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(in archivio dal 27 agosto 2001)
Di bla bla e della Perugia-Assisi

Tanti gli articoli e i resoconti sulla Perugia-Assisi: quanti eravamo, se uniti o divisi sulle ragioni della presenza e sulle parole d'ordine, se in maggioranza i no-global o i tradizionali, eccetera.
Perfetto: vuol dire che è stata una marcia eccezionale, quindi nessuna polemica con chi ha tentato di sminuirla riducendo il numero dei partecipanti o mettendo l'accento su presunte contrapposizioni fra le varie anime del movimento.
Però… però. Qualche parola su due commentatori, cui non intendo fare il regalo della citazione, mi si impongono.
Scrive uno, su Repubblica, che il movimento starebbe supinamente e stupidamente ripetendo gli stessi errori commessi, negli anni '30, dai laburisti inglesi e dai socialisti francesi, nel momento in cui la Germania di Hitler cominciò a riarmarsi, suggerendo in tal modo, subdolamente, che il movimento per la pace finirebbe col fare, anche se in buona fede, gli interessi dei terroristi (o dell'Islam?).
L'altro, sul Corriere della Sera, accusa le migliaia (?) di persone presenti alla marcia di "buonismo politicamente sprovveduto e politicamente diseducatore" e si chiede come sia pensabile di riuscire in un'impresa "così ambiziosa" quale quella rappresentata dallo slogan ufficiale della manifestazione: "Cibo, acqua, lavoro per tutti".
Mi chiedo: perché questo movimento pacifista, soprattutto nella sua connotazione no-global, appare talmente pernicioso da suscitare risposte non ragionate ma intrise di livore, di supponenza, di disprezzo? Forse perché in realtà i giovani (e i non più giovani, come me e tanti altri che attivamente vi partecipano) hanno toccato il punto dolente di questa società occidentale, hanno individuato l'anello fragile di questo ordine mondiale che può reggersi in piedi solo se nessuno, soprattutto in occidente, pone in discussione la sua supremazia, le sue regole, i suoi dictat. E' per questo, quindi, che il movimento appare così pericoloso; anche perché è stratificato in tante realtà sociali diverse, perché il pacifismo non è più argomento solo di una sinistra che, a dire del commentatore, lo utilizzava in funzione "loscamente antioccidentale", perché esso riunisce in sé tante anime diverse che, graziaddio, superano e sopravanzano la sinistra, e non solo in Italia, perché, infine, ha posto all'attenzione di tutto il mondo la stretta interconnessione esistente tra pace e giustizia che non permette all'una di esistere senza l'altra.
Mi chiedo: possibile che tali illustri commentatori non sappiano che una strategia per "un nuovo mondo possibile, anzi necessario" esiste? Non ce la siamo inventata noi poveri marciatori stupidi, ciechi e subornati da "falsi ideologi"; essa è stata studiata e illustrata da economisti, sociologi e premi Nobel: citiamo rapidamente, nella nostra ignoranza, Anthony Giddens, Ulrich Beck, Amartya Sen.
Termino con un umile suggerimento: andate a scuola, signori, invece di perder tempo a discettare per ingraziarvi chi vi tiene sul libro paga.
(15 ottobre 2001)

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(in archivio dal 27 agosto 2001)
Di bombe e della loro utilità

Il Cavaliere ha elencato i decreti che il governo ha emanato per tener fede a quanto egli aveva promesso a se stesso (tassa sulle successioni, falso in bilancio) e ai suoi amici (blocco della riforma scolastica, contratti a termine, legge per le grandi opere). Su quanto promesso ai suoi elettori (riduzione delle tasse e aumento delle pensioni) ancora e solo vaghezza di intenti: "quando sarà possibile". Sul conflitto d'interesse, poi, parole al vento ma azioni concrete: i suoi interessi (successioni e falso in bilancio per intendersi), che clamorosamente confliggono con la sua carica di capo del governo, se li è già fatti.
Le parole d'ordine della campagna elettorale erano state scelte proprio per solleticare ad arte gli interessi personali dei cittadini: non c'è bisogno di ricerche di mercato per rendersi conto che la maggioranza delle persone ambisce a pagare meno tasse, ricevere aumenti di reddito, vivere in città a basso tasso di criminalità. L'importante era operare su queste pulsioni primarie per organizzare e ottenere il consenso.
Eh già, sta proprio qui il fatto: che il Cavaliere ha bisogno del consenso, e della plumbea acquiescenza che ne consegue, per governare a modo suo. Il Cavaliere non sopporta, anzi non riesce a comprendere, l'opposizione. Ed egli sa che, quando verranno al nodo altre questioni importanti, quelle che toccano la tasca anche di parte dei suoi elettori (rinnovo dei contratti, pensioni, sanità), non sarà sufficiente sbandierare slogan pubblicitari, avrà bisogno del consenso dell'opposizione per ammorbidire e domare lo scontento che decisioni impopolari sicuramente susciteranno. Come fare? Cosa inventarsi?
Ma l'ha già visto fare anni fa, al tempo del compromesso storico e del governo di unità nazionale contro il terrorismo: perché non ripetere un copione che funzionò tanto bene?
Quindi la bomba, quindi le pressioni del giudice Papalia perché venga riconosciuta una continuità tra questo attentato e le BR (a proposito, è sua l'indagine o è di Casson?), quindi l'appello all'unità (se l'opposizione non accetta diventa criminalizzabile, sicuramente mallevadrice di futuri non ben identificati neo-terrorismi) unità per far passare le sue (del Cavaliere, e dei suoi alleati) azioni di governo.
In nome dell'unità contro il terrorismo no al vertice FAO ma sì a quello NATO, no ai movimenti antiglobalizzazione ma sì alla comprensione verso le forze dell'ordine, no ai rinnovi contrattuali ma sì ai contratti a termine, no all'aumento delle pensioni ma sì all'innalzamento dell'età pensionabile, no alla spesa sanitaria pubblica ma sì alle assicurazioni contro le malattie, noi ai vincoli ambientali ma sì alle grandi opere cementizie… e chi più ne ha più ne metta.
La cosa desolante è che l'opposizione sembra abboccare: Violante, Rutelli, Castagnetti, per non citare anche Prodi.
La cosa che ci conforta è che i movimenti antagonisti sono difficilmente manovrabili dalle forze politiche ma sono in grado di estendersi e autoaffermarsi aldilà di quelle stesse forze: non è il movimento ad aver bisogno di loro, sono esse che dovrebbero trovare insegnamento e linfa dagli antiglobal.
Permettetemi, infine, una considerazione: le manifestazioni in occasione della riunione della FAO "si sa" che si terranno non "contro la FAO" ma per sottolineare e dare maggior forza agli impegni che in quell'occasione dovranno essere presi; le manifestazioni che si preannunciano in occasione del vertice NATO "si sa" che saranno di "opposizione" agli obiettivi che quell'istituzione si propone. Allora perché annullare una riunione in occasione della quale non ci sarà antagonismo da parte del movimento e intestardirsi a tenerne un'altra contro la quale sicuramente il movimento scenderà in piazza per "protestare", pur se in maniera pacifica?
Per aver modo di manipolare una manifestazione e creare un'altra occasione di scontro? Per isolare il movimento e criminalizzarlo? Per dare un avvertimento a quella parte dei sindacati che non vuole sottostare alle politiche governative in materia di lavoro? Per poter gridare all'eversione e piegare l'opposizione a un regime di concertazione?
Io toglierei i punti interrogativi.
(12 agosto 2001)

