Metropoli
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Non è quasi mai nella meta il sapore di una vita: è nel percorso.

Metropoli

La vita si sgretola come l'intonaco da un muro. È sotto gli occhi di tutti. E io e te gattina dovremmo stare a ripeterci nelle nostre tabaccherie, nelle nostre osterie, al pallido sole ticchettante della crescita più lenta e noiosa che si sia mai vista? Rischiamo di perderci lo schiudersi dei fiori quando instono che sia ancora estate, il fango che sporca le ruote delle automobili, i semi d'inverno che aspettano sotto la neve, privi di ansia. Mi trovo nel bel mezzo di una strada. Rumoreggio e inquino. Mentre altri cercano di convincermi a non inquinare, inquinandomi l'anima. (È il mio regalo al mondo, l'umanità che lascio dopo la morte.) Da un lato ci sei tu, che mi prometti orgasmi dal suono di organi azzurri, che profumano di cardamomo e di legna bagnata. Dolcezza liquida che mi sporca la bocca. Vento. Dall'altro passioni che farebbero impallidire il fuoco più vivido e intenso. Così povere che riescono appena a tenere in vita, lamentadosi e strisciando agognanti verso una fine con i conti in pari. Ho visto le nubi disegnare forme mai viste prima - e anche domani ne vedrò. Ho visto sterpi e cespugli vincere la morsa impietosa dei piani regolatori. Ho visto uomini e donne dimenticare di avere cazzi, fighe, palle, seni, gambe, bocche. Ho visto mani che dimenticavano di toccare e di creare, ubriacate da anime pervertite. Ho visto perversioni maleodoranti e putrescenti mortificare i sensi, pareggiare i conti, rispettare scadenze. Io voglio morire pieno di debiti. E di crediti. Voglio che non si capisca un accidente, quando muoio. Voglio sapere che alcuni salteranno di gioia e rideranno grasse risate, il giorno della mia morte. E voglio che qualcuno resti allibito, col senso di colpa per tutto quello che ha ricevuto, senza compenso. Voglio morire con il rosso in banca. Quando morirò donerò tutto il mio scoperto, se ne avrò ancora.
Tutto quello che possiamo fare è creare. E per creare bisogna abbandonare le strade segnate da rassicuranti linee bianche. Su ogni strada è già passato qualcuno e la meta è stata già raggiunta. Solo creando possiamo vivere. Non è arte. È molto oltre l'arte. È l'arte senza bisogno dell'artista. O ancora meglio dell'opera. Non c'è bisogno di fare. Dobbiamo essere. Come quando vibri tra le mie mani, batuffolina. Come quando mi senti dentro di te e ti parlo e non voglio andarmene. Come quando mi fermo e non mi muovo. E aspetto che tu sia in imbarazzo e la tua voce. E all'improvviso mi muovo. Come quando non sai più nulla. Non sai chi sei, non sai perché stai facendo quelle cose, non sai che cosa potrebbe succedere. Aspetti solo che io mi muova e non desideri altro e senti la mia voce parlarmi e ti perdi. E non sai più cosa dico, ma sai perfettamente che te lo sto dicendo e come lo sto dicendo. E desideri che io non smetta di violarti e di parlarti e non sai nient'altro. Nient'altro ha importanza perché nient'altro è oltre la mia bocca, le tue gambe che si muovono, le mie mani. E allora si riescono a fare cose prodigiose. Accarezzare con la voce, baciare con le parole, parlare con le mani, succhiare i ventri e mordere le anime.
Ci sono ricordi che mi ricordano questi momenti. Quando sono in moto o in bici. Quando rido fragorosamente o bacio un'amica o un amico. Quando sono intento a strariparmi attraverso una parola o un colore. Quando dormo. Posso sentirmi invincibile e posso produrre un mondo in un giorno. Posso creare un'idea o un discorso. Posso perfino guadagnare denaro. Il ghiaccio è sciolto. E sono eterno.

