare, e per cui avevo desiderato essere in piena forma. Andare a trovare Ryan.

Quando arrivai in quel campo, una tristezza pesante come un blocco di cemento mi piombò sulle spalle. Mancavano ancora diversi anni alla fine della guerra, eppure erano già così tante quelle maledette croci bianche, allineate come spaventapasseri falliti in un prato d’erba curatissima. Erano così tante.
Tutte uguali, eppure sotto ognuna riposava un tragedia diversa.
Trovai quella di Ryan. Riportava l’iscrizione: Ryan Thomas Helburne 1929-1965. Caduto in Vietnam servendo coraggiosamente la patria.
Non ci furono lacrime o rimpianti quel giorno. Né per me, né per Ryan. Ci fu solo odio. Odio verso la mia patria, gli Stati Uniti d’America, che per dare dimostrazione della loro forza avevano mandato al macello migliaia di uomini.

Se vi chiedete perché ho deciso di salvare questo episodio fra le cose migliori della mia vita, è perché da quel giorno il Capitano Jason Omar Noonan non è stato più lo stesso uomo.

IV

Stanotte ho sognato di lei.
La mia malattia sta peggiorando rapidamente, sono sempre stanco e dormo continuamente. Le perdite, poi, hanno iniziato a farsi preoccupanti. Stamane, al risveglio, mi sono ritrovato a navigare letteralmente nel sangue. Ormai anche il dolore non è più così intenso…sta diventando sordo, ovattato, come quasi non mi appartenesse. Ho visto Mike e mia figlia che cercavano di trattenere le lacrime mentre cambiavano le lenzuola…Mio Dio, è così penoso. Ormai sono agli sgoccioli, ma ci sono ancora due cose di cui devo parlare.
Una è lei. L’ho sognata ancora.
Si chiamava (o forse, chi lo sa, si chiama ancora) Fiona Kinney. Siamo stati compagni di classe al college, per i primi due anni. Già al primo anno eravamo amici, ma capite, era solo un rapporto da buoni compagni di classe. Il secondo anno è stato diverso. Non so cosa ci avesse fatto avvicinare, ma fatto sta che diventammo piuttosto intimi. Lei mi piaceva da impazzire: era carina, sveglia, intelligente, comprensiva…C’era molto feeling, insomma. E bhè, non lo nego, quando ero con lei stavo molto meglio di quando ero con i miei amici. Fra noi si era sviluppata una tacita intesa, una sorta di somma fra un amore platonico e una eccitante complicità.
Avevo avuto altre donne prima di lei, ma capite, non era la stessa cosa. Ho sempre voluto bene alle ragazze che hanno avuto una relazione con me. Non sono mai stato uno che pensa solo al sesso, ma fino ad allora mi ero sempre risparmiato le fatidiche parole "Ti amo".
Provo un disprezzo profondo per chi ne abusa.
Dire "Ti amo" ad una persona non è come dire "ehi baby, stasera ci divertiamo".
Credo, anzi sono sicuro, che quella fu la prima volta che mi innamorai seriamente.

Non ci ho mai provato direttamente. Sapevo che lei avrebbe accettato, glielo leggevo negli occhi, ma non era così che volevo succedesse. Ho aspettato a lungo il momento opportuno, l’attimo fuggente (come dice il buon Robin Williams, il mio attore preferito degli ultimi anni).
Carpe diem Jason, carpe diem.
Per lei ho fatto molte cose, tra cui comporre canzoni e racconti. Le piaceva molto come scrivevo.
Sempre, indipendentemente dal mio affetto, ho cercato di starle vicino. Aveva problemi in casa su cui era meglio non indagare, e ogni tanto veniva a cercare conforto da me. Intanto il nostro amore cresceva, palpitava sempre più forte, tanto da rendersi percepibile nell’aria.
Ho atteso, e atteso ancora, fino a quando non mi si presentò l’opportunità giusta.

