Vincenzo Vigiliano
Mi chiamo Vigiliano Vincenzo, vi invio una mia lettera aperta per divulgare la mia testimonianza. Non sono un militante e non faccio dell'attivismo politico la mia ragione di vita, ma quello che ho visto e vissuto a Genova non può passare sotto silenzio. Il silenzio è la morte della democrazia.
Mi chiamo Enzo, sono una persona. Non ho mai fatto politica in modo particolarmente attivo. Sono laureato da poco, ho 31 anni, quindi non ci ho messo tanto poco.
Sono una persona.
Sono una persona, ma sabato, a Genova ho smesso di essere una persona.
Il mondo così com'è non mi piace molto. Non mi piace che la mia ricchezza sia costruita sulla povertà di tanti altri. Quindi Giovedì sera sono salito su un treno e sono partito per una città in cui non voglio più tornare.
Venerdì mattina sono entrato nello stadio Carlini. Ho visto gente sorridente, allegra, felice. La felicità che si prova solo quando si dice NO all'ingiustizia.
Siamo usciti per la "Disobbedienza Civile". Si, disobbedienza, ma civile. Civile come non è stato chi ha teso una trappola al nostro corteo, A quei giovani alla testa del corteo, che li ha costretti a combattere. Quei giovani che ancora sorridevano prima di essere fatti oggetto di lancio di lacrimogeni, di lancio di sassi, da parte delle "forze dell'ordine", che sbucavano dalla ferrovia e li attaccavano con lucida premeditazione.
Siamo usciti dallo stadio con il sorriso e siamo rientrati senza. E senza uno di noi. Giustiziato.
Il giorno seguente ci siamo uniti al corteo "istituzionale", quello con i parlamentari alla testa. Io ero in compagnia di due amiche e della mia ragazza.
Sul lungomare, senza accorgerci di niente, in mezzo a gente armata soltanto della voglia di dire "NO", abbiamo smesso di essere persone.
Nuovamente nel punto più indicato, strategicamente parlando, come fossimo stati un esercito nemico, siamo stati attaccati. Ci hanno sparato addosso centinaia di lacrimogeni. E ci hanno caricato.
Ho avuto paura di morire.
La gente spingeva, piangeva, urlava. Vedevo cadere signore che potevano essere mia madre. Cercavamo di aiutarle, di non calpestarle. Vecchi che piangevano e che si stringevano ai più giovani. Giovani che si stringevano ai più vecchi.
Ho visto sparare quegli odiosi lacrimogeni ad altezza uomo. Per uccidere.
Ho sentito bruciare tutto il corpo e avevo il fiato spezzato per poter urlare la rabbia e il dolore. Ho ancora addosso quell'odore maledetto. Ho visto la mia ragazza che mi veniva incontro, piccolissima, e i poliziotti da dietro, enormi, sparargli un lacrimogeno che gli è passato ad un metro dalla testa.
Poi, forse irrazionalmente, appena abbiamo potuto, siamo usciti dal corteo.
Mentre cercavamo un posto più tranquillo, siamo rimasti nel mezzo di una carica della polizia. Mentre cercavo di far scappare le mie amiche sono rimasto indietro. Ho capito che non avevo più il tempo di fuggire. Mi sono seduto in terra con le mani alzate mentre loro scendevano dal blindato.
Mi hanno chiamato bastardo, mi hanno minacciato di morte, e poi uno di loro con rabbia lucida e ragionata, mi ha colpito. Un pugno in faccia, una manganellata, un calcio, e poi non so cos'altro ancora. Ma non facevano male al corpo, perché non avevo più un corpo. Non ero più una persona.
Sono stato fortunato. Andavano di fretta e mi hanno lasciato andare. Ho raggiunto le mie amiche. Poi sono rimasto solo con la mia ragazza, perché un'altra carica ci ha disperso.
Abbiamo vissuto altre ore da incubo, ore di angoscia. Poi siamo nuovamente tornati allo stadio Carlini. E via da Genova.
Ora sono qui a Roma, a casa mia, e pure non ci sono. Sono sempre là, a raccogliere le tante piccole storie assurde che in un giorno di follia inevitabilmente incontri.
Allora non sono più una persona, non sono più io. Sono il vecchio compagno di rifondazione cui hanno puntato il mitra in petto e hanno urlato "bastardo comunista, vi stermineremo tutti". Sono la mia amica presa a manganellate da un poliziotto mentre gli urlava offese. Sono quel ragazzo che per evitare un blindato che l'aveva puntato si è lanciato da un altezza di quattro metri, e che non poteva andarsi a far curare in ospedale perché lì arrestavano tutti. Sono la signora disperata cui ho raccolto gli occhiali mentre quelli sparavano lacrimogeni. Sono tutte quelle immagini in televisione. Sono tutti quei nasi fracassati. Sono quei ragazzi picchiati nel sonno mentre dormivano nella scuola assaltata.
Sono una spugna che assorbe la violenza. La violenza che ti rimane appiccicata addosso. La violenza perpetrata a Genova contro chi aveva la sola colpa di voler dire "NO".
La persona che quel giovedì è salita su un treno, non è più la stessa, semplicemente perché non è più una persona. Non potrò mai più guardare un poliziotto e pensare che lui è lì per proteggermi. Forse non l'ho mai pensato. Forse l'ho sempre saputo che le forze dell'ordine sono solo il braccio armato e violento di un potere occulto. Ma era tutto troppo razionale. Ora percepisco la loro violenza con tutti i sensi. Con quel grumo di rabbia e tristezza che mi si è formato nello stomaco.
Ora sono qui, nella mia città. Lontano da Genova. Con tutta la mia rabbia, con tutta la mia tristezza, faccio silenzio e penso. Penso che mi hanno picchiato, che potranno picchiarmi ancora, ma che sarò ancora lì, che si stancheranno prima loro di picchiarmi. Che io sarò ancora lì, in un'altra Genova, ad urlare un altro "NO".
Ed è allora, solo allora, che quel grumo di tristezza per un istante si scioglie e finalmente piango.
(30 luglio 2001)