Intervista
esclusiva a Giorgio Rumi
I rapporti tra persona e società, città e stato, nazione
ed Europa, cultura e democrazia, esaminati per i nostri lettori in un lungo
colloquio con lo studioso della storia contemporanea, ordinario nell’Università
Statale di Milano.
di Fabio Trazza
D Professor Rumi, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici
(1), Lei ha parlato sul tema dell’eccellenza. Lo ritiene un tema così
importante per la società e in particolare per i giovani, come prospettiva
per modificare anche se stessi e quindi essere utili alla società?
R Io lo ritengo non solo importante, ma direi quasi essenziale. Almeno essenziale
oltr’Alpe, perchè in Italia, per delle ragioni di carattere storico, negli
ultimi cinquant’anni è prevalsa, diciamo, un’inclinazione esclusivamente solidaristica.
Chiarisco: si era più attenti alla distribuzione della torta, che alla preparazione
della medesima. In altri termini, si era più attenti alla divisione della
ricchezza, campo primo equitativo, che alla formazione della ricchezza. Le
due grandi tradizioni, egemoni nell’ultimo cinquantennio nel nostro paese,
quella cattolica e quella socialista, le metto in ordine di data di nascita,
avevano un grosso problema di controllo delle masse, anche un problema elettorale,
e solo fino a un certo punto si occupavano della direzione generale dell’insieme,
che era piuttosto delegata non si sa a chi: alla mano occulta di un’imprenditoria
guardata con alquanto sospetto. Per cui è prevalsa, ripeto, una concezione
solidaristico-assistenzialistica, la cui nobiltà è fuori discussione, ma non
può essere evidentemente la sola. L’Italia ha un grosso problema, dato che
non ha nulla, se non i suoi abitanti, e il genio e le capacità lavorative
dei suoi abitanti: deve crearla questa ricchezza, prima di distribuirla. Ecco
la questione della eccellenza: essere capaci di far bene il proprio mestiere.
D Alla fine degli anni ‘70 è stato aperto un dibattito incentrato
attorno a un’espressione: “qualità dela vita”. Quest’espressione molto spesso
ha rischiato di essere una sorta di mantello sopra molte vanità. Ora, l’eccellenza,
questo nuovo termine che rapidamente si fa strada, non rischia di essere un
elemento che viene nominalisticamente sempre ripetuto, ma poi nella sostanza
si fa poco, perchè le strutture, le persone, i grandi organismi, che hanno
la responsabilità di masse importanti, a tutto sembra che spingano, tranne
che all’eccellenza?
R Difatti. La qualità della vita era declinata in termini, per esempio, di
riduzione della prestazione d’opera, aumento della disponibilità monetaria,
umanizzazione dei rapporti sociali e giuridici nell’immediato. Però si investiva
poco sul futuro. Questo è il problema. Ora, io credo che nella qualità della
vita rientri anche il lavoro come dimensione essenziale della vita. Cioè la
qualità della vita non può essere solo riduzione del lavoro, o liberazione
dal lavoro. Il lavoro fa parte della qualità della vita, cioè il lavoro non
è schiavitù, ma deve essere ricondotto alla sua natura di propellente della
vita sociale. In poche parole, l’uomo è anche il lavoro che fa, non è solo
il lavoro che fa. Il fatto che siamo liberati degli aspetti più pesanti, più
addirittura antiumani del lavoro, come è stato per secoli passati, non ci
può far dimenticare che la vita non è solo otium, ma è anche creatività.
D Riferendosi alle due grandi tradizioni, egemoni nell’ultimo
cinquantennio, quella cattolica e quella socialista, Lei ha sottolineato l’ordine
cronologico, temporale, ma non c’è anche un’ordine spaziale in cui queste
tradizioni convivono, come in Europa?
R Io mi riferivo all’Italia, perchè in Europa bisognerebbe introdurre altre
distinzioni.
D Ecco, volendo proprio pensare alle altre distinzioni che doverosamente
bisogna introdurre parlando d’Europa, mi interessa però sottolineare come
in Italia, e in modo specifico a Milano, ci sia stata una forte presenza del
socialismo come tendenza che ha animato la città, ma c’è stata anche una presenza
molto incisiva sul terreno religioso, che ha dato un contributo notevole all’Europa.
Mi riferisco al Cardinale di Milano, che ha aperto un dialogo, sia con gli
atei, sia con l’insieme delle religioni protestanti e ortodossa. Quel dialogo
sembra, non dico interrotto, ma comunque rallentato, rispetto a Basilea (2).
Nell’attuale fase, in cui abbiamo proprio a Milano riuniti tutti i segretari
dei grandi partiti socialisti, e tanti capi di Stato(3), non sarebbe altrettanto
utile che nella stessa Milano, o anche in qualsiasi altra capitale europea,
fosse ripresa con altrettanta enfasi l’esigenza di un incontro tra le diverse
confessioni europee?