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(in archivio dall'8 agosto 2001)
Di Genova: alcune considerazioni

1 - Il G8 è stato un fallimento: il debito dei paesi poveri non è stato rimesso, è stata riaffermata la filosofia che l'incremento di ricchezza dei paesi industrializzati sia un beneficio per i paesi "che sono rimasti indietro", a proposito del protocollo di Kioto il vertice non è servito a niente, per la lotta all'Aids e per l'istruzione sono stati stanziati fondi minimi, la liberalizzazione degli scambi commerciali è stata rinviata a novembre.
Lo scollamento tra questi summits, il modo in cui affrontano e ritengono di poter risolvere problemi planetari come la fame, le malattie, la povertà, e le richieste della "società civile" che vuole impegni concreti e immediati, si manifesta visibilmente anche nella logistica: nel 2001 è stata blindata una città, per il 2002 è stato predisposto l'isolamento su un picco inaccessibile delle Montagne Rocciose; a quando la scelta di una stazione spaziale?

2 - Il movimento antiglobalizzazione ha vinto -con un costo altissimo (560 feriti "dichiarati" e una carneficina inenarrabile) e con un prezzo, in particolare, che non può essere in alcun modo ripagato (una vita umana)- ma ha vinto. Ha fatto sentire la sua voce a livello mondiale, ha dimostrato di esistere come movimento con una sua motivazione ideologica che resiste nel tempo e si amplia nello spazio, ha posto all'attenzione del mondo industrializzato problemi che finora erano ignorati o rimossi (fame, sete, malattie, povertà, morte, sfruttamento), ha mostrato l'evanescenza delle decisioni prese dai vari "G", ha tallonato questi "grandi" costringendoli a isolarsi e arroccarsi sempre più, sia figurativamente sia nella realtà, ha fatto sì che anche nelle stanze del potere qualcuno cominci a porre in dubbio l'utilità di summits del genere, sia per quanto riguarda la forma sia per quanto riguarda la sostanza.

3 - Dice Scajola che del blitz di sabato notte non era stato informato, che si è trattato di una decisione presa dai questurini di Genova.
A parte il fatto che la tempra di un capo si dimostra anche nella capacità di non disconoscere eventuali errori dei sottoposti, siamo pronti a credergli. Non sarebbe la prima volta, infatti, che i cani addestrati (distinguiamo, pasolinianamente, i semplici gendarmi dai loro comandanti) mordono prima ancora che il padrone abbia dato il segnale, soprattutto se si tratta di un nuovo padrone cui si voglia dimostrare senza indugi la propria fedeltà.

4 - Chi rappresentano, oggi, i DS? Durante le giornate di Genova hanno dimostrato tutta la loro fragilità, la propria e quella dei loro alleati.
Neanche su un fatto come il G8 -che in qualche modo è aldilà della politichetta quotidiana e casareccia che amano praticare- hanno mostrato saldezza di principi e coesione di intenti.
Sono favorevoli alla globalizzazione o no? ritengono che essa debba essere governata e corretta perché si smetta di rapinare i paesi cosiddetti "emergenti"e di distruggere l'intero sistema ecoplanetario? E se così è, perché non erano a Genova ufficialmente?
Ritengono che i disordini di Genova siano stati provocati dai manifestanti del Gsf, oppure da provocatori ad esso esterni? La loro assenza -dopo una decisione di partecipare purtroppo molto sofferta- nel momento in cui il peggio era ormai successo, presta il fianco a interpretazioni molto poco misericordiose: come se avessero "mollato " il movimento perché "scottava" , perché ritenevano che "puzzasse" di violenza gratuita anziché di sacrosanta indignazione per gli eventi appena avvenuti, come se non ritenessero opportuno mescolarsi ufficialmente con persone, tante, che non erano tutte riconducibili ai partiti e alla politica ufficiali e vecchia maniera.
E se non si sentono rappresentanti di cittadini che si uniscono ponendo in atto un nuovo modo e un nuovo senso di essere internazionali, chiedo ai dirigenti DS: ma chi rappresentate voi, ormai?
(24 luglio 2001)

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(in archivio dal 17 luglio 2001)
Di domande senza risposta

Da tempo mi frullano per la testa pensieri e interrogativi cui non so dare risposta.
Li propongo ai lettori di queste pagine perché mi piacerebbe avere, non dico delle risposte, ma dei pareri.

Ha senso parlare dei due schieramenti politici che si sono fronteggiati in queste ultime elezioni come di "centro-destra" e "centro-sinistra"? Cioè, che cosa c'è di "centro" nella Casa delle libertà se non la presenza -direi quasi a titolo personale- di Casini e di Buttiglione? E parimenti che cosa c'è di "sinistra" nell'Ulivo se non la denominazione del suo partito più forte, i DS?
La domanda è: esiste una sinistra in Italia?

