Riflessioni
sul saggio di Sergio Romano Confessioni di un revisionista
di Fabio Trazza
Ammonisce Sergio Romano: “Mai come oggi occorre, per capi re
il secolo, tornare alla prima guerra mondiale” (Confessioni di un revisionista.
Ponte alle Grazie. Milano 1998. pp.1-151 L.20.000. p.55) Tentiamo di applicare
il suggerimento, per analizzare il problema più complesso di fine secolo:
la migrazione di milioni di individui, che fuggono dalla povertà dei paesi
d’origine, per riversarsi, anche illegalmente, nei paesi ricchi del mondo,
tra cui l’Italia. Il saggio di Romano non tratta specificamente tale connessione,
perché, nato dal bisogno di difendere alcune posizioni sostenute nella polemica
scoppiata tra la primavera e l’estate del 1998 sulla guerra civile spagnola,
si dilata su tutta la materia storiografica del XX secolo, riproponendo i
punti fondamentali che necessitano di essere riletti in chiave revisionista.
Può quindi essere utile verificare se il revisionismo, che Romano ci propone
così documentato e argomentato, sia in grado di farci accostare con razionalità
al fenomeno delle migrazioni di fine millennio, che molti irrazionalmente
interpretano: • o come un fatto momentaneo, dovuto alla debolezza, fragilità
ed insicurezza dei confini nazionali, e che forse potrebbe rapidamente essere
interrotto, solo se si intensificassero denunce, manifestazioni o fiaccolate;
• o come un fattore ingovernabile, frutto di un disegno a noi ignoto per la
solita imperscrutabilità dei fini della storia e che forse andrebbe passivamente
assecondato, magari aderendovi con solidarietà, per lenire in qualche modo
le sofferenze degli altri e gli incoffessati sensi di colpa di noi stessi.
E’ noto che la fonte odierna delle emigrazioni, o il vivaio del dispregio
e della miseria, per dirla con Gadda, si origina nei paesi che hanno acquisito
l’indipendenza in questo secolo, e particolarmente negli ultimi decenni, durante
la fase della decolonizzazione. Un intero capitolo del saggio di Romano è
dedicato a questo problema: ”I nuovi errori: la decolonizzazione”. E già dal
ti- tolo si annuncia in cosa consista il revisionismo. Dovremmo rivedere la
teoria secondo la quale aver chiuso, come fu chiusa, la partita coloniale,
sia stato un fatto storico di per sè positivo. Romano ci richiama ad esaminare
la possibilità che il modo storico in cui gli europei abbandonarono i paesi
che loro avevano per secoli, o anche solo per decenni, dominato, sia stato
sostanzialmente un errore. Nel 1917, in piena guerra mondiale, “gli americani
vollero distinguersi dalle altre potenze e conferire alla propria guerra un
carattere originale”. l’America supera il proprio neutralismo e “annuncia
al mondo con chiarezza i propri obiettivi”, riassunti nei 14 punti di Wilson.
Nasce la diversità americana, perché all’interno di tale programma spicca,
tra le altre novità, il principio dell’autodeterminazione dei popoli (op.cit.
pp.62-63). Stop quindi al colonialismo. Ma cosa fu il colonialismo? “Fu la
somma e la sintesi delle ideologie e dei movimenti culturali che agitarono
la società europea durante l’Ottocento. Fu illuminista e positivista quando
si propose di abolire la tratta degli schiavi e di strappare gli indigeni
all’ignoranza e alla barbarie. Fu apostolico e missionario quando suscitò
la speranza che la cristianità avrebbe raggiunto altre frontiere. Fu economico
e utilitario quando creò la convinzione, spesso illusoria, che le risorse
e i mercati dell’Africa e dell’Asia avrebbero alimentato lo sviluppo dell’industria
moderna. Fu imperialista e romantico quando sollecitò la fantasia degli esploratori
e la volontà di potenza dei governi. ... (E tutti i colonialismi) furono politici
e militari quando i governi agirono per dominare le vie di comunicazione o
dare scacco a un avversario. ... Furono economico-sociali quando permisero
di dare sfogo alle frange meno fortunate o più intraprendenti delle società
europee... (op.cit. pp.107-108). Se il colonialismo, sistema o parte di sistema
ideologico, è fatto di questi intrecci, figuriamoci cosa deve essere stata
la colonizzazione, pratica politica e applicazione concreta di teorie e di
interessi. Del resto. “Così è fatta la storia: un impasto di ideali e di fango
in cui non è mai facile calcolare con esattezza la dose degli uni e la dose
dell’altro.” (op.cit. p.94). E se così è fatta la storia, certamente è fatta
così anche l’Europa tutta. Contro ogni colonialismo i 14 punti di Wilson,
comunque, si affermarono e con essi il principio di nazionalità. Solo che
tale principio “venne fedelmente applicato ogniqualvolta nuoceva agli sconfitti
e giovava alle maggiori potenze vincitrici; ma fu ignorato ogniqualvolta intralciava
i loro progarmmi (op.cit. p.73). Da qui i tanti errori iniziali della stessa
opera di decolonizzazione. Eppure dopo la seconda guerra mondiale si assiste
al ritorno dei 14 punti di Wilson. Tanto che Romano parla di neowilsonismo
(op.cit. p.110). E questo avvenne per due ragioni: Ia “gli americani non si
erano battuti per restituire agli europei il potere di cui avevano fatto un
pessimo uso” (op.cit. p.110); IIa “occorreva evitare che l’Urss s’impadronisse
del nazionalismo coloniale e lo sfruttasse per la propria strategia mondiale”
(op.cit. pag.111). Ma la vera e propria valanga della decolonizzazione precipitò
nel 1956, l’anno di Suez (op.cit. pag.112). “La decolonizzazione diventa,
come il colonialismo ottant’anni prima, l’indiscutibile dogma della nuova
ideologia delle relazioni internazionali” (op.cit. pag.116). “Il problema
dei confini, che le vecchie potenze coloniali avevano trascurato di trattare
al momento della decolonizzazione, fu bruscamente trattato dai popoli negli
anni immediatamente successivi. Conflitti civili e guerre di secessione, oltre
a una lunga sequenza di colpi di Stato, scoppiarono dopo l’indipendenza in
quasi tutti gli Stati ” (op.cit. p.118). E in presenza di tali conflitti,
se ben si riflette, annotiamo noi, perchè parte della polazione non avrebbe
dovuto, o non dovrebbe, scappare? “Una tesi corrente in una parte dell’opinione
pubblica occidentale vuole che di tutto questo continuino a essere responsabili
le vecchie potenze coloniali. Ebbene in realtà una sola, grande responsabilità:
cedettero agli imperativi dell’ideologia decolonizzatrice e dettero l’indipendenza
a paesi che non erano in grado di esercitarne le prerogative”(op.cit. p.118).
