Daria Pozzi



(in archivio dal 21 sttembre 2001)
Terrorismo, alcune considerazioni

Dopo quello che è accaduto, molte sono le riflessioni che in questi momenti si sentono nel movimento, e diversi (com'è ovvio) sono i punti di vista. Per prima cosa, nel considerare le possibili reazioni, va detto che sarebbe un errore madornale rieditare slogan tipo "né con lo stato né con i terroristi" non solo perché la gravità di quanto è accaduto, di quanto sta accadendo e (c'è da temere) di quanto accadrà non ammette scorciatoie sloganistiche, ma perché oggi in realtà non c'è più una differenza dicotomica tra Stati e non-Stati, né nelle logiche di guerra (perché di questo si tratta), né negli strumenti utilizzati.

E' dalla bomba di Hiroshima (anche prima, ma insomma, quello è stato l'evento spartiacque) che la vecchia, tradizionale guerra degli eserciti contrapposti è sparita dalla scena. La guerra post-post-guerra non si combatte contro gli eserciti, si combatte contro i civili.
Anche prima, naturalmente, le popolazioni civili non erano mai rimaste completamente immuni dalle battaglie. Basti pensare che nel medioevo ogni campo di battaglia era immediatamente seguito da una pestilenza per capire quanti popolani e contadini dovevano morire per ogni soldato ucciso.

Ma oggi questa strategia del terrore è esplicitamente teorizzata non come "uno" strumento di guerra, ma come la principale (se non unica) arma di combattimento.
Il "terrorismo" (cioè la strategia del terrore, che sia condotta da un gruppi di fanatici o dalla Nato non fa differenza) domina le vite di tutti: ogni popolazione civile, ogni singola persona, donna, uomo, bambino, in ogni parte del mondo è oggi un ostaggio nelle mani di chi (ribadisco, Stati, alleanze militari o potenti gruppi extra-statuali) decida di "colpire al cuore" chiunque altro.

L'enormità di quanto è successo sembra a volte sfuggire alle analisi che finora si sentono in giro. Queste non sono le brigate rosse, né una semplice "strategia della tensione" per cui in fondo è sempre bastata una bomba in qualche banca o supermercato. E' assolutamente riduttivo pensare a un dibattito centrato su violenza/nonviolenza, come se si trattasse di decidere uno scontro di piazza. Qui siamo di fronte a ben altro.
Chiunque sia stato a organizzare l'attacco agli Stati uniti, il suo obiettivo non può esser altro che la terza guerra mondiale. Personalmente penso che sia ben difficile che un simile piano possa provenire da un'unica fonte (terroristica o statale che sia), credo più probabile pensare a un folle "pool" del terrore che comprende spezzoni e settori assai vasti, apparentemente in contraddizione fra loro ma in qualche modo tutti uniti, magari per interessi diversi, in una delirante prospettiva apocalittica.

E allora, che fare?
Sappiamo che, a parte le terribili conseguenze temibili in un prossimo futuro, il movimento di Seattle e Genova sarà tra le sue prime, immediate, vittime. Non perché che scrive sia così megalomane da pensare che qualcuno abbia organizzato tutto questo per fare fuori noi, ma perché in una logica di guerra il dissenso, da che mondo è mondo, diventa automaticamente "alto tradimento", e tutti sappiamo già che dovremo prepararci a estenuanti quanto ingiustificate pretese di credenziali antiterroristiche ogni volta che vorremo aprire bocca, parlassimo anche dell'agricoltura biologica o del commercio solidale.
Se Berlusconi si precipita appena successo l'attacco alle torri di NY a invocare un nuovo G8 non ci vuole particolare acume per presumere la volontà di vendicare la figuraccia impostagli dal movimento a Genova.

Eppure il movimento non può tacere, neppure per fermarsi a riflettere (anche se ne avrebbe bisogno). La mobilitazione urge e le scadenze sono già in marcia. A mio avviso oggi non c'è una parola d'ordine più "rivoluzionaria" di quella della difesa della pace ad oltranza. Naturalmente, la difesa della pace si articola poi in diversi aspetti, tra cui, certo, lo scioglimento della NATO. Ma la parola-chiave rimane quella, e non altre, perché difesa della pace significa schierarsi con i cittadini inermi di tutto il mondo, dalla Palesitina a New York, dal Kurdistan all'Afganistan. La guerra non è tra "terroristi" e "occidente", è tra signori della guerra di ogni ordine e tipo e popolazioni civili.