R Credo che l’incontro fra le confessioni europee, fra le tre principali cristiane,
la cattolica, l’ortodossa, la protestante, è nelle cose, prima ancora che
in una volontà degli episcopati, perché la gente viaggia, la gente si frequenta.
Esiste tuttavia un limite. Perché altro sono le buone relazioni, la simpatia,
oserei dire la curiosità, anche se questa c’è un pò meno. Per ora diciamo
che navighiamo nel rispetto, che è condito anche da molta indifferenza. Per
essere sinceri, esiste un limite al di là del quale nasce il sincretismo.
Cioè, se le confessioni si trovano su un piano generico di umanitarismo, la
cosa credo lasci indifferenti tutti. I cuori non battono per questo. Io credo
invece che noi abbiamo molto da imparare da chi è diverso da noi: per esempio
l’islam, per esempio gli ortodossi, per esempio anche i protestanti, che mi
sembrano ridotti piuttosto male, francamente, ma se accettiamo la sfida di
una cultura diversa dalla nostra, se non cerchiamo la omologazione, o, peggio
ancora, la super religione, che poi diventa di ovvietà, di banalità.
D Cioè l’eccellenza dello spirito passa attraverso un radicamento
sulle proprie radici?
R Sì, ma anche attraverso una prospettiva diversa: che noi possiamo imparare
da loro. Ma senza obbligare l’interlocutore a rinunciare alla sua identità.
Quello che è bello, per esempio dell’islamico, è che è diverso da noi e quindi
può rappresentare una sfida, uno stimolo, in certo senso una competizione.
Io non credo che tutto passi attraverso una piattaforma vagamente umanitaria.
Per questo c’è già l’Onu, la Croce rossa, infinite altre organizzazioni, l’università
medesima, la comunità scientifica. Questo spazio del sincretismo è già occupato.
Invece c’è molto da imparare, molto anche da ricomporre, senza rinunciare
alla diversità delle esperienze. Io non chiedo all’islamico di rinunciare
ad essere islamico.
D Nel filo delle sue risposte si nota quello che a Como (4)
aveva indicato con estrema precisione, cioè che esiste una direzione, una
prospettiva della storia. Lei a questo proposito aveva fatto cenno all’iniziale
concezione ciclica della storia, contrapponendola alla concezione cristiana.
R Sì, quella ciclica è una concezione primordiale della storia, che è legata
all’esperienza più immediata delle stagioni naturali o della vita. Poi c’è
la concezione modellistica, cioè la storia come esempi, catalogo di exempla,
cui si attinge nelle diverse necessità. I cristiani invece hanno un’altra
idea della storia. Adesso magari tendono un pò ad annacquare la loro ispirazione,
perchè non sono più sicurissimi che stiamo andando dalla prima venuta di Cristo
alla seconda venuta e si stanno un pò smarrendo.
D Per usare un termine tecnico, si potrebbe dire che c’è una
crisi della concezione teleologica della storia?
R Sì, c’è una crisi della teleologia. Forse è un discorso un pò inamidato,
ma è corretto. Sostanzialmente c’è una certa secolarizzazione e la riduzione
di tanti stimoli al monostimolo della solidarietà, che è necessaria, ma non
sufficiente, come si dice in aritmetica, matematica elementare.
D In uno dei suoi ultimi saggi, Sergio Romano(5), sente
il bisogno di rivisitare tutto il secolo e in particolare la scontro tra il
comunismo e le altre tendenze storico-politiche. Uno dei punti cui approda
lo storico è il dire molto chiaramente che tutti, comunisti e non, debbono
rinunciare all’idea che nella storia esista una teleologia, esista cioè un
fine. Esiste invece un caso, e mi sembra di ricordare che Romano lo scriva
proprio con la c maiuscola (6). Egli vuol sottolineare che la storia
è fatta di tante grandezze umane, di tante eccellenze, ma anche di tante miserie,
di tante lordure. Vorrei un suo giudizio su questa idea che sia il caso a
dominare le vicende umane.
R Ricordo il passo di Sergio Romano. Lo avevo trovato plausibile. Non è un
caso che va personificato o deificato. E’ l’insieme delle relazioni interumane
e dell’insieme dei casi piccoli e grandi, dei fattori. Se noi accettiamo la
storia come complessità, è chiaro che su di essa intervengono tantissimi fattori,
che possono anche essere gli sbagli, i fatti personali, il destino umano.
In questo senso diciamo che è un consiglio prudenziale. Bisogna stare attenti
a non deificarlo questo caso.
D Non bisogna farlo coincidere con il Fato.