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Posto fisso

Scrivanie, poltroncine molleggiate con braccioli, telefono, fax, computer, aria condizionata che soffia la parola "efficienza" contro il pigro caldo dell'estate, mouse, posaceneri nei corridoi, moquette, cravatte indossate sì, ma con disinvoltura, prese di corrente, scatoloni, ascensori, uscite di emergenza, luci al neon, vignette di Lupo Alberto una porta sì e una no, volti maschili sbarbati - tranne un ciuffetto scampato miracolosamente - e profumati di profumeria, tacchi di donne non troppo alti e non troppo appuntiti, gonne non troppo corte, trucco non troppo forte, jeans non troppo stretti, capelli non troppo lunghi, musica non troppo forte, non troppo audace.. Cordiali, ma non troppo, amichevoli.
E carte, firme, timbri, matricole, titoli, profili, curriculum (lo so, si dice "curricula", cristo!), stagisti, tecnici, dirigenti, tecnologi, direttori, operai, superiori, che sono superiori quando parlano con A ma diventano improvvisamente inferiori quando si voltano a rispondere ossequiosamente a B, donne incinte, donne mamme, la casa, i figli, la taglia che aumenta, la squadra che vince e che perde, le vacanze a Bali (mi raccomando, in un residence in tutto uguale a quello di Viareggio, l'anno scorso), a Cortina, anche se non so sciare prendo il sole, Claudia Shiffer o Naomi Campbell, le tette di una sul desktop, le mail spiritose (che tristi!), la raccolta dei soldi per un bimbo africano che siamo riusciti a contattare "ah com'è sollevato i mio senso di colpa!", le ferie, le furie, le invidie, le buone maniere che coprono - funebri - la putrefazione, le gite aziendali, il telefono che non lo pago!
I cazzi le madonne, le bestemmie, il disgusto, la vergogna per loro. Mi chiudo mi chiudo mi chiudo, "datemi questo cazzo di lavoro e sparite veloci sui vostri scooter lucidi", vi ridarò una cosa fatta così bene che non la capirete, cercherò di mettere brio, di stare nell'animo di chi - annoiato - si rivolge qui. Ma voi non ce l'avete un'anima. O un corpo. Il comunicato stampa.

Una balena nuota nell'Oceano. È maestosa, grande, ha grazia, è infinitamente viva. Si nutre e nuota, si accoppia urlando e giocando, partorisce soffrendo, nutre a sua volta e insegna.
Un giorno qualcuno le dice: "questa è la tua vasca". E non sente più il richiamo del compagno che è lì, nella stessa vasca. E non si accoppia più. Lassù, in alto, c'è il sole. Vuole fuggire.

Oggi, finalmente, ho una giornata distesa al lavoro.