E' indubbio che "il centro" nel raggruppamento di destra si è disfatto non perché Forza Italia sia una forza di centro, ma perché gli elettori "benpensanti e moderati" -con occhio attento più ai propri interessi che a quelli della società- si sono sentiti rappresentati più da quel partito che dai CCD e CDU, così come gli elettori più di destra si sono sentiti più sicuri nell'alveo di Forza Italia anziché con Fini o con Bossi.
Dall'altra parte anche c'è stato uno slittamento di voti dai partiti della cosiddetta sinistra ai partiti di centro, quelli che, oggi, raccolgono gli elettori "benpensanti e moderati" ma con istanze sociali e morali.
Non ci sono più le ragioni per l'esistenza di una sinistra in Italia?
La tanto cercata rincorsa al centro si è rivelata un abbraccio soffocante e stritolatore per la sinistra?
Crede una mia amica, ex PCI e tuttora fervidamente di sinistra, che oggi l'unica sinistra possibile sia questa esistente, che si è annacquata e scolorita nell'abbraccio con il centro, che in realtà le persone non vogliono veri cambiamenti ma solo piccole mutazioni che non scomodano, che non sovvertono.
Ma se è così, perché le persone, noi, non aspiriamo più a rivolgimenti strutturali ma ci contentiamo di aggiustamenti approssimativi?
Eppure che il capitalismo sia un sistema odioso e "innaturale" è davanti agli occhi di chiunque abbia desiderio di vedere: è un sistema che trae il proprio sostentamento dallo sfruttamento, degli uomini, della natura, delle risorse del pianeta. Se il socialismo ha fallito, ci vorrebbe un nuovo sistema economico, una nuova teoria "materialista". Forse un novello Marx.
Oppure sarebbe sufficiente qualcuno che ripartisse dall'idea di restituire dignità politica alle persone, alle cose, ai paesi oggetto di sfruttamento, che ripensasse la solidarietà in termini di classe e di internazionalismo e non soltanto come un rapporto tra individui.

Il governo che ci guiderà nei prossimi anni sembra orientato a fare cose che passeranno in modo indolore perché punterà sull'efficienza anziché sulla qualità, sulle grandi infrastrutture anche a scapito dell'ecologia, sulla crescita economica a spese dei più deboli, sollecitando l'approvazione di quelle classi che bene o male vivacchiano e si arrabbattono senza grossi problemi. Ma tutti quelli che invece antepongono il bene comune a quello proprio? E tutti quelli, soprattutto, che dovranno pagare sulla propria pelle la prossima (sperata) crescita economica?
Chi darà loro voce? Chi farà proprie le loro esigenze? Come può una sinistra che non esiste far emergere quelli che non contano, quelli che non si vedono?
Ditemi qualcosa, date il vostro parere, esprimete i vostri ragionamenti, vi prego.
(18 giugno 2001)

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(in archivio dal 5 luglio 2001)
Di un estraneo a casa vostra

Mettiamo che viviate in casa vostra, la casa dei vostri genitori, dei vostri antenati.
Mettiamo che un profugo, kosovaro oppure kurdo, perseguitato nel proprio paese d'origine, senza famiglia, senza patria, chieda rifugio nella vostra casa. Voi magari ve ne freghereste ma vostro padre -che ha ricevuto un piccolo compenso per accoglierlo- ve lo mette in casa: una branda in corridoio, una coperta, non chiede altro.
Mettiamo che dopo qualche giorno il profugo vi chieda una sistemazione migliore: in corridoio ci sono gli spifferi, ha bisogno di usare il vostro bagno, con discrezione però.
Mettiamo che col passare del tempo le sue richieste aumentino: una stanza più grande, l'uso della cucina, conservare i cibi nel vostro frigorifero.
Mettiamo che avanzi ulteriori pretese: si sistema nel vostro studio, accende il televisore e cambia programma a suo piacimento, decide se e quando mettere in funzione il riscaldamento.
Mettiamo che voi vi scocciate e protestiate; vi risponde che a suo tempo vostro padre ha ricevuto un compenso per il suo ingresso in casa vostra -anche se voi personalmente non avete visto una lira- che è lì ormai da tempo e ha diritti acquisiti.
Mettiamo che voi chiediate solidarietà agli altri condomini e al presidente del condominio i quali, vuoi per evitare grane, vuoi perché a qualcuno di loro state antipatico, vi consigliano di sopportare.
Mettiamo che il vostro scomodo coinquilino cominci a sentirsi il padrone della casa e vi restringa in angoli sempre più scomodi, vi imponga un orario per utilizzare -voi!- la "vostra" cucina e il "vostro" bagno, vi neghi l'accesso al balcone.
Mettiamo che voi, per protesta, buttiate nella pattumiera il suo cibo e gli facciate trovare il letto bagnato.
Mettiamo che lui, per ritorsione, vi neghi l'accesso a cucina e bagno senza la sua supervisione.
Mettiamo che voi, non volendo sottostare alle sue soperchierie, spacchiate il televisore e mettiate fuori uso il frigorifero.
Mettiamo che lui, forte dell'appoggio tacito di condomini e presidente, vi chiuda a chiave nello stanzino, distrugga tutte le vostre piante, getti al macero i vostri libri, butti fuori di casa il vostro cane.
Vi sentireste nel giusto, a questo punto, se, sfondata la porta dello stanzino, tentaste di avvelenare il suo cibo, dar fuoco al suo letto e prenderlo a mazzate?
Se vi sentite nel giusto, perché non dovreste essere solidali con i palestinesi che, da quando è nata Israele, debbono sottostare a tutte le soperchierie e le privazioni che quello Stato impone loro?
Non si può sottoporre una popolazione a uno stato di assedio, alla privazione delle libertà, alla sottrazione della terra, dei luoghi sacri, della casa, e poi metterlo sotto accusa per le sue sacrosante proteste.
Non si può portare all'esasperazione un popolo e poi prendere a pretesto l'esplosione della sua rabbia per commettere ulteriori soprusi.
E' quanto avviene da decenni in Palestina: la provocazione, la risposta sempre più violenta, la ritorsione sempre più grave. E' ora di spezzare questa spirale, e quelli che devono -gli unici che possono- fare il primo passo non sono i più deboli, ma quelli che hanno il coltello per il manico, gli Israeliani.
(9 giugno 2001)

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(in archivio dal 5 giugno 2001)
Degli errori di chi?