R Sì. E questo sarebbe, secondo me, per lo storico un arresto. Lo storico
cerca di capire come sono andate le cose. Ed è già moltissimo. E poi perchè
sono andate così, piuttosto che in un altro modo. E questa è una grossa difficoltà.
Una personificazione del caso è molto ardua. Io lo prendo come un ammonimento
a stare alla realtà delle cose. Che poi le teleologie, per esempio quella
comunista, siano in crisi, è sotto gli occhi di tutti. Perchè la secolarizzazione
è un fenomeno che non riguarda solo il sacro, ma tutti i dover essere, tutti
i punti d’arrivo, tutte le teleologie. Questo ha come esito una specie di
riduzione a quel tal benessere da cui siam partiti, una specie di materialismo
esistenzialistico spicciolo, una privazione di grandi ideali, di grandi attese.
Una specie di narcisismo, di egotismo di basso livello. La new age: la soddisfazione
delle emozioni, delle pulsioni più elementari, che non sono più controllate.
D Sarebbe giusto far derivare questa tendenza da uno spirito,
o, per meglio dire, da una tendenza americana, che si diffonderebbe nel mondo?
R Si diffonde nel mondo anche perché gli altri si sono suicidati. Non per
una particolare pravità degli americani, o una particolare forza. Ma perchè
gli altri non ci sono più. E poi l’America, che poi non è più l’America dei
padri fondatori, come abbiamo visto nel caso Clinton, è un’America completamente
nuova, che non è più wasp (7), che ha ancora le istituzioni fatte quando
era un piccolo stato omogeneo, mono culturale, e che si adattano a una realtà
completamente diversa. Gli attuali sostenitori del multiculturalismo banalizzano
un problema che è molto complesso. L’America vince, ma vince anche perchè
l’Europa non è più in grado di fare nulla, a parte l’impotenza politico-militare,
evidentissima. E abbiamo una specie di buco nero. La Russia è nello stato
in cui è, per ora, poi si vedrà. L’Africa non esiste ...
D ... anzi è un focolaio di guerra!
R un focolaio per chissà quanto tempo ancora! Quindi è un momento indubbiamente
difficile. Ma, ripeto, l’eccesso di americanismo deriva anche dal vuoto nostro.
Qui sarebbe vano opporre, come fanno i francesi, un contingentamento dei film
americani, delle idee americane, dei nomi americani. Questa è una cosa pietosa!
Sono gli ultimi rigurgiti dello stato nazionale, della monarchia nazionale
francese, ma è pietoso!
D Si potrebbe avvertire nella polemica di questi ultimissimi
giorni, attorno alla scelta di un nome e di un simbolo per la nuova coalizione
politica che si presenta alle elezioni, democratici e asinello, proprio un
segnale nella direzione di voler recuperare un elemento forte di confronto
con la storia e la tradizione americana, per ridare respiro etico a una propria
presenza politica, anche se Severgnini (8) o altri (9) sottolineano
che si tratterebbe di qualche escomatage all’italiana per potersi affermare,
quindi vincere, e infine occupare tutti i posti di potere. Lei, invece, pensa
che la semplice ripresa di questi elementi possa dare all’impegno politico
una qualche spinta verso l’eccellenza anche nella politica, che purtroppo
ne è molto povera?
R Io non sono un sostenitore dell’Ulivo, come non sono un sostenitore dell’asino,
ma questo non importa. Noto però nel lavoro politico di Prodi, diciamo freddamente,
come se fossi un ambasciatore straniero in questo paese, se dovessi fare una
relazione sul tema, noto il coraggio, l’accettazione della realtà, perchè
i vecchi partiti non esistono più. E quindi non si può far finta che esista
il cavaliere inesistente, perchè dentro la corazza non c’è quasi più nulla.
Senza essere un cortigiano di Prodi, ammetto che ha affrontato il problema.
Il problema esiste. Diverso è il discorso: allora lo sosteniamo o non lo sosteniamo?
Intanto però notiamo dal livello scientifico che lui si è posto il problema
del vuoto che c’è dentro l’involucro, dentro la corazza dei vecchi partiti,
dietro cui il consenso non c’è, o non c’è più, o ci sono delle iscrizioni
su cui sarebbe bello indagare motivi, ragioni, portata. E anche l’asinello
mi sembra una scelta coraggiosa. Era già partita quando è partito il garofano,
la quercia, l’ulivo, e tutta una simbologia nuova, vagamente “verde”, e che
rompeva con la tradizione e con la legittimazione di tipo storico, falce,
martello, croce, corone, fuochi, fiamme, dietro cui non c’è assolutamente
nulla. E quindi l’asinello è l’accettazione della secolarizzazione della politica.
