Milano
capitale dell'emigrazione
Estratto da La Meccanica. Garzanti.
di Carlo Emilio Gadda
“Nel 1906 venne aperta, dietro la Stazione Centrale, una «Casa degli emigranti» nell’intento di assistere i lavoratori italiani «in transito» verso i paesi della Medieuropa: quelli che il Moncenisio e il Sempione e il Gottardo e il Brennero pompano su dal vivaio del dispregio e della miseria, i sâles macaronì, i Katzelmacher, i cinque-cinque: a costruir case ponti canali, gittar traverse e rotaie, batter mine, vetri soffiare e lavorar dighe argini e terre, in terra straniera. Qualcuno portafogli rubare, coltellate regalare: tutti donne fregare. O nel guazzo delle cloache, operosi alle cèntine e a’ contrarchi delle fogne profonde, budelli neri delle metròpoli per tutto lo stronzame dell’umanità. Molti, fra barbe e specchiere, insaponate vertiginose. Sbàttere con uno sparo ampio le sue salviette pseudovergini, svolazzando indafarati nella ripesca de’ cosmetici e degli arricciabaffi, riflettuti negli specchi millanta, senza scivolar mai: vispi e cerimoniosi al paltò, inimmaginabilmente fertili nello spifferamento imbutiforme de’ ringraziamenti, agglutinata la vittima in un vortice di titoli cavallereschi e accademici. Moltissimi vestir frack e piastrone, dalla Cannebière al Boulevard des Capucine bleu-rosso; o da stagione a stagione, da Saint-Moritz a Deuville, dalle «terrasses où le thé se prend aux heures de la lune» infino al dique bigio di Ostenda, e sópravi una fantasmagoria boreale d’alberghi e casini, sogno di gesso caramellato, trionfo notturno del chiaro d’ova. Alla Casa degli emigranti, dietro la Stazione Centrale di Milano, (poichè di qui s’era partiti), vi furono possibilità di refezione e dormire: e docce gratuite, che altri eludevano paurosamente, perché quel regalo gli pareva sospetto, doveva nascondere certo un qualche tranello della questura; altri giocondamente le assoporavano, per la prima volta magari in lor vita, tèpide sui lacerti e le membra. Vi pesavan dentro, in que’ membri, i grumi densi della fatica: e tutti i travagli ne avevan nucleato come l’abbozzo d’un michelangiolesco fantasma: lo schiavo legato del Louvre. Quando arrivò, come una pataffia sur un protocollo, il 28 luglio 1914... tutti i tea room d’Europa dalla Wilhelm Strasse a Via Veneto passarono un brutto momento: i machiavellici personaggi che li decorano di lor presenza mefistofelica, o quasi, ebbero, una volta in vita, qualchecosa da fare. Il loro stomaco travagliato dalle salse delle ambasciate e dai più indigesti lunch, martirizzato dalle ptomaine delle sògliole e dai succhi cadaverici delle pernici finte, dovette tutt’a un tratto far luogo a tutto, invece, un lavorio del cervello, per capire che cosa rimanesse da fare: è questo infatti il più diplomatico de’ nostri umani problemi. La «Casa degli emigranti» sarebbe dovuta doventar caserma e poi quartiere e città. Valanghe di poveri cristi, assonnati, stanchi, anneriti, digiuni, incanalati verso le frontiere chiuse un po’ da tutte le polizie europee, rotolarono di colpo nella baraonda, già per suo conto illustre, della Stazione Centrale di Milano. Quella maladetta stazione, che par ideata da un furiere austriacante di Carlo Felice, tanto è gretta, meschina, antistatutaria, sàtura di tutte le imprevidenze che un ingegner specializzato può accumulare in un progetto d’esecuzione, con banchine larghe un metro e mezzo dove fa bisogno quaranta: con gomitate e spigoli nelle còstole e villana frequenza di tutti i villanoni del mondo universo, spampanate americanesse che Dio le stramaledica brutte, lunatiche, zannute, lazzerone, e tirchie, che son più generoso io: quella divenne una tregenda d’inferociti e di disperati, in agguato de’ convogli, ancora durante manovra da un binario all’altro, con tutta la pena e l’ingombro de lor pacchi, bottiglie vuote, parallelepipedi in sulle spalle stracche e fagotti sferoidi in procinto di sfasciarsi; donne scarmigliate e nasali con bimbi ignudi, neri, a fargli far piscia e cacca dentro i binari, urlando i manovratori neri ed unti per salvarle dal treno imminente; direttissimi con novantotto minuti di ritardo, che arrivavano a quattro per volta con un sorgere improvviso de’ fari dentro l’incendio de’ perduti tramonti, incedevano poi lenti, sibilanti, esausti; superstite al pulsare della cèlere corsa fremevano ancora da lato la dinamo stridula e il compressore del Westinghouse; e quattro per volta scaricavano su d’una sola banchina torme di bipedi e cumuli di accatastati bauli e tutta una marmaglia ancora da tutti i Gottardi e i Sempioni. Basilèa, ai primi d’agosto, rigurgitava di circa diecimila rimpatriandi italiani, così che le autorità cantonali si videro costrette a sbarrare li accessi della città con forze di polizia. Nuove torme di strapazzati reduci dalla Germania non poterono entrare: nel vento, sotto la pioggia, guardati dalle sentinelle tedesche come fossero prigionieri di guerra, dovettero, uomini donne e bimbi, una sera, accovacciarsi in un prato, al confine germanico, mandra parcata nell’uragano. Più d’una partorì nella terra, come una belva: fra i pianti tormentosi de’ pupi màdidi arrivò della cioccolata, poi latte in iscatole; ma la pioggia orribile fu tutta la notte sopra quei corpi di donne: e la mammia estratta perché la ghermisse il cùcciolo avido, incontrava, prima la sferza gelata della tempesta. Dietro la Stazione Centrale di Milano la Casa degli emigranti fece quel che potè. La Casa di lavoro non fece quel che non potè, che nessuno poteva. Neppure il Museo Sociale, in simili frangenti, neppure lui non arrivò a rendere tutti que’ benefizii che se ne aspettavano: nè la Scienza statistica, nè l’economica, nè la politica. E quando arrivò infine il 24 maggio 1915, la Casa di lavoro divenne superflua, di colpo. Anche i più recalcitranti lazzeroni trovarono finalmente immediatamente un impiego, il miglior impiego cui possa incontrar un tànghero affamato su questa terra bugiarda, - quello buono, quello giusto, quel vero! Essere scaraventato contro altri maledetti tangheri, quattro limoni in tasca, e almeno li uni e li altri la finiranno di mangiare pane a babordo o a tribordo.”
(Carlo Emilio Gadda. La meccanica. Garzanti. pp.52-55)
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