Verso la fine del secondo anno uscimmo per un paio di giorni con la scuola in una specie di scampagnata a Pine Ill, una piccola località turistica molto frequentata in alta stagione. Sapevo che avrei presto abbandonato gli studi. I soldi in casa erano scarsi, e ora che mio padre era vicino alla pensione, servivano altre braccia forti che tirassero avanti la baracca. Quella sarebbe stata la mia ultima opportunità.
Il campeggio dove avevamo residenza a Pine Ill aveva una specie di parco giochi. Vicino al parco stava una collinetta, che durante l’inverno si riempiva di neve e veniva utilizzata dai bambini per gli slittini. In primavera, però, era incantevole. Capite, il posto adatto per guardare le stelle. Il posto adatto per lei.
Non starò qui a spiegarvi come riuscii a portarcela. Per quanti sforzi faccia, non lo ricordo. La memoria non è più un affare che mi riguarda, ma da giovane ero piuttosto sveglio.
So solo che ci trovammo presto distesi nell’erba bagnata.
Non ci fu bisogno di nessuna parola, quella sera.
Ricordo l’odore dell’erba e della terra, così fresco e avvolgente.
Ricordo la sensazione dei vestiti bagnati che si appiccicavano in grandi chiazze scure.
Ricordo i grilli che cantavano e le zanzare che, imperterrite, ci ronzavano intorno tentando di divorarci.
E poi ricordo il suo profumo, il gusto della sua pelle e delle labbra e il fastidio che mi provocava la sensazione di essere osservato da miliardi di stelle.
Ma le stelle, per fortuna, non sanno parlare.

Non ci fu mai più niente come quella sera. Nessuna parola, nessuno commento, fino alla fine dell’anno. Certo, continuammo a frequentarci, ma da amici.
L’ultimo giorno di scuola, fu così triste.
Negli ultimi minuti in genere ci si saluta fra compagni, ci si abbraccia, si dice: "Ci rivediamo a Settembre, no?". Non fu così per me. Non potevo dire a nessuno "Ci rivediamo a Settembre, no?". Nonostante questo, tutti mi salutarono calorosamente, e una mia compagna, Janet, si commosse addirittura. Ma mi sentivo un po’ alieno a quella cerimonia, perché la mia mente era rivolta altrove.
Dovevo ancora salutare Fiona.
Avevo l’impressione che avesse tentato di evitare quel momento.
Quando, imbarazzato, mi parai davanti a lei, tentai di attaccare il discorso che mi ero accuratamente preparato a casa: "Fiona…senti…dopo quella sera…".
Mi premette dolcemente l’indice sulla bocca, come per invitarmi a tacere.
Disse solo: "Arrivederci Jason. Stammi bene.".
Mi allontanai, completamente spiazzato. Fiona passò ad altri compagni, ma sono sicuro di aver scorto, in quel momento, un’ombra passeggera nel suo sguardo.
Deluso e amareggiato, uscii dall’aula e mi allontanai lungo i corridoi della scuola. Al suono della campanella, un’ondata di adolescenti urlanti mi travolse. Per loro era iniziata l’estate.
Per me, solo un arido e freddo vuoto interiore.
Mi sorpassarono anche i miei compagni e alcuni di loro mi rivolsero l’ultimo saluto.
Quando ormai credevo di essere rimasto solo nella scuola deserta, un rumore di passi attirò la mia attenzione. Da dietro, due esili braccia familiari mi strinsero forte.
Potevo sentire sulla schiena la pressione del suo seno e del volto fremente.
Presto percepii il caldo lamento di lacrime sincere che scivolavano lungo la mia pelle come biglie argentate, andando a bagnare i jeans o le scarpe.
Rimasi così, fermo, immobile, ad ascoltare i suoi singhiozzi per molto tempo.

Non l’ho più rivista dopo quel giorno. Un paio di volte mi è venuta la tentazione di chiamarla, ma poi la paura a preso il sopravvento.
Ho amato solo un’altra donna nella mia vita, mia moglie.
Ma ve lo posso assicurare, nemmeno la mia malattia mi farà dimenticare Fiona Kinney e le Stelle Guardone.