In questo senso, la scadenza oggi principale è a mio avviso, ancor più di Napoli, la marcia Perugia-Assisi, per la sua storica caratterizzazione pacifista. Un milione di persone ad Assisi, questa dev'essere la prospettiva su cui lavorare.
(16 settembre 2001)

Daria Pozzi

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(in archivio dal 16 settembre 2001)
Movimento e fase politica

1. LA FASE

La nuova fase politica è estremamente complessa, per molti versi preoccupante e per alcuni promettente.
Dopo anni di "melassa" (si fa per dire, c'è stata perfino una guerra di mezzo!) più o meno socialdemocratica spalmata un po' dappertutto (dagli Stati uniti clintoniani ai governi della Ue) la destra è tornata a governare, prima in Austria, poi negli Usa, infine con Berlusconi in Italia, senza dimenticare altri paesi, come Israele, dove il pur orrido Barach ha lasciato il posto al criminale di guerra Sharon.
Quanto la vittoria della varie destre sia responsabilità dei vari governi fallimentari di centro-sinistra è un argomento a lungo sviscerato a per il momento inessenziale.
Più importante è notare come la destra abbia immediatamenta percepito i nuovi governi come un'unica squadra, più di quanto fosse acceduto in precedenza. Benché dopo Genova alcuni problemi siano sorti (ma di questo parleremo poi), non può sfuggire come Bush abbia difeso a spada tratta Berlusconi dalle preoccupazioni (anche le più miti) della stampa democratica americana, come ci sia stato amore a prima vista tra Heider e Bossi, come il filo-atlantismo sia molto più forte, dopo la vittoria di Bush, di qualsiasi progetto europeista.
Che questa tendenza sia destinata ad allargarsi ad altri paesi o meno, essa dimostra comunque come la gestione liberista e affamatrice della globalizzazione non sia conciliabile con i pur miseri intenti di compensazione solidaristica dei vari centro-sinistra, né possa prescindere da un'assunzione di responsabilità repressiva decisamente e drasticamente reazionaria.

2. L'ITALIA

Il governo Berlusconi è un vero museo degli orrori, dove si coniugano una destra economica tradizionalmente thathceriana legata ai poteri forti, un risorgente (non solo in Italia, vedi Heider) neo-post-para-fascismo, gli umori xenofobi lepenisti bossiani, e un crogiolo di criminalità varia, affaristica o meno.
Sebbene la composizione sia sostanzialmente analoga, non si tratta però della semplice riedizione del governo Berlusconi precedente. La regia è oggi molto più saldamente in mano, da un lato alla vecchia guardia della peggior Dc, criminale e golpista quanto si vuole ma con lunga esperienza di gestione del potere, e dall'altro alle forze della destra internazionale, in prima fila il governo Bush. Questo governo non crollerà come il precedente, non verrà facilmente isolato, né in Europa né in Italia, non si farà prendere di contropiede dalla mobilitazione.
Detto questo, non vanno neppure sottovalutate né la sue difficoltà né, soprattutto, le sue contraddizioni interne.
La vicenda di Genova è lampante da questo punto di vista. La "strategia del sorriso" e del dialogo avviata da Ruggero prima del G8 non era una pura e semplice trappola, né esclusivamente un esercizio di ipocrisia. Effettivamente, la componente di questo comitato d'affari più legata ai poteri forti, ha tutto l'interesse a limitare al massimo lo scontro politico e sociale, vuole procedere a un attacco economicamente durissimo, tenendo però il conflitto il più basso possibile, giocando più sulla parcellizzazione degli interessi materiali, sulla frantumazione sociale, sulla rottura delle connessioni di solidarietà collettiva, che sulla brutale repressione.
Questa componente a Genova è entrata in rotta di collisione con altre tendenze, di cui An è oggi la più platealmente visibile, ma che coinvolge parti rilevati di Fi, per non parlare della lega, le quali invece concepiscono l'attacco economico come parte di un attacco globale alla democrazia sociale e politica, in una prospettiva drasticamente golpista e fascista.
Questa seconda tendenza è uscita vittoriosa a Genova, imponendosi con una determinazione inquietante, dimostrando di non temere di suscitare problemi e tensioni anche all'interno della maggioranza, pur di imporre il suo disegno. Andrebbe a questo proposito approfondito il significato della presenza di Fini e c. nella sala operativa dei carabinieri durante gli scontri, ma soprattutto va notato come questa componente non abbia fatto un solo passo indietro né davanti all'evidente sconcerto dello stesso Berlusconi (che non sa più cosa balbettare né sotto quale tappeto nascondere tutti i futuri vertici), né, soprattutto, davanti alle incrinature che Genova ha prodotto con il pur amico governo austriaco e, in parte, perfino con Bush, per non parlare di governi meno vicini come Francia e Germania.

