Cornelia
Dopo un lungo silenzio, dovuto a molteplici ragioni, tra le quali un intenso lavoro per la scuola, desidero raccontare le mie impressioni dopo il talk show a cui ho assistito la sera del 27 giugno al centro di Cultura Ebraica Pitigliani, "Donne e politica".
Mi hanno interessato essenzialmente due interventi, quello di Claudia Fellus e quello di Tullia Zevi.
La prima ha raccontato un episodio accadutole quando viveva in Israele, che emblematicamente sottolinea la differente mentalità politica dell'uomo e della donna. Ogni venerdì le donne in nero, sia israeliane che palestinesi, manifestano silenziosamente, in piazza, a Gerusalemme contro ogni forma di violenza e perché si giunga ad una giusta pace.
Anche io nel 1997, quando ero a Gerusalemme con l'Associazione per la pace nell'ambito dell'iniziativa Jerusalem: two capitals for two states, ho partecipato a questa manifestazione che si tiene a Gerusalemme Ovest, la parte della città ebraica, e ho costatato l'insofferenza di molti passanti, guidatori di taxi per esempio, verso tale iniziativa.
Una volta alla relatrice Claudia è capitato di assistere ad un alterco piuttosto animato tra un uomo e una di queste donne in nero: non le sembrava la solita schermaglia che spesso in queste situazioni si vede, l'uomo era molto concitato e apostrofava la donna "Traditrice!". Claudia perciò ha domandato ad alcuni presenti quale fosse la causa di tanto livore. Le hanno riferito che entrambi, l'uomo e la donna, israeliani, avevano avuto la disgrazia di vedere morire ciascuno un proprio figlio in scontri e attentati, tanto frequenti purtroppo, che quasi non fanno più notizia da noi in Occidente.
L'uomo e la donna, partendo da un dramma identico, si trovano però su posizioni assolutamente antitetiche: l'uomo, chiuso in un comprensibile e feroce odio, non vede futuro, la donna, con la sua militanza pacifista, a mio giudizio, è andata al cuore del problema. Solo con il dialogo e il riconoscimento dei due popoli si potrà sperare in un futuro migliore per le nuove generazioni.
Le parole che di Tullia Zevi mi hanno fatto riflettere di più sono state quelle sul futuro dei partiti politici: questi, secondo la relatrice, non hanno più la capacità di aggregazione e di coinvolgimento di un tempo e sono destinati a scomparire per far luogo a diversi modi di incontrarsi, discutere e far sentire le aspirazioni e le esigenze delle persone.
Mi riesce alquanto difficile immaginare qualcosa di diverso dal Partito: dopo la mia prima esperienza nel PCI ho fatto parte di Associazioni che devo dire francamente mi hanno deluso per l'incapacità di organizzazione, mobilitazione, coordinamento. Affidarsi alla spontaneità e al volontariato è difficile e precario e non porta lontano: tante Associazioni scompaiono, anche se hanno realizzato qualcosa di positivo e importante. E' anche vero però che i Partiti sono molto distanti, nelle loro diatribe, dagli interessi miei e, credo, di molti altri.
Non sono capace di inventare altro ma di sognarlo…sì.
(2 luglio 2001)
Un giovane amico, da anni appassionato sostenitore della lotta per l'indipendenza del popolo basco, si reca in Spagna per un anno, per continuare là i suoi studi universitari.
Dalla Spagna ci scrive un articolo sull'ETA, cui ancora vanno la sua simpatia ed il suo appoggio, anche se prende atto del fatto che il proseguire
degli attentati, in cui muoiono comuni cittadini, determina dei "dubbi etici profondi, che attanagliano le coscienze dei molti che hanno creduto nella causa dell'indipendenza basca". (Trovate l'articolo nel nostro archivio).
Un altro amico, T.K., ci ha inviato l'articolo, di netta condanna dell'ETA, che trovate in questo numero; esso ha suscitato accese discussioni in redazione e ci spinge ad aprire un dibattito.
I punti del dibattito:
Un tema antico: quali sono i rapporti fra lotte per l'indipendenza nazionale, lotta di classe e sinistra?
C'è un momento in cui una lotta per l'indipendenza nazionale perde il carattere progressista e si trasforma in pura riaffermazione di una identità etnica ossificata ed incapace di qualsiasi dialogo ed evoluzione?