Mi dispiace, signori miei, ma Berlusconi non ha vinto grazie alle sue capacità di imbonitore, o ai messaggi suasivi delle sue televisioni, o ai nani e alle ballerine che per lui tanto si sono prestati.
No, signori miei, Berlusconi ha vinto perché la maggioranza degli elettori lo ha votato in piena coscienza, in quanto ha ritrovato nel suo programma e nelle sue parole d'ordine i principi e i valori (cioè la mancanza di principi e i non-valori) che informano, in questo momento storico, la società italiana: la mancanza di cultura, la preminenza del lavoro e dell'impresa sulla valorizzazione della persona (penso ai tanti ragazzi del Nord-Est sottratti precocemente al mondo scolastico per andare ad "aiutare" nell'azienda di famiglia), l'intolleranza, il rifiuto della solidarietà, l'arroganza, la ricerca del facile arricchimento.
Credo, signori miei, che questo Paese si sia lentamente ma inesorabilmente modificato davanti ai nostri occhi -che erano chiusi e corrono il rischio di rimanere bendati- fino al punto da immedesimarsi negli "ideali" di chi nutre il sogno di un'Italia grettamente chiusa in se stessa, ripiegata sulle parole d'ordine della famiglia "normale", della bontà formale, della sicurezza imposta con la forza e non generata dalla comprensione, dell'egoismo cieco ai bisogni di chi non intende omologarsi, dell'arrivismo, della ricerca dell'arricchimento personale, della carità ipocrita.
No, signori miei, la destra non ha vinto perché "un comunista e un magistrato" non hanno capito l'utilità di un utile compromesso, o perché il centrosinistra ha commesso errori negli ultimi mesi. La destra ha vinto perché da troppo tempo le idee, gli ideali, l'ideologia (restituiamo, perdio! vita e dignità a una parola per troppo tempo coperta di ingiusta ignominia) della sinistra sono stati mortificati e svuotati di contenuto dalla sinistra stessa. L'internazionalismo si è snaturato nella partecipazione alla guerra nei Balcani, l'accoglienza agli immigrati si è dissolta nell'incapacità di trovar loro asilo se non nei campi profughi recintati come lager, la solidarietà è stata logorata nel gretto perbenismo dei benpensanti, la ricchezza della cultura è stata affogata nel putridume della televisione o sacrificata al principio dell'avviamento professionale.
L'errore della sinistra è consistito nel ritenere di dover modificare se stessa aderendo, anch'essa, alle richieste retrive che salivano dal Paese, anziché contrastare tali modelli sbagliati, anziché sollecitare il pensiero e la riflessione, anziché supportare chi, oggi, chiedeva appoggio e consenso contro il dilagare del miope egoismo.
Mi chiedo a questo punto, signori miei, se la sinistra non abbia tutto da perdere nell'alleanza con il centro. Difficilmente potrà, da sola, diventare forza di governo; sicuramente potrà, da sola, tornare ad essere quella forza di opposizione che nei decenni passati ha conquistato potere ai lavoratori, dignità agli intellettuali, coscienza alle donne.
Ritengo, sinceramente, di aver goduto di maggiori garanzie quando la sinistra era all'opposizione che quando ha partecipato al governo.
(18 maggio 2001)

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(in archivio dal 5 giugno 2001)
Del 25 aprile, oggi

25 aprile 1945: l'Italia è libera dall'oppressione nazifascista.
25 aprile 2001: ha ancora senso la commemorazione di un episodio avvenuto 60 anni fa?
Non nascondiamocelo: il tempo e le contingenze ammorbidiscono i ricordi, scompongono i valori.
Le "date storiche" della sinistra si sono scolorite: il 1° maggio, l'8 marzo hanno cambiato di connotato; gli anniversari delle tante stragi più e meno recenti non ci spingono nelle piazze e nelle strade d'Italia come una volta.
Non siamo più, noi, quelli di venti anni fa, oppure quelle date, oggi, hanno perso il valore che di allora?
Come restituire linfa e sostanza a eventi che rischiano di diventare, ogni anno che passa, sempre più mummificazioni di avvenimenti trascorsi (per non dire passati)?
Che significa, oggi, fascismo? Che senso dare, oggi, alla parola oppressione?
Basta guardarsi intorno, in Italia e nel mondo, per scorgere le nuove forme che hanno assunto queste due parole cui, il 25 aprile del 1945, abbiamo detto "mai più".
E' fascismo l'intolleranza religiosa, il mancato rispetto delle diversità, lo svilimento della cultura, lo sfruttamento della persona, il nuovo schiavismo, l'utilizzazione indiscriminata della natura e delle bestie, le guerre etniche, i diritti negati alle donne; è oppressione il razzismo, lo sfruttamento del terzo mondo, il progressivo impoverimento dei paesi più deboli, il dilagare della fame e della sete, la vendita o l'uccisione dei bambini, il prevalere delle ragioni del capitale, la mafia di tanti paesi, il mancato riconoscimento all'autodeterminazione di intere popolazioni.
E' contro queste nuove forme di oppressione e di fascismo che noi dobbiamo, ogni 25 aprile, rinnovare quel patto che, 60 anni fa, rese possibile la nostra liberazione e che, oggi, deve darci la forza di lottare non solo per noi ma per tutti quelli che fascismo e oppressione sopportano ancora.
Solo in questo modo potremo restituire dignità e valore alla commemorazione del 25 aprile e mantenerne vivo e attuale il significato.
(25 aprile 2001)

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(in archivio dal 27 aprile 2001)
Dei giovani e della politica