3. IL MOVIMENTO

Certo, il movimento no-global si sta (lentamente o con improvvise accelerazioni) saldando da molto tempo. Già Seattle è stata in realtà solo una delle suddette accelerazioni.
Genova, però costituisce sotto più di un aspetto un salto di qualità per due motivi: 1) Intanto è la prima mobilitazione avvenuta in questa nuova fase, la prima a doversi scontrare con un governo di destra (e della destra peggiore), pronto, come si è visto, a ricorrere alla violenza e alle armi con una disinvoltura mai vista neppure a Goteborg.
2) L'ampiezza, numerica e di pluralità di soggetti, della manifestazione, della partecipazione ai dibattiti del Social forum, del corteo seguito a un giorno di inaudite violenze, omicidio compreso, dimostrano, al di là delle provocazioni, dei "black", o anche degli errori eventualmente commessi, una determinazione e una volontà di stare in piazza che non si possono non tenere in debito conto.
Dopo Genova, non ci possono essere più dubbi: un movimento è effettivamente nato, una nuova generazione è entrata in lotta, nuove forze stanno scendendo in campo.
Lo scenario in cui questo movimento si muove è radicalmente diverso da quello dei grandi movimenti degli anni '70. Non è il caso di ripetere qui l'elenco dei profondi sconvolgimenti prodotti a tutti i livelli (politici, economici, culturali, sociali) dalla globalizzazione (anche se l'analisi di questi aspetti è ancora lungi dall'essere esaurita e, peraltro, non ne esiste un'unica lettura); rimane comunque il fatto che un mondo ormai profondamente cambiato aveva bisogno di un movimento diverso da tutti quelli finora conosciuti.

Questo non è un movimento "di classe", e neppure (come il '68) di un settore sociale (come gli studenti); non si tratta neppure di un movimento genericamente di "emarginati" (come per molti versi era il '77). Si tratta, nel senso più pieno e anche più nuovo del termine, di un movimento di società civile. Dico più nuovo, perché la società civile dell'epoca della globalizzazione non è la stessa del tempo degli Stati-nazione.
Se da un lato, il venir meno (in alcuni casi un in termini assoluti, in tutti in termini di tendenza sempre più accelerata) di ogni forma di stato sociale l'ha resa molto più distante dai centri del dominio economico (e di conseguenza politico), molto più frammentata e dispersa sul terreno del mercato del lavoro e degli interessi materiali, dall'altro è molto più vicina a livello mondiale, grazie anche ai fenomeni migratori, molto più capace di tradurre le diversità, molto più "contaminata" e in grado di comunicare con linguaggi diversi.
Dal centro sociale del nord-est italiano al gruppo organizzato di contadini brasiliani, dagli agricoltori anti-ogm ai villaggi di resistenza indiani, dai nuclei di sans-papiers di Parigi all'Ezln, oggi è possibile un dialogo a tutto campo, non perché si parli la stessa lingua (o ci si illuda di farlo come è avvenuto a volte in passato), ma perché si è cominciato un percorso (la cui durata e il cui successo non sono a tutt'oggi ipotizzabili) che potremmo definire "imparare ad ascoltare" (e in questo inestimabile è stato il contributo del Chiapas), e dunque si comincia ad essere in grado di comunicare con linguaggi diversi. Per questo l'organizzazione orizzontale a "rete" è particolarmente congeniale al movimento.