V

La morte è alle porte. La sento addosso, sulle lenzuola, nell’aria.
Sembra tutto così vecchio, così ancestrale, attorno a me.
Vedo la polvere illuminata dal sole che vortica in aria e mi sembra di aver già vissuto questa scena. Oggi è l’ultimo giorno, lo so. Non potete immaginare con quale sforzo io stia scrivendo, vergando, queste pagine, ma ora che ho iniziato, finirò.
Fiona e Ryan hanno avuto la loro parte, ed ora tocca a me.
Non mi sono mai ritenuto modesto e non sono mai stato in grado di fingere di esserlo. Ho sempre creduto, e a ragione, di avere delle qualità. Sono cresciuto, sissignori, in maniera completamente diversa dagli altri. Amavo i libri, la cultura, l’arte. Riderete, ora, ma ai miei tempi (Dio, che deprimente questa espressione) i giovani erano interessati al football, alla birra e alle donne. Stop. L’ignoranza regnava sovrana (e, lo sapete meglio di me, in gran parte regna ancora). Fin da ragazzo mi rifugiavo nelle mie letture, forse ingenue, ma utili. Quando gli altri mi prendevano in giro, mi canzonavano o tentavano di rendermi partecipe dei loro stupidi discorsi, non facevo altro che alzarmi e andarmene. Me ne andavo perché io ero diverso, migliore. Non mi vergogno a dirlo, reputavo l’80% dei miei coetanei come stupidi agglomerati di organi inutili ammassati a caso. Feccia. Forse ero razzista, utopico, e forse lo sono ancora.

L’umanità, per me, si divide in tre grandi classi: gli stupidi, gli indifferenti e le persone speciali.
Fiona e Ryan appartenevano alla terza categoria.
Gli stupidi non sono quelli che non capiscono nulla di matematica o di fisica nucleare. Sono quelli troppo immaturi per la vita. Quelli che non si sanno rapportare con le persone, che non sanno imparare dai loro errori, che non sanno crescere.
Gli indifferenti sono invece quelli che vivacchiano a sprazzi, a periodi. Quelli capaci di fare discorsi molto intelligenti e di sostenere anche immense fesserie.
Le persone speciali, forse, sono paradossalmente quelle che dalla vita vengono più deluse, che credono che viviamo in un mondo schifoso e corrotto che sarebbe completamente da rifare, dove viene premiato solo chi è più arrogante o chi può offrire più denaro. Mi ritengo un elitario, signori, e a ragione, credo di potermene vantare.

Addio.

Spero che presto qualcuno trovi questi miei appunti. Spero che gli servano per capire e per cercare di vivere diversamente il tempo che gli rimane. Spero che gli servano per non arrivare impreparato al momento in cui si tirano le somme.

VI

Sento delle voci…

…lontane…

E’ tutto bianco e caldo e morbido qui.

Sembra quasi…quasi di volare…

Che bianco accecante…gli occhi, però non fanno male…

Mike…!

Lo sento e lo vedo come attraverso una pellicola biancastra…sento la sua voce che si propaga distorta in questo bianco intenso…

Sta…

Piangendo.

Sono morto.

Mike…mi dispiace figlio mio.

E così, dopo tutti questi dubbi, queste paure, queste frustrazioni, questo dolore…sono morto…

Ma non è qui il mio posto…

So di dover partire per un posto più lontano, più grande, più accecante.

Definitivamente lontano dai miei cari e dalle preoccupazioni terrene.

In un altro luogo.

In un altro tempo.

Ma lo so, quei miei appunti rappresentano il fulcro, il senso della mia vita.

Ora lo so, lo posso dire: io ho vissuto.
 
 
 
 
 
 

NOTE DELL’AUTORE

Questo racconto è in larga parte autobiografico. Ovviamente non sto morendo e nessun amico mi è scomparso in Vietnam (…), ma qui dentro stanno racchiuse gran parte delle mie idee, dei miei sentimenti, delle mie convinzioni. Alcuni di voi forse avranno notato delle citazioni da altri libri, o film: qui dentro ho cercato di metterci tutto il mio repertorio migliore: da Stephen King a Enrico Brizzi fino a L’Attimo Fuggente. Il risultato non è sgradevole e penso che questi grandi autori, anche se non mi conoscono, mi perdoneranno. Chiedo scusa in anticipo per le imperfezioni sulla guerra in Vietnam (un grazie ad Andrea Fontanelli, che con la sua proverbiale conoscenza bellica mi ha permesso di rendere il tutto perlomeno credibile) e sul sistema scolastico americano, ma reperire informazioni esatte è piuttosto arduo.

E poi, in fondo, come dice King: non è la storia, ma colui che la racconta.
 
 
 

Tommaso De Benetti, marzo/maggio 1999

 

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