Filomena



(in archivio dal 15 giugno 2001)
Zampa d'elefante

La moda degli anni 70' è tornata: camicie attillate, colletti lunghi, giacche di pelle e pantaloni a zampa d'elefante. Niente di strano, le mode -si sa- non inventano nulla di nuovo, ma reinventano temi antichi con sapori nuovi.
E così le nuove mode pubblicizzano l'immagine di giovani sorridenti, con i telefonini dai colori accesi accostati morbidamente sul collo, giovani che parlano e camminano con le giacche strette e i pantaloni a zampa d'elefante, quasi gli stessi che portavano i loro padri, quando si radunavano con le chitarre nelle cantine per ballare e fare musica e quando sfilavano lungo i cortei nel centro delle grandi città, quando si scontravano con la polizia nelle aule dell'università, i giovani degli anni 70'.
La moda cerca nello stile, nei colori, nei tessuti, nelle fogge del passato il segno più vicino al sentire collettivo del momento attuale. Gli esperti del mercato studiano, fiutano, interpretano e quando decidono il lancio di una moda reiventano letteralmente lo stile che più si adatta a quel momento e a quella generazione.
Le mode quindi non tornano mai a caso, per avere successo devono sintonizzarsi sulle lunghezze d'onda degli impulsi e dei bisogni sociali non ancora espressi.
E allora perché i giovani di oggi sono così simili, nel vestire, a quelli degli anni 70'? Sono forse ricominciate le lotte? Si radunano nei centri sociali? Pensano che votare a destra o a sinistra non cambi la loro condizione? Si preparano a protestare per i summit dei grandi della terra? Navigano in internet lanciando appelli contro la globalizzazione dei mercati? Credono forse nell'affermazione dei diritti globali?
Ebbene una parte del mondo giovanile si ispira alle proteste degli anni 70' con lo spirito dei tempi nuovi e con nuova fantasia ed immaginazione. Gli esperti del mercato della moda non hanno sbagliato a riproporre quei pantaloni, che fino a qualche anno fa, sembravano così ridicoli!
Certo, accanto a loro ci sono quelli di Forza nuova e ci sono pure quelli che hanno votato Berlusconi, per dare corpo ai loro sogni, per andare incontro al nuovo, per essere imprenditori visto che da più parti veniva glorificata l'azienda come la migliore impresa umana! Mi chiedo se il processo di riflessione sul post voto non possa cominciare da qui. Dai sentimenti di questa generazione, così lontana dalle risse di sinistra sulle "colpe" di Bertinotti. Potevamo perdere meglio, certo. Potevamo mediare, discutere prima, a destra non parlano di programmi diversi, fanno!
Credo che i pantaloni a zampa d'elefante significano qualcosa di diverso, indicano una strada nuova, la ricerca di valori realizzabili in un mondo nuovo che se è globale per i mercati dovrà esserlo pure per i diritti umani.
Non si tratta di dichiarare l'universalità dei diritti (già fatto un paio di secoli fa) ma si tratta di chiedere la loro realizzazione senza gonfiarli di affermazioni ideologiche.
Forse le generazioni attuali vogliono fare, in questo si distinguono dai loro padri.
(25 maggio 2001)

filomena@unpodisinistra.it

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(in archivio dal 5 aprile 2001)
Moriremo con Berlusconi?