La "pluralità" appare in effetti il carattere distintivo del movimento. Pluralità di situazioni geografiche sparse ormai più o meno in tutto il pianeta, pluralità di ispirazioni, dagli anarchici alle comunità religiose (non solo cattoliche) di base, pluralità di forme di lotta, dalla lotta armata (pur se di tipo assolutamente nuovo) del Chiapas alle più rigorose forme non-violente, pluralità di figure sociali, di forme di organizzazione, pluralità di culture e di linguaggi.
Una simile varietà in passato è stata quasi sempre un fattore di disgregazione, una debolezza che rendeva impossibile tenere insieme un movimento oltre il breve periodo. Unica soluzione, era la forte egemonia di una forza, un settore, una cultura, un linguaggio, su tutto il fronte di lotta. In ogni caso, appariva finora impensabile evitare l'alternativa tra una qualche "reductio ad unum" e la dissoluzione. E' la prima volta che il carattere plurale del movimento viene elevato in questi termini a valore, non come semplice petizione di principio o retorica, ma come una qualche connaturata energia, una linfa viltale che agisce anche al di là della volontà o della consapevolezza delle componenti del movimento.
Le tentazioni e le pulsioni egemonistiche non sono infatti assenti o estranee a più di un settore del movimento. Se la polemica rientrasse negli intenti di queste poche pagine gli esempi non mancherebbero. E oltre l'egemonismo in senso stretto, per così dire organizzativo, vi è l'egemonismo di discorso, il ricondurre tutto l'ampia messe dell'elaborazione teorica del movimento (dall'ambientalismo alla tobin tax, dal commercio solidale al lavoro sul territorio, ecc.) a componente di un discorso unico (il marxismo, l'etica cristiana o altro) che faccia da organico quadro di riferimento. Eppure, al di là di ciò, al di là della coscienza delle sue varie componenti, questo movimento è apparso fin qui singolarmente refrattario alle operazioni egemonistiche. La varietà delle aree che ne fanno parte, la vastità geografica praticamente mondiale della rete, l'irriducibilità delle pratiche pur conviventi, rendono nei fatti assai difficile raggiungere obiettivi egemonici.

Con patetica coazione a ripetere, gli araldi televisivi del liberismo continuano a contrapporre alle critiche, alle argomentazioni, alle proposte del movimento, il vecchio ritornello del fallimento dell'Urss, della fine del comunismo, ecc.
Per costoro, davvero, la caduta del muro di Berlino è stata la fine, se non della storia, certamente della loro capacità di comprensione (per alcuni del resto assai limitata).
Il manicheismo del discorso filo-liberista rende addirittura inconcepibile l'idea che possa esistere qualcosa di "nuovo", il pensiero che l'esercizio della critica non si sia spento con il fallimento di 'un' tentativo di alternativa.
Soprattutto, è per costoro impossibile non solo confrontarsi ma persino vedere una realtà che si muove su una miriade di proposte su uno spettro amplissimo, ma senza un'unica soluzione certa, senza una ricetta da imporre, senza un qualche "verbo" da propagandare.
Naturalmente, questa o quella componente del movimento possono avere (e spesso hanno) la propria dottrina-guida. Ma il movimento in quanto tale, il complesso della rete, non sa quale mondo costruire. Non attende neppure un'ora X scandita da un "evento detonante" (la presa del potere) per "poi" codificare un mondo migliore. Il movimento "naviga a vista" e il "mondo migliore" pretende di costruirlo subito, pezzo a pezzo, nel centro sociale occupato, nel villaggio indiano ostinatamente impegnato in una avveniristica coltivazione tradizionale, nella "banca etica" di una provincia o nella vittoria sulle medicine anti-aids.
"Un altro mondo è possibile" non è una proiezione nel futuro; è una scommessa del presente, è una testimonianza in prima persona,, poiché proprio l'esistenza di questa galassia-movimento costituisce, già, l'altro mondo in cammino.
Queste caratteristiche sono un patrimonio prezioso.
Se il movimento riuscirà a superare le difficili prove che lo attendono a breve termine (e non parlo solo dei vertici mondiali), se il patrimonio di nuove forze non verrà disperso nel prevalere di vecchie logiche da partitini, se l'"apprendimento all'ascolto" appena cominciato andrà avanti, negli anni a venire potrà giocare un ruolo da protagonista.
(6 settembre 2001)

Daria Pozzi

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(in archivio dal 15 giugno 2001)
Roma, quale politica per l'immigrazione?

Storia della/e giunta/e Rutelli di una (spera di potersi cosi definire) "immigrata ad honorem"