Ora che si sono finalmente placati i clamori dei media a proposito di giovani o giovanissimi assassini che sfogano la loro violenza all'interno della famiglia, vorrei fare delle considerazioni assolutamente personali e che non intendono minimamente raggiungere una universalità di giudizio. Dei discorsi che in quei giorni si sono comunque fatti con amici e conoscenti voglio puntualizzare due degli argomenti portati a spiegazione dei tragici fatti.
      1 - La generazione di chi oggi è genitore aveva, da giovane, degli ideali in cui credere, soprattutto politici e sociali (il Vietnam, il '68, il femminismo, le lotte sindacali, il comunismo, eccetera) e per cui lottare. La generazione di chi oggi è figlio, privata dei valori cui i padri e le madri facevano riferimento, si è trovata di fronte al nulla, e ha cercato di riempire questo nulla con pseudo-valori (l'arricchimento, possibilmente facile, l'arrivismo, condito eventualmente di arroganza, le discoteche, come luogo di evasione di massa più che di aggregazione, la cultura dell'ignoranza unita alla sopraffazione, e così via). In questa atmosfera di degrado politico e culturale, quindi morale (perché la moralità è un insieme di fattori che non può prescindere da ideali politici e culturali) i giovani più deboli hanno finito con il perdere anche il senso del bene e del male: è possibile quindi uccidere i genitori, massacrare i fratelli.
      2 - I genitori di oggi, dediti in maggioranza al permissivismo più totale (vuoi per costume ideologico, vuoi per mancanza di tempo: madri lavoratrici, padri in carriera) hanno allevato una generazione di figli che, non conoscendo il principio di autorità, non riconoscono ai propri madri e padri il diritto di porre regole e non capiscono la necessità del rispetto nei loro confronti: al minimo attrito uccidono i genitori, massacrano i fratelli.
A questi due argomenti vorrei obiettare le mie personalissime considerazioni, basate sulla mia esperienza di genitore (pertanto, da un punto di vista statistico, assolutamente inconsistenti). Mio marito ed io abbiamo allevato la nostra creatura (non ritengo significativo specificarne il sesso) secondo il credo del permissivismo (per costume ideologico, e forse anche un po' per mancanza di energie, essendo, ambedue i genitori, non più giovanissimi). E' stata una creatura viziata, capricciosa, polemica, continuamente tesa ad affermare il proprio dominio in famiglia; oggi -cerco di contenere i miei sentimenti- è un adulto di cui ci sentiamo soddisfatti perché si sta realizzando bene sia sul versante pratico (lavoro, vita sociale, eccetera) sia -ed è soprattutto questo che ci rende contenti- sul versante dei principi morali.
Eppure noi rientriamo nella categoria dei genitori che hanno visto crollare quei valori in cui credevamo.
Eppure la nostra creatura è stata allevata senza fermezza.
Allora? dove voglio arrivare?
Permettetemi, ancora, di sottolineare un fatto assolutamente personale ma, credo, significativo. La nostra creatura ha sempre tenuto, e tiene tuttora, a farci conoscere -e in qualche misura frequentare- i suoi amici. Questo nasce certo dal piacere di farci conoscere le sue amicizie ma deriva anche sicuramente dal desiderio che i suoi amici conoscano noi, i suoi genitori; in maniera palese o sotterranea evidentemente ritiene che noi, i suoi genitori, siamo persone "degne" di confronto e di scambio con gli amici (cosa che puntualmente avviene: parliamo insieme di arte, di politica, di spettacolo, di letteratura, di sciocchezze, di musica e di piante, della vita insomma, la differenza di età o di ruolo non è ostacolo in alcun modo).
Siamo genitori modello? La nostra creatura è un'eccezione? Niente di tutto questo. Io credo, semplicemente, che -pur avendo assistito al crollo delle nostre speranze- noi non abbiamo perduto la fede nei principi basilari che si rivestivano, di volta in volta, dell'apparenza Vietnam, della forma lotta operaia, o femminismo, e così via. Abbiamo saputo cioè enucleare dagli ideali di allora "l'idea portante" che, ricoperta di altre vesti, non può che continuare ad affermare la propria forza -e magari oggi si chiama ecologia, antirazzismo, solidarietà, tolleranza, giustizia sociale, rispetto per le minoranza e quant'altro, senza dimenticare il comunismo.
Questi ideali "rivisitati" non li abbiamo offerti o trasmessi alla nostra creatura, ci siamo limitati a crederli e a praticarli. Non li ha imparati, li ha visti. Forse è anche questo che vedono in noi i suoi amici.
Ma è, questo -l'individuazione e la difesa di valori universali- compito precipuo delle famiglie o non lo è, piuttosto, dello Stato, dei suoi rappresentanti, dei partiti politici, delle forze sociali, di tutto quel tessuto civile, cioè, che compone l'essenza di un Paese e di un popolo?
I valori non sono crollati solo nella coscienza dell'individuo o all'interno della famiglia, sono venuti meno anche nella collettività. Come si può pretendere che i genitori o gli insegnanti trasmettano valori che ogni giorno, continuamente, i giovani vedono messi in discussione o ridicolizzati nella realtà o nell'immaginario?
Se i politici sono corrotti o operano solo per i propri interessi, se si fanno forti della propria arroganza, del diniego della solidarietà e della tolleranza, se la televisione è pregna di volgarità o detta la legge del facile arricchimento o spettacolarizza il dolore e lo sbranamento delle famiglie, come possono, famiglia e scuola appunto, contrastare questi erronei principi sbandierati e urlati dovunque?
Famiglia e scuola hanno bisogno di sentirsi appoggiati dal comune sentire della società e, perché no? della politica; altrimenti, in questa società dove sempre più forte e pregnante è la considerazione che gli altri hanno di noi, i giovani, che sempre hanno bisogno di "adeguarsi", faranno dell'assenza dei valori il loro credo: così uccideranno i genitori, massacreranno i fratelli.
Permettetemi la domanda: uccidono i genitori o i rappresentanti di una società? massacrano i fratelli o tutti gli "altri" che non sono loro omologhi?
Voglio terminare, anche per dare una veste "scientifica" a quanto detto, con le parole dell'esperto in psicologia infantile e adolescenziale Giovanni Bollea. A chi gli chiedeva quale atteggiamento educativo suggerire ai genitori, Bollea ha risposto così: i genitori dovrebbero parlare ai figli di politica perché la politica insegna il modo di stare insieme, insegna quale sia l'uso responsabile della libertà, il sentimento e i costumi della "polis"; la politica infine conferisce spessore comunitario al progetto di vita che un giovane deve configurare e coltivare come proprio obiettivo, strappandosi dalla noia, dall'atonia, dalla perdita di volontà e di creatività.
(16 marzo 2001)

macbeth@unpodisinistra.it


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(in archivio dal 5 aprile 2001)
Di ciò che l'America può insegnarci