Nell'articolo di fondo del quotidiano la Repubblica del 3 marzo, Scalfari intitola "Siamo nati fascisti, moriremo con Berlusconi?". L'Italietta bisognosa di un capo che "nella mischia ci conduca" emerge come conseguenza di una possibile vittoria elettorale della destra, alle prossime elezioni politiche. Non si può non concordare con Scalfari che questa è realmente la posta in gioco. La vittoria di Berlusconi e della destra non può che significare una netta regressione del Paese, a tutti i livelli: culturale, politico, sociale. Regressione che in parte sembrerebbe già realizzata dal momento che questioni fondamentali come la riforma della Costituzione o il conflitto di interessi, sembrano non toccare più di tanto la sensibilità civile e morale di milioni di italiani, annebbiati dalle eco di Sanremo e dagli slogan semplificatori di Berlusconi che hanno il pregio di promettere, dall'alto dell'azzurro pulpito, quei sogni impossibili ai quali molti aspirano: più lavoro, più soldi, più "libertà". L'Italietta, umiliata e offesa, di cui parla Scalfari.
La riforma della Costituzione che Berlusconi ha stigmatizzato come antidemocratica ed inutile, ("perché poi la faremo Noi come ci piace"), è una cosa seria. Certamente il centro-sinistra ha tentato in extremis di compiere una mossa "popolare" nei confronti delle regioni del nord. Ma, onestamente, la cosiddetta forzatura della maggioranza risicata, non si può definire tale. Della legge si discuteva da più di due anni e nel suo insieme traduceva un lungo e difficile processo di mediazione tra le forze in campo.
E vorrei ricordare, a questo proposito, che l'art.138 della Costituzione prevede per la revisione della Costituzione la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera ed, in questo caso, la possibilità di verifica da parte del corpo elettorale tramite l'istituto del referendum, mentre non si fa luogo a referendum se la legge è approvata da ciascuna Camera con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.
Come fa Berlusconi a dichiarare che "d'ora in poi" basterà la maggioranza per cambiare la Costituzione? E che quindi lui lo farà "senza scrupoli", visto che la sinistra ha già adottato questa regola?
Quel "d'ora in poi" non ha senso. Se Berlusconi proverà a cambiare la prima parte della Costituzione, quella relativa ai "Diritti e doveri dei cittadini", a colpi di maggioranza, saprà di esporsi al referendum popolare ed è improbabile che voglia affrontare un simile giudizio nel corso del suo mandato.
Le circostanze con le quali è stata approvata questa legge sono profondamente diverse e quindi ciò che dice è pretestuoso e non ha senso politico, mentre approvare oggi il federalismo morbido può essere considerata forse una mossa politica poco convincente che, in ogni caso, rappresenta un punto certo, frutto, ripeto, di una lunga mediazione.
Il referendum sarà comunque necessario per capire fino a che punto gli elettori condividano l'ordinamento federale della Repubblica rispetto a quello attuale. Non vedo in questo senso nessuna mancanza di democrazia, quello che mi preoccupa, piuttosto, è la debolezza direi strutturale dello schieramento di centro-sinistra che non è riuscito a farsi parte propositiva del processo di cambiamento in atto già dai tempi del primo Bossi e che oggi è di fatto costretto ad inseguirlo, cercando di frenarne gli eccessi.
Il federalismo che scaturisce dalla legge che sarà votata al Senato, senza essere promulgata prima di tre mesi in attesa di una legittima richiesta di referendum, è un federalismo con il paracadute. Il problema fiscale non risolve la polemica con Formigoni e Bossi, perché resta di competenza dello stato, mentre nelle materie oggetto della devolution (sanità, istruzione, tutela del lavoro, tutela dell'ambiente), lo stato potrà determinare con legge solo la disciplina generale.
E' noto che Formigoni ed i leghisti vogliono ben altro. Ed in questo senso questa riforma costituzionale somiglia alle mura aureliane che circondano Roma. Costituiscono un argine contro i barbari, che mirano alla fine dello stato nazionale, della "patria" che Ciampi ha onorato a Cefalonia, e alla sua sostituzione con lo stato competitivo: così le Regioni, anche accorpate tra loro, potranno partecipare alla competizione regionale europea, già in atto. E chi non ce la farà, non ce la farà. Questo, purtroppo, è il disegno della destra.
(8 marzo 2001)

Filomena

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(in archivio dal 9 gennaio 2001)
Signori, si cambia!