La prima giunta Rutelli (correva, credo ma non ci giurerei, l'anno 1993 o 94) aveva aperto, anche per gli immigrati, grandi speranze. La battaglia contro Fini aveva visto una spaccatura fortissima proprio su questo tema, e gli immigrati avevano salutato la vittoria di Rutelli con un entusiasmo commovente.
Per una prima, brevissima, stagione, sembro' che quell'entusiasmo potesse avere una qualche giustificazione: quello stesso anno si apriva la Conferenza sull'immigrazione, con la partecipazione diretta degli immigrati e l'impegno attivo (e, possiamo dirlo con dolore, entusiasta) dell'associazionismo antirazzista.
Era un'esperienza altamente innovativa, un metodo del tutto inedito di affrontare il fenomeno, e la Conferenza consegno' al consiglio un programma di lavoro sull'immigrazione assai ricco, articolato, frutto di un confronto assai serio e responsabile.
Era un programma che affrontava positivamente un vasto arco di problemi: i diritti civili e un primo passo verso i diritti politici (i "consiglieri aggiunti"), l'integrazione e l'intercultura (dai "mediatori culturali" agli spazi di incontro e scambio tra italiani e stranieri), l'integrazione scolastica, la prevenzione sanitaria, ecc.
Nessuno, neppure allora, era cosi' ingenuo da aspettarsi l'attuazione per intero di un programma tanto complesso e innovativo.
Ci sarebbe bastato ottenere alcuni punti particolarmente significativi, un segnale anche simbolico ma netto e inequivocabile che si intendeva proseguire (pur con tutte le contraddizioni e le difficolta' interne e esterne al Campidoglio) su una strada di diritti e di apertura alle istanze di base.
Nulla di tutto questo avvenne.
Appena chiusa, la Conferenza entro' nel dimenticatoio, il suo programma fu occultato e buttato via, il suo metodo innovativo archiviato per sempre. Ogni ulteriore passo della giunta Rutelli su questo terreno fu un passo all'indietro. Un esempio per tutti: a tutt'oggi, il comune di Roma sta violando, da oltre quattro anni, non le richieste o le promesse alle associazioni, non il suo programma elettorale, ma addirittura lo stesso Statuto comunale (la "costituzione" del comune) votato all'unanimità dalla maggioranza dopo un'epica battaglia contro la destra condotta in un consiglio comunale che per la prima volta vedeva la presenza di TUTTI i consiglieri al completo (e chi ha sia pur minima dimestichezza con le sedute consiliari sa cosa vuol dire) e finita alle tre di notte (chi scrive era presente insieme a centinaia di immigrati e militanti antirazzisti) con un voto che poteva essere davvero un segnale di svolta di incalcolabile importanza.
Quel voto stabiliva (e oggi, lo ribadiamo, lo Statuto stabilisce) il diritto degli immigrati a eleggere un consigliere "aggiunto" in ogni circoscrizione, e quattro consiglieri in consiglio comunale; un passo in direzione del pieno diritto di voto che suscito' aspettative ben oltre i confini della citta' (basti ricordare che sui giornali del Pakistan, dello Sri Lanka e di molti altri paesi di provenienza degli immigrati la notizia ando' in prima pagina e uscirono interi paginoni in proposito).
Se quel voto fosse stato rispettato con ogni probabilita' la successiva (famigerata) legge Turco-Napolitano non avrebbe potuto cassare con tanta disinvoltura il diritto di voto ai cittadini extracomunitari.
Su tutte le altre proposte della conferenza il comportamento fu analogo, se non peggiore.
L'ingloriosa pagina della politica rutelliana sull'immigrazione termino' qualche mese prima della campagna elettorale con il vergognoso "pogrom" (non si puo' chiamare altrimenti) contro i campi nomadi: centinaia di poliziotti (in pieno accordo con il comune) scagliati contro famiglie inermi; oggetti, vestiti, documenti (permessi di soggiorno inclusi) distrutti, centinaia di persone letteralmente deportate nei "paesi d'origine" (e cioe' Bosnia, Kossovo, Macedonia, luoghi devastati dalla guerra dove queste persone hanno visto distrutta la casa, uccisi i congiunti, spezzata per sempre la possibilita' di vivere).
Moltissimi tra questi cosiddetti "zingari, rom, nomadi", o altro (in realta' si tratta semplicemente di profughi) erano PERFETTAMENTE REGOLARI, molti erano minorenni (e quindi per legge inespellibili), si cerco' persino di "espellere" un cittadino italiano!
Tanto basta. Vorra' Veltroni ripercorrere questa strada? Chi scrive si augura di no (ma i segnali sono tutt'altro che incoraggianti: le voci di corridoio parlano addirittura della Pivetti assessore alle politiche sociali).
Aspetto risposte piu' ottimistiche.
(4 giugno 2001)

Daria


Documentazione:
Lettera al Comune di Roma
APPELLO PER UNA MOBILITAZIONE NAZIONALE PER LA REGOLARIZZAZIONE A REGIME

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