Io, dell'America (cioè degli USA), so solo per aver letto libri, visto film, guardato la televisione, ma sempre alcune cose del suo ordinamento interno mi sono apparse negative: l'assetto della scuola pubblica, lo stato dell'assistenza socio-sanitaria, l'organizzazione del lavoro, la scelta a favore del privato nell'economia.
Mi astengo di proposito dal citare la pena di morte, istituzione raccapricciante e indegna di qualsiasi nazione, tanto più di una che si pretende avamposto della civiltà.
La scuola pubblica negli Stati Uniti -e ciò traspare anche dalle varie sit-com per adolescenti che dilagano nella nostra televisione, le quali si limitano a rappresentare, non certo a denunciare, una realtà- è luogo dove i ragazzi le cui famiglie non possono permettersi le costose scuole private si aggregano per "passare il tempo", per trascorrere lontano dalla strada, nel migliore dei casi, gli anni che li separano dall'ingresso nel mondo del lavoro o dalla maggiore età. Luogo che non persegue certo come fine ultimo la formazione degli studenti, demandata invece alle prestigiose "public schools" a pagamento.
Lo stato dell'assistenza socio-sanitaria è noto a tutti, anche per il caso occorso anni fa a un turista nostro connazionale che, avendo subito un delicato intervento chirurgico dopo essersi trovato coinvolto, senza colpa, in una sparatoria, tornato in Italia si è visto recapitare una parcella da capogiro da parte della clinica dove era stato operato. Films e, ripeto, serials televisivi denunciano o palesano i guai di chi, avendo necessità di cure mediche, non è protetto da costose assicurazioni private. Per non parlare della necessità, da parte di tutti i lavoratori, di sottoscrivere pesanti polizze per assicurarsi una vecchiaia decente. E' peraltro noto che la mancata assistenza e tutela dei cittadini statunitensi è la causa principale dell'alto affollamento delle carceri in quella nazione; e se l'Amministrazione USA provasse a investire in garanzie per i cittadini meno protetti i fondi che oggi vengono spesi per la carcerazione?
La mobilità come tipologia prevalente del lavoro e la mancata tutela sindacale dei lavoratori (non intendo collocare nella categoria dei sindacati le criminali organizzazioni di alcune corporazioni) è storia accertata, denunciata e raccontata meglio di quanto possa dire io. La scelta del privato, fondamento dell'ordinamento economico e politico degli USA, solo poco tempo fa è stata denunciata, per bocca del Governatore della California, come la causa primaria del blackout energetico di quello Stato. Il Governatore -che ha definito "colossale e pericoloso fallimento" la privatizzazione dell'industria elettrica attuata quattro anni fa- ha individuato nella carenza degli investimenti da parte dei gestori privati la causa principale del mancato potenziamento dell'offerta durante il boom economico, e del conseguente blackout cui si sa rispondere solo con un rialzo colossale dei prezzi.
Da decenni, da sempre potrei dire, abbiamo tutti sotto i nostri occhi queste realtà e le nefaste conseguenze che ne derivano. Dovremmo imparare dagli errori degli altri, si dice. Per evitarli, naturalmente, non per copiarli e ripercorrerli pedissequamente. Questo dovrebbe insegnarci l'America. Invece…
Invece, in Italia, oggi, proprio in questi campi si stanno operando scelte che intendono trapiantare modelli di vita che, anziché avere a cuore il bene dello Stato e dei cittadini, perseguono l'interesse delle imprese e dei mercati.
Nella scuola, sotto la parola d'ordine "ognuno sia libero di scegliere la scuola per i propri figli" (con il contributo dello Stato, beninteso!) si sta avviando uno svilimento della scuola pubblica che, ove avessero agio di proliferare (con il contributo dello Stato, beninteso!) scuole e scuolette private, confessionali o laiche che siano, vedrebbe snaturato il suo fine di formazione culturale omogenea, diretta a tutti nello stesso modo, per una crescita culturale di tutti gli strati della popolazione. La nostra scuola pubblica finirebbe con il diventare il ghetto di chi non ha possibilità economiche o interesse personale per frequentare le scuole private, con un evidente decadimento della qualità dell'insegnamento e dei docenti che potrebbero venire allettati -almeno nel caso delle scuole private più serie- da offerte economiche più gratificanti. La scuola pubblica diventerebbe, come negli USA, la scuola degli studenti demotivati e degli insegnanti non preparati.
L'organizzazione del lavoro viene sempre più spinta verso la flessibilità e il tempo determinato mentre l'inerzia del mondo politico e sindacale non permette che si pongano ostacoli seri a licenziamenti e chiusure di aziende non sempre e non tanto causati da difficoltà di produzione quanto dall'ingordigia della classe padronale che non intende rischiare l'ingente livello dei profitti accumulati e che pertanto preferisce trasferirsi nei Paesi dove i lavoratori sono meno tutelati.
La spinta alla privatizzazione in settori delicati come la scuola, i servizi, la sanità, l'assistenza è subdola ma continua: creando o denunciando disservizi in tali settori, si vuole convincere che "privato è più efficiente". Ma dove è scritto che "statale" debba essere sinonimo di inefficienza e mancanza di qualità? Si impongano controlli e livelli di produzione nei settori ancora soggetti allo Stato anziché rinunciare alla loro gestione, altrimenti nei settori socio-sanitari (scuola, sanità, previdenza) si corre il pericolo di creare ghetti di servizi con livello scarsissimo di qualità riservati a chi non ha adeguate possibilità economiche, mentre nei settori dei servizi essenziali (telefonia, energia, trasporti) in nome dell'efficienza si assisterà o a un rialzo dei prezzi, come già avvenuto nei trasporti, o a una spinta verso tecnologie avanzate non da tutti usufruibili (penso allo stato di abbandono o alla riduzione dei telefoni pubblici con l'intento di aumentare la vendita dei telefonini e dei vari servizi ad essi connessi).
E' noto a tutti il detto "gli dei accecano coloro che vogliono portare a perdizione". (10 marzo 2001)

macbeth@unpodisinistra.it


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(in archivio dal 10 febbraio 2001)
Di messaggi equivoci e preouccupanti

Da manifesti taglia extralarge il viso di Berlusconi sorride rassicurante (si fa per dire!) accanto a frasi che a una prima lettura appaiono di pura banalità elettorale. E invece non lo sono. A rileggerle con attenzione appaiono per quello che sono: messaggi equivoci e preoccupanti. Esaminiamoli uno per uno. "Un presidente operaio per cambiare l'Italia". Che senso ha che si identifichi con un operaio chi negli operai vede soltanto la forza lavoro che aumenterà il suo capitale? E che significa appellarsi a questa qualifica di operaio da parte di chi ha sempre mostrato di non credere nella classe operaia e continuamente si adopera per distruggerne o vanificarne le organizzazioni, sindacali o politiche che siano? Forse il senso riposto del messaggio è: "Operaio, sindacati e partiti in cui una volta ti riconoscevi stanno vieppiù perdendo credibilità: l'unica certezza oggi è il padrone, quello che a suo piacimento ti dà o nega un lavoro; moderno lupo cattivo, mi propongo come operaio per attirarti nella mia trappola: l'Italia val bene una mascherata!" Ma tornando al senso apparente della frase, guardi che non sono gli operai in quanto tali che possono cambiare un Paese, ma la classe operaia organizzata: non mi dica, Cavaliere, che pur di diventare presidente intende rifondare "il partito della classe operaia"!

"Un presidente imprenditore per realizzare le grandi opere". Questa frase mi sembra veramente ambigua. Appare come se le grandi opere di cui a suo parere avrebbe bisogno l'Italia dovessero venir progettate e realizzate da qualche sua propria impresa, magari quella che a suo tempo costituì, a Milano 2, la base della sua crescente fortuna di imprenditore. Altro che conflitto di interessi, Cavaliere! Ma poi, mi scusi, a quali "grandi opere" si riferisce? A raddoppiamenti o quadruplicamenti di autostrade, al ponte sullo Stretto, a cementificazioni selvagge, a faraoniche quanto inutili "cattedrali nel deserto"? Non crede che altrettanto grandi opere, forse più necessarie, siano il rimboschimento, direttive più attente ai bisogni animali ed umani per gli allevamenti, il disinquinamento dei mari e delle acque, la vivibilità delle città, il trasporto merci su rotaia? Che ingenuità, la mia Cavaliere: per tutto questo non occorre un imprenditore, basta un presidente.