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Anima

Pensare al senso della vita. Qualche volta lo faccio anch'io. Mi siedo su questa poltrona e penso alle cose, a tutte le cose insieme. Certo fa un po' ridere, fa un po' patetico. Ma lo fanno tutti e la vergogna è una virtù che non conosco.
Allora mi capita in mente tutto. Io, gli uomini, la storia del mondo, le donne e i loro seni, i paesaggi, l'infanzia, la vecchiaia, la morte. Abbarbicati sui loro posti di lavoro tutti lo fanno. E tutti tirano fuori le loro verità del cazzo, come le mie. Grande!
Il bello però è quando quacuno cerca di metterci dentro l'anima. O dio o il senso morale o le virtù. Stronzate! Si fa in tempo a fare qualche giro su questo sasso, e basta.
Spargere. Molti spargono verità come una metafora del seme, per frustrazione forse. Per passare alla storia, magari. Lo faccio anch'io, ovvio. Tutto sta a eliminare l'anima. Lo dice Henry Miller, non lo dico io. Lo dice perfino Lenin.
Il casino è quando i pensieri si sollevano dal corpo, ubriacandosi di loro stessi. È il prezzo della civiltà, del progresso. Si vive rannicchiati nei lavori di concetto, nelle telefonate, nell'esposizione, nei libri. L'astrazione è uno strumento diabolico che divora. Mostra mondi immaginari rendendo dipendenti. Una droga. L'arte sublime della teorizzazione smette di essere strumento di sopravvivenza e diventa essa stessa vita. Le conversazioni infiacchiscono. Tutto non è come dovrebbe essere e tutti si sforzano - mentalmente, solo mentalmente! - di piegare il mondo alla loro teoria. Diventa difficile - troppo difficile! - vivere le cose, sentirle, elaborarle, improvvisare.
L'astrazione annebbia completamente la vita. Le città sono serbatoi che contengono mondi astratti. Sempre più mondi. Alveari che accrescono continuamente il numero delle loro minuscole celle. Ciascuna delle quali offre altri mondi astratti a buon mercato e almeno un essere pensante, drogato. Corpi in trance immobili e afflitti dal come dovrebbe essere, paralizzati mentre spendono la loro energia nel tentativo fallimetnare di godere della loro astrazione. Il male da individuale diventa sociale. Tutti faticano compiendo lavori che alimentino il pensiero immateriale altrui, gratificati e ricompensati. Travolti al punto da non poter vedere l'obbrobrio delle periferie, la storia che diventa nera di smog sui muri di travertino, i corpi che hanno paura di toccarsi e di guardarsi, i corpi che hanno paura di se stessi, perfino. Ricoperti, truccati, rasati, modificati, nascosti da tessuti che li portino verso un ideale teorico, profumati di profumi innaturali - "eau du soir", preservativi alla fragola. E tutti mangiano a dismisura, bevono a dismisura, fumano a dismisura, vanno in palestra a dismisura, si fanno a dismisura, si amano a dismisura, si lasciano a dismisura, corrono a dismisura sulle auto che non sono mai abbastanza potenti. E per tutte quelle cose c'è una motivazione. Lucida, teorica, dimostrabile. Oppure senza quella c'è vergogna. Un malessere intimo e frustrante. Chi corre troppo in auto non lo racconta a nessuno. Correre non ha anima.
Io invece voglio levare una voce a favore di chi corre sul GRA. Di chi beve troppo, di chi si nutre senza rispetto, di chi spende gli ultimi soldi per una canna, per una dose. Tutti hanno bisogno di riportare al corpo la loro mente. Come i tossici. Come i palestrati. Come le donne che spendono ore a piacersi e a imbellettarsi. Adrenalina, se occorre.
Il dualismo cristiano tra corpo e anima ha distrutto il mondo occidentale. Ha agito come un cancro, mutilando i corpi del loro cervello. Tenuto vivo "in vitro" in luoghi separati dagli altri organi. Ammassi dimenticati. "Organismo", dal greco. È una parola precristiana. Le parti concorrono a formare un tutto. La cristianità preferisce usare "corpo". Empio, distante, volgare. Il corpo di Cristo. Lo stesso Dio si è degnato di dotarsi di un corpo per poi sacrificarlo e umiliarlo. L'ha fatto in mille pezzi per darcelo in pasto. Cannibalismo. Ha fatto di tutto per inquietarci e per disgustarci. E ha inventato l'anima, che succhia le idee e non ha sensazioni e per questo è schiava. I predicatori e gli inquisitori avevano bisogno di contrastare le altre divinità, che hanno chiamato pagane. Il desiderio di strapotere ha ucciso Pan, Jezebel, Khalì, la loro natura positiva. E dall'immagine di Pan - un fauno, gaudente e ammiccante - ha costruito il Demonio. In tutto identico a Pan nell'iconografia, ma privo del flauto, della musica. Prima della cristianità, Venere e Giunone sedevano alla stessa mensa di Minerva. Passione, fertilità e conoscenza. Il dualismo gnoseologico ha separato male e bene, Venere e Minerva. E la fertilità si è avvizzita, inaridita, umiliata. Ne sopravvivono un ricordo nei teoremi e nelle corse in automobile.

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Biochimica

Le endorfine schizzano a mille. L'adrenalina invade il sangue. La serotonina culla la mente. Il testosterone pulsa. La melanina pascola il sole sotto la pelle. La tiroide lavora con costanza.
Che bella la biochimica!

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Ore

Cercavi la debolezza? Il vizio? Il difetto? L'errore?
Bene, li hai trovati!
Hanno festeggiato per conto loro nelle ultime ventiquattr'ore, impiastricciando con scarpe inzaccherate la dimora senza sorveglianza del mio stato d'animo.
OK, provo a ricostruire.

27. ore 14.30
Cado con la moto secondo la tradizione migliore. Rido gaiamente del fatto, ma riporto due tagli profondi (uno in un piede).