E' moralmente e politicamente giusto l'uso della violenza? Cosa intendiamo con violenza, visto che una certa dose di essa sembra parte della vita? Siamo per la non violenza in assoluto o riteniamo legittimi e politicamente efficaci alcuni livelli di violenza, in relazione ai fini da raggiungere? Chi, eventualmente, può decidere sull'uso della violenza e chi può esercitarla?
Proviamo ora ad allargare il discorso, recependo gli interrogativi che ci vengono da altre parti della sinistra.
Passiamo dal concetto di "violenza" a quello più rassicurante di "forza", dagli eserciti di liberazione alle grandi organizzazioni di massa, ai partiti della sinistra, dai condottieri ai dirigenti di questi partiti. Sappiamo che, con nostro grande dolore, le organizzazioni politiche di massa sono in crisi. Sappiamo che molti agiscono nel sociale, ma rifiutano assolutamente di essere "inquadrati" nei partiti. Sono scelte cui Marco Revelli dà voce, specie nel suo ultimo e criticatissimo libro "Oltre il Novecento", che dovremmo leggere, magari facendo forza su noi stessi.
Revelli dice: "Il movimento comunista, il maggior movimento antisistemico del secolo che ci sta alle spalle, era convinto che si dovesse accumulare una forza uguale e contraria a quella del capitale……Io credo che il movimento di Seattle e di Porto Alegre sia perfettamente consapevole del fatto che su quel piano la partita non è giocabile….La forza di questo movimento è di muoversi a un altro livello, che non è l'accumulo di potenza per la conquista del potere….ma è quello della costruzione di relazioni e rapporti sociali e pratiche e mentalità radicalmente altre". Non riconosciamo in queste parole gli atteggiamenti e le prassi di alcuni dei nostri figli?
E' possibile che queste siano bestemmie, ma con queste bestemmie la sinistra deve confrontarsi.
Il tempo degli immigrati (e di quelli che sono loro vicini) non ha valore, non esiste!
Stamattina alle otto avevo un appuntamento alla Questura con S., un alunno della scuola d'italiano organizzata dalla associazione Nord/Sud, amico e quasi figlio (ha chiamato la sua bambina di quattro mesi, che ancora non conosce, come me).
Avrei dovuto ritirare il foglio della fideiussione bancaria per suo fratello, il terzo, che è venuto dal Bangladesh per trovare lavoro. Questa fideiussione bancaria, dell'importo di dieci milioni e mezzo, versata e custodita sul mio conto, ha dato la possibilità a N., fratello di S., di venire in Italia con un permesso di soggiorno di un anno. Il lavoro appunto lo ha trovato, presso suo cugino che gestisce una pizzeria.
All'entrata la solita folla, le solite file, la solita gentilezza dei poliziotti che, dando del "tu" a tutti urlano informazioni nella sola lingua italiana: chi capisce, capisce! Ma non sono previsti i mediatori culturali?
Dopo un'ora di attesa su consiglio di S. mi avvicino ad una poliziotta che sta distribuendo moduli di cui io non capisco il valore. Le spiego il motivo della nostra attesa e, visto che sono una signora italiana e non proprio giovanissima, ci fa passare davanti a tutti (erano in fila per altro tipo di documenti) e mi dice di rivolgermi ad una funzionaria.
Sempre con atteggiamento di deferenza chiedo se la documentazione portata è a posto: " Deve aspettare perché ora devo andare altrove" sue parole testuali.
Sono le nove e un quarto: S. deve andare al lavoro e io ho un Collegio dei docenti dall'altra parte della città. Bontà sua ritorna dopo mezz'ora e dice che bisogna fare richiesta di un altro permesso di soggiorno (quello in possesso del fratello di S. è per la ricerca del lavoro; occorre invece quello per lavoro) e poi presentarsi con questo per la restituzione della fideiussione.
Visto che io il documento errato lo avevo in mano ben visibile non poteva dirmelo subito? Ma, come ho esordito, il tempo degli immigrati non conta.
Oggi mi è accaduto qualcosa di assolutamente inaspettato.
Da più di un mese parlo in classe di un argomento che mi sta molto a cuore. Questi i precedenti: il provveditorato di Roma ha indetto per maggio prossimo un convegno, in collaborazione con Istituti di ricerca storica sul Novecento, aperto a tutte le scuole di Roma e provincia che possono parteciparvi scegliendo una tematica.