"Un presidente innovatore per ammodernare lo Stato". Ma ci rendiamo conto di come è minaccioso questo proposito? Il Devoto-Oli, infatti, definisce la parola "innovatore": chi si adopera per mutare in modo più o meno esteso e profondo, mediante l'introduzione di sistemi e criteri nuovi. Ora, se chi ha suggerito lo slogan intendeva veramente questo, allora il testo avrebbe dovuto essere completato con proposte precise sull'azione innovativa che si intenderebbe applicare, perché si può mutare in meglio ma anche in peggio: Pinochet fu certamente un mutamento, una innovazione, rispetto ad Allende, ma possiamo dire che sia stato un miglioramento per il Cile?
Ma forse si intendeva "rinnovatore". In proposito lo stesso dizionario della lingua italiana detta, per tale parola, la seguente definizione: chi intende provocare o raggiungere una condizione nuova, con l'idea implicita di un miglioramento. C'è una bella differenza, non vi pare? Cavaliere, deve sceglierseli meglio i suoi collaboratori; che siano almeno acculturati, se non proprio colti. Ma già! Lei è quello che tempo fa, sempre tramite manifesti XL, proponeva una scuola fatta di "internet, inglese, impresa". Tralasciando la cultura.

"Un presidente amico per aiutare chi è rimasto indietro". Questa mi sembra veramente la peggiore, una dimostrazione di arroganza e di totale mancanza di sensibilità. Ci viene detto infatti che prendersi cura di chi è rimasto indietro (a proposito, "rimasto indietro" in quale campo? quello del censo, della cultura, del livello sociale, della salute, del lavoro? - anche in questo caso dobbiamo rilevare la già lamentata imprecisione delle proposte) non è compito precipuo del potere politico e sociale (partiti, sindacati, parlamento, governo) ma è atto di buona volontà da parte di chi il potere politico intende gestirlo in maniera personale e insindacabile. Ciò che dovrebbe essere un impegno preciso di ogni governo che voglia essere considerato civile e moderno viene respinto nella sfera della carità personale, come all'epoca in cui le caritatevoli signore della buona società recavano zuppe e coperte ai poveri del contado, decidendo arbitrariamente chi era meritevole e chi no (chi frequentava la chiesa, chi non si ubriacava, chi era riconoscente, chi non rivendicava, chi implorava). Mi fa spavento immaginare quali possano essere i suoi criteri di merito, oggi, Cavaliere.

E per finire, mi piace suggerirle qualche altra frase nello stesso genere di quello da lei adottato. Che ne dice, per esempio, di "un presidente elettricista per illuminare il vostro cammino", "un presidente fornaio per il vostro pane quotidiano", oppure "un presidente tata per sculacciare gli italiani cattivi", o anche "un presidente mamma per il bacino della buona notte"?

macbeth@unpodisinistra.it


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(in archivio 18 febbraio 2001)
Di crimini, etnie e notizie giornalistiche

A me, scippata della borsetta da un ragazzo in motorino, cosa serve sapere che l'autore del furto è, per esempio, un kosovaro? O che la donna che mi ha sottratto il portafoglio in auto è, per dire, una rumena? Cosa aggiunge alla notizia scritta su un giornale o detta in televisione l'insistenza puntigliosa sulla "diversità" (etnica, religiosa, sessuale, sociale) dell'autore di un delitto efferato o di non rilevante importanza?
Mi si obietterà che compito di chi porge la notizia è fornirla nel modo più possibile preciso onde dare un quadro completo dell'avvenimento.
Ritengo invece che queste precisazioni, sottolineando aspetti marginali, quale è certamente l'appartenenza culturale o di colore, rispondano a un'esigenza ben precisa che finisce con lo scompaginare il quadro di riferimento e rendere sfocati gli aspetti gli elementi su cui si dovrebbe invece ragionare.
Sottolineare infatti che gli autori dei vari crimini non sono "normali" -cioè non sono italiani, bianchi, eterosessuali, con un lavoro regolare e perbene- distoglie dalla necessità di capire le ragioni (economiche, sociali, culturali) del crimine commesso e serve a tranquillizzare l'opinione pubblica, la vasta massa del cui consenso traggono sostentamento (monetario e politico) editori, giornalisti, TV pubbliche e private, personaggi politici adusi da troppo tempo ormai a blandire gli umori della maggioranza non-pensante degli italiani. Questa verrà così indotta a individuare negli "altri" (siano essi tali per colore, cultura, religione, etnia, sessualità, pensiero politico, ceto sociale) i portatori del male, i seminatori dell'errore, i produttori di pericolo.
Sono loro, "i diversi", asserisce la televisione e ribadiscono i giornali, che commettono quei crimini piccoli o grandi che la "brava gente" non sarebbe in grado neanche di concepire.
Ma la "brava gente" tende sempre più a ridursi nell'immaginario dei non-pensanti: anche i sardi commettono rapine e rapimenti, per non parlare poi dei napoletani; e i gay? le puttane? tutti quelli che non hanno un lavoro regolare? gli emarginati? Tutti furfanti, tutti da criminalizzare, da tenere sotto controllo, alla larga (salvo che naturalmente non servano a raccogliere pomodori o a curare gli allevamenti del Nord o a lavorare in nero per le fabrichette) dalla "brava gente" che con il suo voto e la sua adesione silenziosa permette a chi ha il potere di esercitarlo sempre a favore dei ceti privilegiati e sempre a danno delle classi meno favorite.
Non è questo un modo subdolo per far fluire, in maniera indolore ma efficace, nei cervelli non usi a ragionare il razzismo inteso nella sua accezione più vasta?
A margine di questa nota vorrei segnalare un esempio di livello decoroso mantenuto dai media nel dare notizia di un fatto tragico.
Non molto tempo fa un giovane uomo si è tolto la vita gettandosi da un cavalcavia. Nessuna immagine del luogo della disgrazia, del povero corpo a malapena coperto da un lenzuolo, nessuna zoomata sul viso distrutto della madre, nessuna domanda indecorosa ai familiari. Che abbiano finalmente, i media, imparato il valore del rispetto e del pudore?
Il nome del giovane uomo era Edoardo Agnelli.

macbeth@unpodisinistra.it


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(in archivio dal 18 febbraio 2001)
Di imprese e di attentati