27. ore 14.45
Stampo e leggo in fretta la mail alla frutta di Paolagapanto. C'è molto di lei: voglio risponderle ma non voglio allacciare una "corrispondenza". Lecco le ferite e mi accingo a leggere e a riflettere.

27. ore 15.15
Il cellulino squilla allegramente "paolagapanto". Mi chiama mentre sta uscendo, mentre ho appena ordinato, mentre converso con la cameriera dai capelli corti e gli occhi di vetro. Controllo nervosametne lo stato della batteria e mi irrito: le conversazioni a voce non funzionano mai bene, ma imputo questo fatto ad una inopportuna scelta di tempi - anzi ad una totale assenza di scelta di tempi. Non riesco a pensare al caso e incolpo Paola di ignorare deliberatametne le difficoltà nell'usare il telefono qui. Non avrei dovuto portarlo, penso.
Noto con piacere che alcune curiosità sono scattate in lei e osservo compiaciuto il suo acume nel sondarmi. Mi accorgo di pensare a lei ben oltre quanto la prudenza mi suggerisca.

27. ore 15.45
Il pomeriggio scorre bene. Mi diverte che il tavolino che occupo diventi il centro di un piccolo crocchio di persone e mi compiaccio di avere questo magnetismo. La medaglia si rovescia per le continue telefonate che ricevo e che mi infastidiscono come mosche. Stabilisco di cedere ai miei amici l'indomani, a Claudia questa sera. Riparazioni alla moto e mare.
La mail alla frutta di Paolagapanto continua a graffiarmi con parole come "aulico", "etereo", "idealizzato" e "incontro-scontro". Meno male che si attribuisce la paternità-maternità dei concetti. Accenno a una risposta il cui registro - arenato - non mi piace.

27. ore 20.30
Ristorantucolo del campeggio. Insacco in bocca la prima forchettata di gnocchetti sardi agli scampi (secondo pasto regolare, in questi giorni) e subito il telefono mi pigola Claudia. (Perché non lo spengo, mentre mangio? Non mi aspetto nessuna telefonata che possa avere un buon sapore.) Mi stordisce con le vicende del suo uomo-despota da 3 soldi e soffre la distanza che ci separa, fisica e mentale. Mi stancano le parole, condimento eccessivo su un piatto davvero modesto, mi dispiace. Lei non ha il coraggio delle sue scelte e già non mi dà più nulla. Mi tuffo nel cibo. La cameriera mi strizza l'occhio omettendo la frittura dal mio conto.

27. ore 22.00
Riprendo i fogllietti e rispondo al frullato. C'è una festa - credo un compleanno - tra i ragazzetti del campeggio. La musica è fortissima e mi diverte. Scrivo di getto, bevendo caipiriña. Mi compiaccio di gettare bottiglie di plastica e animali morti su questo idillio telematico. Mi infastidisce che Paola si sia ritratta borbottando maleducatamente la sua diffidenza e che Agapanto impaziente faccia chiasso per coprire il suono delle sue parole. L'altra mail che avevo iniziato era molto più bella, ma quella di adesso mi corrisponde di più. Vado a dormire, al solito, da solo.

28. ore 9.00
È sempre difficile entrare nelle atmosfere di Mishima, soprattutto se inzaccherate da pittoresche telefonate dal registro "Allora? Andiamo?" Il telefono saltella senza eleganza: datemi solo un'ora e un luogo, vi prego.

28. ore 10.30
Parto verso l'ora e il luogo. Corro tra il traffico di auto cariche di ombrelloni, bambini, surf, materassini e corpi. Io non ho nemmeno un asciugamani. Mi abbandono a sorpassi, peighe mozzafiato e accelerazioni. Nell'alluminio della moto c'è un sorridente spiritello teppista.

28. ore 13.15
Abbadono la piccola carovana di due auto degli "amici in Sardegna riuniti". Valentina si è svegliatata, Eleonora ha preparato i panini, Stefano ha comprato il cocomero, Massimo ha parcheggiato lontano.. bisogna solo cercare il posto!
Voglio bene davvero a tutti loro, ma siamo su lunghezze d'onda del tutto differenti. Mi pianto in sciopero ad un bar affidando al telefono le nostre possibilità di incontrarci, quando avranno deciso. La birra è ghiacciata e riprendo a pomiciare col mio Mishima (Il padiglione d'oro), ma per Claudia sono raggiungibile. Non so se mi avviliscono di più i suoi passi indietro o la mia indifferenza. La telefonata dura 3/4 d'ora.