La lezione più dura venne dal Sud Africa. “Resta da vedere naturalmente se
il regime della convivenza razziale possa conservare al Sud Africa il grado
di progresso economico e di convivenza civile che il paese bianco aveva conquistato
nelle generazioni precedenti” (op.cit. p.129). La lezione di Sergio Romano
è che, alla fine del secolo, forse siamo maturi per giudicare gli avvenimenti
non in funzione degli effetti desiderati. “E’ probabile che questo ritorno
alla storia provochi in molti studiosi una sorta di smarrimento. Verranno
privati di quella storia lineare, progressiva e teleologica in cui hanno fermamente
creduto. E dovranno abituarsi a lavorare nel fango della realtà dove tutto
è ambiguo e ambivalente” (op.cit. p.141). Ma questo ritorno alla storia è
salutare, perchè consente di cogliere la ratio degli attuali problemi senza
il filtro delle ideologie. Questo ritorno, per esempio, ci spiega meglio perchè,
anche nella fase della prima decolonizzazione “il nazionalismo turco si dimostrò
più forte di quanto gli Alleati non avessero sospettato. Risorto dalle ceneri
dello Stato ottomano, il cuore turco dell’Impero impedì ulteriori spartizioni.
Ne fecero le spese, in ultima analisi, gli armeni e i curdi.“ (op. cit. p.69).
Dei curdi oggi si interessano anche le grandi potenze, anche se di Ocalan
“il grande immigrato” e rappresentante di un’ala politica dei curdi, chi se
ne interessa di più, oltre la Turchia, è l’Italia. E questa è la prova che
le grandi potenze si sentono coinvolte, non certo per paura dell’Italia o
per il desiderio di risolvere un problema sollevato dall’Italia dei nuovi
governanti, ma perchè i Curdi sono una delle vittime degli errori della decolonizzazione.
L’altra vittima siamo noi che scontiamo in termini di immigrazione incontrollabile
il flusso continuo di vite umane. Eppure del “grande immigrato” i grandi discutono,
anche per far dimenticare che non sanno decidere. Per i piccoli immigrati,
i grandi invece tacciono. Perchè incontaminati dal revisionismo. Sarebbe utile,
al contrario, affrontare il problema immigrazione, magari forti della lezione
revisionista proposta da Romano. Sarebbe come riprendere il filo dell’effettualità
storica, avendo fatto svanire l’ombra di legami ideologici. E però. Se Sergio
Romano parla della guerra di Spagna, i giorna- listi (specchio o guida della
pubblica opinione) sorgono e insor- gono. Tanto la realtà effettuale della
storia di oggi non cambia. Se Sergio Romano parla di decolonizzazione, i giornalisti
tacciono. Eppure questo dibattito cambierebbe la realtà effettuale dell’oggi.
Forse siamo dinanzi al primo sintomo di ciò che lo stesso Romano ha definito
una sorta di smarrimento. Del resto ci vuole molta forza intellettuale e coraggio
razionale, per non rimpiangere ideologie, che ci hanno avvinto, ma sono scomparse,
lasciando i più deboli attoniti e impreparati. Per parte nostra, anche per
contribuire a superare quella sorta di smarrimento che pervade molti, avanziamo
una proposta per Milano, città oggetto del nostro studio, in quanto città
fondamentale per l’Europa.
• Milano faccia propria la proposta di revisione storiografica ormai fondata,
aprendo un pubblico seminario europeo, per dimostrare che il revisionismo
non mira all’assoluzione di crimini, cosa di cui è ingenerosamente accusato,
ma a trovare le possibili vie di contatto costruttivo con il vivaio del dispregio
e della miseria.
• Esamini e perfezioni l’ipotesi di estinzione del debito per i paesi poveri,
pubblicando uno studio di fattibilità.
• Proponga all’Europa di esaminare tale studio, farlo crescere e camminare,
per realizzarlo al compimento del Millennio.
• La proposta dovrebbe essere avanzata in forma congiunta dalle autorità civili
e religiose di Milano a quelle civili e religiose europee. Sarebbero quindi
maturi i tempi per aprire un tavolo, nella sede più autorevole possibile,
europea e delle stesse Nazioni Unite, per un governo dei flussi migratori
nel mondo, nell’epoca della globalizzazione.
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