Poiché il mondo in cui viviamo è basato sulla centralità dell'impresa, chiedo giustizia per il danno fisico e morale che il 22 dicembre del 2000 è stato arrecato all'impresa di cui posseggo un milione di azioni.
Mi riferisco all'attentato di stampo fascista verificatosi ai danni (per fortuna solo alle cose!) del Manifesto di cui io, essendo azionista della Cooperativa, posseggo un milione di azioni privilegiate (intendo, in realtà, azioni per il valore di un milione, ma tant'è, non piace a nessuno, piccolo o grande azionista, vedere danneggiata l'impresa in cui si sono investiti soldi).
Berlusconi, mi rivolgo a te perché tu, più di tanti, puoi capirmi, tu che tremi ogniqualvolta qualcuno (soprattutto se in veste di giudice) sfiora soltanto con il pensiero le tue amate imprese, tu puoi condividere la rabbia e il dolore di chi vede contaminata, non da pensieri ma da vampate dinamitarde, un'impresa in cui si siano operati investimenti. Che poi uno ci abbia investito più speranze che soldi, poco importa.
Perciò, Berlusconi, ti prego, ordina a Fini che comandi a Storace che imponga ai suoi fascisti metropolitani e regionali di non toccare il Manifesto, un'impresa in cui tanti italiani hanno impegnato e impegnano tutti i giorni il loro cuore, le loro speranze, la loro intelligenza.
Eh già! Perché nessuno mi toglie dalla testa che la manovalanza fascista abbia rialzato il capo perché, dopo la vittoria della destra alla Regione e alla Provincia, ritiene di poter contare su una copertura politica fino a oggi insperata.
E allora non ci venga a dire Buttiglione che non importa se il terrorismo è di destra o di sinistra, l'importante è combatterlo in ogni caso. Eh no, caro professore! Perché queste sue dichiarazioni sottovalutano la necessità di capire le ragioni e le motivazioni del terrorismo, mentre, come tutti sanno, è solo la conoscenza di queste ultime che permette di combatterlo e stroncarlo. E' come se uno volesse scovare un assassino prescindendo dal movente.
O dobbiamo intendere che si voglia incominciare a "fare piazza pulita" come ha detto Previti?

macbeth@unpodisinistra.it


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(in archivio dal 6 febbraio 2001)
Di élites, minoranze e Rai TV

Io appartengo ad un'élite; non l'élite dei padroni, o quella di chi conta, o di chi detiene il potere politico, o di quelli che manovrano occultamente finanze mondiali e destini di popoli, o -per dirla volgarmente- di chi ha i soldi. No; in quest'era di sondaggi infiniti ho scoperto di appartenere all'élite costituita dagli italiani che comprendono e utilizzano correntemente e correttamente la propria lingua scritta e parlata, all'élite -sfrondata dalla percentuale degli ex (o neo ?) fascisti che in quell'occasione votarono come l'estrema sinistra- che si pronunciò contro il maggioritario, all'élite di chi ama e vorrebbe ancora viva la politica, all'élite di chi non ha mai visto un'immagine del Grande Fratello, all'élite degli ininfluenti.
Ma allora non appartengo a un'élite, bensì a una minoranza!
Non per favorire un capovolgimento della situazione, naturalmente, ma perché fa tendenza appartenere al circolo di chi si riempie la bocca con forti parole di denuncia.
Bene, forte di questo rispetto ogni giorno proclamato dai media (per favore, pronunciate come è scritto, grazie; la mia minoranza, pardon! élite, ci tiene) l'èlite o minoranza, appunto, cui sento di appartenere, per non rischiare l'estinzione avanza sommessamente un'umile richiesta.
Si sa che, per alcuni -rimaniamo in materia di minoranze- è più facile rinunciare al sostentamento del corpo anziché a quello dello spirito e della mente. Io, e il resto della minoranza con me, appartengo al novero di costoro. È per questo che chiedo ai programmatori della Radio Televisione Italiana di tener conto di questa mia, e nostra, necessità di vita. Come trovare, infatti, il nutrimento di cui abbisogniamo nel fardello di programmi quotidianamente propinatici che si sostanziano in quiz, canzonette, giochi a premio, talk shows, gare di memoria, insulti in famiglia, telenovele sudamericane, ciance pseudopolitichesi, pseudosociologiche, pseudopsicologiche, pseudosessuali, serials sull'esercito americano (ma figurati!..), eccetera eccetera? È possibile che i responsabili della RAI siano degli idioti, degli incompetenti, degli ignoranti? Non credo. Credo piuttosto che la questione sia altra e sia da ricercarsi nell'uso che del mezzo televisivo si vuol fare.
Può un servizio pubblico essere snaturato della sua funzione di "servizio", appunto, per essere omologato a una forma aziendale la cui unica vitalità è misurata sul fatturato e sulla competitività finanziaria? Può un servizio pubblico, la cui produzione rientra comunque nella sfera dell'intrattenimento e della cultura, far proprie le regole del mercato che dettano di produrre solo quanto richiesto dal consumatore? Oppure un servizio, che oltretutto è definito pubblico, deve misurarsi sulla qualità della sua offerta, accantonando, al limite, ogni idea di redditività? (Naturalmente, non è che si debba sorvolare su eventuali sprechi e cattiva amministrazione, è chiaro!)

Se il termine di paragone è l'audience -il che significa introiti pubblicitari- è chiaro che, dovendo gareggiare con le televisioni private, la RAI non può che abbassare il livello dei suoi programmi, perché è scontato che più un programma è "facile" (chi vuole legga "idiota" o "ignobile") più è seguito dalla maggioranza. Ma se il termine di paragone è la qualità, allora bisogna imboccare una strada diversa: non certo quella dell'"istruzione pedagogica" a tutti i costi; eppure programmi "leggeri" e insieme interessanti o programmi "intelligenti" ancorché godibili esistono e a volte vengono addirittura trasmessi, ma in ore proibitive (facciamo presente che noi minoranza per la più parte la mattina ci alziamo presto per lavorare).
Tutto ciò premesso, si viene di seguito all'illustrazione della richiesta in oggetto (ci rivolgiamo a un'azienda pubblica, quindi un minimo di linguaggio burocratico è quasi d'obbligo).
Poiché la RAI gestisce tre canali, non potrebbe essa riservare qualche ora di un solo canale alle esigenze culturalnutritive della minoranza di cui faccio parte? Si lasci libero sfogo su due dei canali, dalle ore 0 alle ore 24, alla libidine di chi ama i rivoltanti programmi che fanno sognare vite inesistenti o improponibili, o che fanno sfogare istinti bestiali più o meno soppressi, o che fingono di renderci più buoni con l'ostentazione di "casi umani". Sul canale che resta regalateci poche ore (dalle 20 alle 23, per esempio) e fateci ascoltare bella musica, interessateci ad eventi culturali grandi e minimi, trasmetteteci film non anonimi, fateci vedere compagnie di danza o di teatro nazionali e non, avviate dibattiti intelligenti con persone di valore anche sconosciute ai più ma che sappiano quello che dicono, permetteteci di scoprire quel mondo della scienza o della tecnica per ora riservato solo agli esperti, fateci conoscere -ma veramente- popoli e culture e letterature ignoti spesso anche a noi, minoranza ininfluente ma pur sempre da rispettare.
macbeth@unpodisinistra.it


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