28. ore 14.00
Ho ancora il telefono in mano: la destinazione mii viene comunicata.
Il pomeriggio trascorre sugli scogli al lato di una spiaggia turistica, acquascooter e gommoni festeggiano la loro estate davanti a noi: non è il mio quadretto.
Stefano parla ininterrottamente, Massimo vuole prendere un polpo (che non prede), Eleonora prepara panini, la cerimonia dell'anguria è il clou del divertimento. Non riesco a leggere, ovviamente.

28. ore 17.30
Decido di andarmene, ma mi fa lo sgambetto un disonvolto "andiamo via tutti".

28. ore 18.30
In un tempo trascurabile raccolgo il mio libro e il casco e sciolgo la palma formata da buona parte dei capelli sulla mia testa. Nell'ora rimanente osservo i miei amici preparare i "bagagli": la mia libertà selvatica insaccata tra gli avanzi dei panini che non ho mangiato.
Il commiato si risolve in un impietoso appuntamento alle 21.30, in un fantomatico ristorante scelto secondo criteri incomprensibili da Valentina e Massimo. Qualcuno si fermerà a prenotare.
Mi sento stanco e saturo di quel pomeriggio di colore sbiadito, ma ho promesso a me stesso e ci sarò. Confido su queste 3 ore (pretesto doccia) per ricaricarmi.
Sono stato raggiungibile quasi tutto il tempo: Paolagapanto non mi ha cercato, ma d'altra parte la prossima mossa spetta a me.

28. ore 18.31
Insacco una strada qualunque e prendo una boccata di libertà, ma subito il cellulare mi squilla nel casco: "hai sbagliato strada!", mi avvertono. Invento una motivazione poco credibile per spartire i criteri inguinali con cui scelgo i miei percorsi. Cerco di convincermi che è per abitudine e non per Paolagapanto che ho l'auricolare.

28. ore 19.30
In un'ora ho percorso, allungando, la strada che all'andata mi era costata quasi il quadruplo, tra un'appuntamento e un'indecisione. Il sale sulla pelle vale mille sciampi o saponi e mi dirigo al bar da cui posso scriverle. Sgomito nella fila e copio di corsa i miei foglietti: rigiro in html e butto in uno spazio qualunque. È passato troppo tempo da quando ho scritto e non mi convince più. Nemmeno rileggo.

28. ore 20.30
Bamcomat, sigarette.. Mishima è nel casco, ma non è aria. Compro il manifesto e mi siedo al bar - quello della telefonata. Non riesco a rimanere indifferente alle miserie tracciate deliberatamente in Palestina.

28. ore 20.50
Il telefono mi bippa una sua mail. Leggo nell'inizio che ha pazienza e questo mi conforta: sono vuoto, oggi.

28. ore 21.00
Telefono, Stefano: niente ristorante. Non c'è posto, è brutto e sul porticato sventola una patetica bandiera inneggiante a "Berlusconi Presidente". Ognuno per sé e dio per tutti.
Sorrido, ma un senso di squallore mi insaporisce la bocca. Un senso di vecchiaia che non so se venga da me, che ambisco sempre più all'impossibile, o dai miei amici - alcuni di sempre - che sembrano aver esaurito il carburante, non avere più nulla da dire.

28. ore 21.04
Resto a pensare nel bar che si affolla. Mi perdo a riflettere sulla misantropia che mi assale da qualche mese come una malattia. Traccio un bilancio e mi accorgo di dare molto più di quanto ricevo, al mio prossimo. Il telefono molto più impegnato a a ricevere che a cercare ne è la conferma. Mi chiedo senza rispondermi se sono troppo munifico o se semplicemente non so scegliermi il prossimo. Ripenso al mio frugare pigramente per ambienti umani selezionati in modo così trasversale, poco affine a me. Ripenso a Paola, alla domanda che non sono mai riuscito a farle sul suo "perché" - sì, il fatto del bambino.. E a tutte le domande che non riesco a farle, al fatto che quando cerco Paola trovo Agapanto immateriale e quando certo Agapanto trovo Paola prudente. Mi chiedo se il gioco è consapevole.