A me è sembrata interessante "Nuove cittadinanze e nuovi diritti nell'epoca della globalizzazione" e così ho suggerito agli studenti di affrontare l'argomento seguendo un certo percorso: partendo dall'oggi ripercorrere la storia a ritroso fino all'epoca classica (Atene e Roma) per ricercare la diversa accezione, all'epoca, di questi termini. Ho anche proposto di sistemare tutto il lavoro in un ipertesto ma…mi sono resa conto di fare dei grandi sproloqui senza interlocutori, dialogando esclusivamente con me stessa.
Tre giorni fa infine sono stata presa da una…chiamiamola collera irrefrenabile e sono passata agli insulti, non certo triviali, anche se mi sarebbe piaciuto, accusando i miei alunni di superficialità, indifferenza, pochezza intellettuale e culturale. Dopo lo sfogo mi sono sentita veramente male: mal di testa, mal di gola…a pezzi.
Oggi dunque l'evento inatteso: sono stata subissata da materiali di documentazione, per altro molto interessanti e validi, frutto di ricerche dei miei studenti su Internet.
A questo punto però mi sorge un dubbio: cos'è che ha provocato l'auspicato mutamento? Un senso di amor proprio e dignità fatto emergere dalle mie parole ? O un gran senso di pena per la povera prof.?
"Dopo venticinque anni d'insegnamèndo…." Non so perché mi vengono in mente queste famose parole del professor Aristogitone mentre sto stancamente correggendo una verifica (per carità non chiamiamolo compito! ) di Italiano e inevitabilmente rifletto, divertita e scoraggiata insieme, sulle tante sciocchezze del feedback (= ritorno, anche questo termine molto in voga) sugli argomenti da me proposti alla classe in questi primi due mesi di scuola.
Mi interrogo sovente, ( sarò la sola?) sulla validità e/o utilità di questa istituzione.
Avverto un malessere di fondo e una inadeguatezza ogni anno sempre maggiori. Cosa fare?
Premetto che in linea di principio sono d'accordo con parecchie indicazioni degli ultimi due ministri della pubblica istruzione quali il riordino dei cicli, la riqualificazione della figura del docente, lo svecchiamento insomma della scuola italiana ma… tutte le stimolanti proposte di una didattica diversa, modulare, di ricerca che risponda ai reali bisogni dei giovani non considerano un elemento importante, il più importante, con cui bisogna fare i conti : gli studenti.
I giovani quattordicenni con cui io lavoro quest'anno, che hanno scelto il liceo classico e provengono da un ambiente socioculturale medio/alto, hanno una visione della realtà esclusivamente televisiva. La possibilità di indurli a riflettere , a ragionare autonomamente è ridottissima: il libro di testo è il verbo, non si può mettere in discussione. Per fare un esempio, entro nel merito di una lezione sull'Iliade, in cui , parlando del personaggio di Tersite, facevo notare ai miei alunni che le accuse rivolte da questo plebeo ad Agamennone erano le stesse che gli aveva rivolto Achille; ma Omero, attenendosi al valore aristocratico da lui celebrato, non tollera ingiurie rivolte ad un capo da parte di un soldato semplice. Obiezione dei ragazzi "Ma il libro dice che Tersite era un vigliacco…"
Il mio grande timore è che tutte le innovazioni nella scuola si riducano ad un semplice cambiamento di termini e di lessico ma che in sostanza rimanga tutto così com'è.
Il rischio è reale perché io stessa sento di diventare con il passare degli anni sempre più simile al professor Aristogitone, rimpiangendo gli allievi degli anni passati. Esclamazioni del tipo "Le classi di quest'anno sono terribili, alunni poco scolarizzati, superficiali, ignoranti….." sono quelle più ricorrenti in sala professori. E inoltre noi insegnanti con grande disinvoltura non abbiamo alcuno scrupolo a scaricare la responsabilità del regresso culturale dei nostri alunni sui colleghi che ci hanno preceduto nell'educarli: cominciano i docenti universitari per finire con gli insegnanti elementari . Gli unici che non hanno il loro capro espiatorio sono le povere maestre della scuola d'infanzia!