Circa quindici anni fa le Ferrovie dello Stato lanciarono una campagna pubblicitaria, il cui motto era "Signori si cambia!". Sul manifesto pubblicitario appariva il volto sorridente e benevolo di un passeggero di mezza età che finalmente aveva raggiunto la dignità di "cliente".
L'azienda, la vecchia e arrugginita locomotiva di Stato, apriva le porte alla privatizzazione e assicurava ai "clienti" un futuro diverso, fatto di conforts e di efficienza, di comode sale d'aspetto, di treni puntuali, di sorrisi e di gentilezza.
In realtà, come tutti sappiamo, non è andata proprio così. La trasformazione dell'azienda in società è stata difficile, in mezzo ci sono stati omicidi mafiosi (l'ex direttore Francesco Ligato divenne un cadavere eccellente), lenzuola d'oro, scandali, sprechi, prepensionamenti selvaggi nel nome della ristrutturazione, incidenti mortali nel nome del risparmio sul personale e sulle misure di sicurezza ed il manifesto ottimista di quindici anni fa appare oggi un'ingenuità imperdonabile, quasi un esempio di arte manageriale analoga all'arte socialista che inneggiava alle masse di operai e contadini soddisfatti e fiduciosi nell'avvenire.
Ma da allora cominciò anche la denigrazione sistematica delle strutture pubbliche, che si dissero governate da ingordi burocrati ed impiegati nullafacenti, si moltiplicarono gli articoli di giornale sulle truffe ai danni dello Stato dei dipendenti "in malattia", intenti al secondo lavoro, sulle ministeriali intente a fare shopping durante l'orario di servizio.
L'ignavia dei pubblici dipendenti, da sempre nota all'opinione pubblica come una sorta di tradizione italica, all'improvviso faceva "notizia", e la cronaca dei principali quotidiani fu impegnata per lungo tempo a scovare le signore che rientravano tranquille e sorridenti negli uffici con le buste piene della spesa giornaliera o con l'ultimo acquisto di boutique.
Sembra strano a dirsi, ma ciò che era risaputo, faceva scandalo, ed il pubblico dipendente salì all'onore delle cronache e si "scoprì" che il suo posto di lavoro, oltre che immeritato era anche ben pagato, e decisamente troppo "sicuro".
Molte di queste critiche al sistema burocratico interpretavano il malumore dei cittadini comuni che da tempo immemorabile subivano i soprusi delle lunghe file agli sportelli, delle risposte vaghe, delle informazioni inesistenti, del "non sa chi sono io".
Ma la campagna denigratoria contro il pubblico impiego raccoglieva solo in parte le giuste rivendicazioni della cittadinanza contro le regole astruse e vessatorie della burocrazia; in realtà essa riponeva la sua ragion d'essere nel principale intento di preparare il terreno per la riduzione progressiva dei posti di lavoro nel settore pubblico e per il parallelo aumento di nuovi posti di lavoro nel settore privato, vale a dire, per la graduale sostituzione di posti di lavoro a tempo indeterminato con posti di lavoro a tempo parziale.
La stabilità del lavoro pubblico era messa realmente in discussione, ma non nel senso di "fare giustizia" ed equiparare finalmente le condizioni di lavoro a quelle del settore privato: rispetto dell'orario, possibilità di licenziamento per scarso rendimento, eliminazione delle pensioni baby, ecc…
In realtà il vero obiettivo, oggi in parte realizzato a distanza di quindici anni, era quello di cedere pezzi sempre più consistenti del settore pubblico a società di consulenza o di gestione, con la conseguenza di ridurre posti di lavoro stabili a favore di posti di lavoro precari, di fare del pubblico impiego una sorta di "razza in estinzione", come dimostrano le leggi finanziarie che dal 1995 ad oggi hanno rafforzato la tendenza nel settore pubblico a non sostituire con nuove assunzioni i posti lasciati liberi dai lavoratori in pensione ed il tutto veniva giustificato dalla considerazione opinabile che il numero dei dipendenti pubblici era troppo elevato e che bloccare le assunzioni era funzionale alla riduzione della spesa pubblica, ricetta indispensabile per l'ingresso dell'Italia nella moneta unica.
Ora, in conseguenza di questa politica anche le pubbliche amministrazioni possono usufruire del lavoro in affitto per le proprie esigenze e parallelamente fondi consistenti sono destinati alla formazione del personale. La cosiddetta formazione continua non serve però a mantenere un posto di lavoro stabile, ma ad assicurarsi una serie di lavori a tempo determinato, gestiti da agenzie del lavoro che offrono le proprie prestazioni in tutti i settori pubblici e privati indistintamente e senza reali garanzie per i lavoratori.
Addio vecchi datori di lavoro, addio controparti, il lavoro è in affitto, la proprietà in senso classico non è più conveniente, ed una volta sfatato il mito del pubblico impiego, come ultimo baluardo del posto fisso, cos'altro ci rimane da sfatare?
Se non ci saranno cambiamenti di rotta si può prevedere che nel giro di pochi anni tutto il lavoro sarà precario, a tempo determinato e a contratto individuale. I contratti collettivi saranno considerati residui archeologici della società industrializzata.
Siamo partiti dunque dal "Signori si cambia" di quindici anni fa che annunciava la trasformazione della vecchia azienda di Stato in società per azioni, ma forse ciò che è realmente cambiato è invece la natura stessa del lavoro. Su questo, credo, dovremo interrogarci per comprendere, innanzi tutto, le ragioni che hanno indotto una parte autorevole della sinistra italiana a favorire questo processo come scelta strategica sin da tempi lontani, decretando la fine (giusta) dei privilegi del pubblico impiego solo per sostituirli con l'ingiustizia del lavoro precario per tutti.

Filomena

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