28. ore 21.30
Mi dirigo pigramente alla sua nuova mail. La sua pazienza mi conforta - oggi non è la mia giornata. La leggo in fretta ed esco, preferendo un riservato scalino sulla piazza.
Sono incazzatissimo!
Di cosa vogliamo parlare? Del tempo che, a parte oggi, è così generoso con me in questi giorni? O vogliamo dissertare sul "computer perduto" e dei tempi moderni, in cui un computer non mi sembra più "perduto" di un telefono? Forse i "ben altri pensieri" si riferiscono a divertenti scopatine estive? Vogliamo tornare al bar, dalla ragazzetta dagli occhi di vetro? (lavora fino alla 9..) In fondo ho ancora la serata libera.. Oppure vogliamo andare in discoteca, magari per trovare una donna dagli occhi agapanto, meglio se con la testa vuota?
Magari quella della mail è un'amichevole e sincera preoccupazione, in fondo. Non sopporto la banalità.

28. ore 22.10
Il telefono mi scuote ancora: Eleonora e Stefano vengono in paese. Sono stanco e vorrei andarmene.

28. ore 22.15
Vado avanti a verificare di aver firmato "Serio". Mi irrita da morire dover ammettere che il lapsus appare tremendamente freudiano e che la speranza di Paolagapanto sia tutta nella tastiera. Le campane del disordine suonano forte nella mia testa. Penso alla solitudine come a un allucinogeno.
Si finisce con una treccia viola e blu. Un boccone appetitoso per il mio umore, che mi viene agitato davanti al di là del del vetro blindato dell'inconsistenza. Il parrucchiere per una donna è come una massaggio al cervello, penso. Per un uomo però è un giardiniere - di quelli veri - che decora un orto di frutti.
Il gioco, condotto al riparo dai sensi, ravviva il fuoco di questo fastidio.

28. ore 22.30
Faccio un giro, torno allo scalino. Ho un senso di sfinimento mentale. Vorrei chiamare Paolagapanto, ma non ho l'umore giusto. Penso alla ricerca dei punti deboli, ma l'esperienza mi insegna che quando vengono fuori quegli sguardi sono sempre attoniti e imbambolati e snocciolano banalità.
Mosso da orgogliosa distruttività, ticchetto nel telefono la url di quello che le ho scritto, pensando più ai probabili errori di battitura - macché freudiani! - e all'aspetto sciatto, che alla delicatezza del contenuto e al fatto che avrei voluto riscrivere alcune parti, forse tutto! Mi sento scomposto: mi manca Paolagapanto! Mi do fastidio..

28. ore 22.45
Arrivano Eleonora e Stefano mentre invio - di nuovo non rileggo - e mi lascio portare da loro. Mi annoio e non so su quale piede zoppicare: ho un taglio netto sulla pianta del piede che si era stalvato dalla caduta. Finiamo in un bar per turisti dalle assurde pretese: la caipiriña ha il limone al posto del lime e la barbabietola ha donato il suo zucchero bianco al posto della canna. Il barista, sornione, ha la faccia di quello che ti ha fregato. Bah..
Stefano mi parla del suo lavoro.

29. ore 00.30
Mi sono annoiato in modo deprimente. Massimo ha telefonato: ha litigato a morte con Valentina e da 3 ore non sa dove sia. Nella mia testa si forma come una nuvoletta un grandioso "'sti cazzi", che naturalmente taccio, sorridendo.

29. ore 01.00
Finalmente e definitivamente solo. La sensazione è quella di aver inghiottito un grosso boccone amaro, ormai andato giù. Il sapore sgradevole resta ancora in bocca, ma non durerà. Ognuno ha le proprie sventure e non ho certo da lamentarmi. Il sonno che raggiungerò facilmente stenderà una solida coltre parcheggiando questa giornata nel serbatoio dei ricordi, affidandomi alle mie capacità rigenerative.
Mi chiedo se questa giornata mi sia costata Paola e Agapanto e se a lei sia costata la perdita di una sincerità a cui non aveva creduto. La vita ha un prezzo a volte caro.
Domani parto: si cambia!

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