Cioè la politica come fatto empirico, pragmatico, e, come diceva lei, non
più teleologico. La politica non è più una religione. E’ un’aggregazione di
persone per certi scopi, culturali, politici. In questo senso è fortemente
innovativo. Bisogna riconoscere che mettere un animale così fà un pò Disney.
Ci vuole un certo coraggio, che però deriva da una coraggiosa accettazione
della realtà. Certamente ai giovani gli altri simboli non dicono nulla. Esattamente
come se io mettessi stella e corona. E’ inutile illudersi, non vuol dire assolutamente
niente.
D Nell’aggregazione attorno a questo progetto di Prodi, come
fatto empirico, pragmatico, e da Lei definito innovativo, ci sono anche tantissimi
sindaci, che rappresentano le città. Questa scelta è stata vista da parte
di alcuni come una tendenza incoerente e strumentale a raggranellare, raggruppare
comunque massa di voti. Si potrebbe però anche leggere da un’altra parte.
E cioè: crisi dello stato nazionale, difficoltà dell’Europa ad essere capace
di darsi delle istituzioni realmente democratiche, ed emergere del protagonismo
delle città. Milano a questo ruolo non può partecipare, perchè il sindaco
non rientra nella marcia dell’asino, ovviamente. Vorrei sapere se questo ruolo
dei sindaci, a parte le loro singole figure, la differenza Rutelli o Bianco,
possa essere interpretato proprio come protagonismo della città, e forse dell’unica
realtà che sopravvive rispetto agli elementi di aggregazione umana, che altre
forze hanno tentato di mettere in campo.
R Sì, è così. La città c’è. La gente ci vive, ci spende gran parte del suo
tempo e delle sue energie, mentre lo stato non c’è più. Pietosamente si è
voluto mettere la bandiera nazionale fuori delle scuole e degli edifici pubblici,
ma non vuol dire assolutamente niente. Quando lo stato non ha più il controllo
delle armi e del denaro, che erano le sue caratteristiche essenziali, è un
richiamo di tipo essenzialmente sportivo, non altro. La città c’è, però è
un pò illusorio, perché la città non è padrona del proprio destino. E’ tutto
indotto: le scelte finanziarie, le scelte produttive, le mode. Faccio un paragone:
è come un accampamento di beduini nel deserto, oggi c’è, domani non c’è. E
quindi non è un fatto assoluto, non è più un luogo dove si nasce, si vive,
si lavora, si muore, come era per i nostri vecchi. Fino alla prima guerra
mondiale è stato così. E adesso è un’altra cosa, è effimera, esistenzialmente
effimera. Però ha una sua limitata cogenza, nell’assenza delle altre istituzioni.
E’ un’istituzione minimale, che c’è. Questo spiega la fortuna dei sindaci,
nei paesi deboli. Nei paesi come la Francia, dove esiste ancora una tecnocrazia,
o come l’Inghilterra che si sta federalizzando in quattro regni, il discorso
è un pò diverso, ma per noi l’unica cosa che esiste è la città. Però, appunto,
non ha il controllo del denaro, non ha il controllo delle armi, non mantiene
l’ordine pubblico, e quindi c’è qualche cosa che chiamiamo convenzionalmente
città, ma non ha una sua identità profonda, non ha programmi scolastici, non
ha la televisione, se non a livello proprio spicciolo. Guardi i programi televisivi
locali: sono un pò di spazzatura, un pò di delitti, un pò di moda e qualche
avvenimento. Cioè niente. Però intanto qualcosa c’è, sempre più la città di
altre delimitazioni territoriali che non hanno nessun carisma, nessuna affezione.
D Sarebbe ipotizzabile un collegamento stabile che induca anche
a comportamenti, non dico uniformi, ma comuni, influenzabili reciprocamente,
tra alcune grandi città europee, tra cui Milano?
R Sì, come turismo politico, sì. Però le decisioni saranno sempre più prese
dalla banca europea e dalla tecnocrazia. Le città saranno chiamate ad eseguire.
E qui cadrà, non l’asinello di prima, ma cadrà l’asino, quello classico, perché
eseguire non sarà così semplice. Sarà vano pensare che l’Europa ci mandi dei
podestà che comandano, come nel medioevo si prendeva un estraneo alle beghe
locali. L’Europa soprattutto ci chiederà. Ci fisserà degli standard e dirà:
- Allora, tasso di inquinamento x. Tu sei x più, e devi ridurlo ad x. Arrangiati
-. Tra un pò arriviamo, perchè rinasce il potere che in questo momento si
è eclissato, e non solo sulla forma dei cetrioli, ma fissando standard educativi
e così via. E lì sarà dura!
D Alcuni miei giovani studenti hanno sperimentato questa durezza
in un incontro nell’Istituto “Altiero Spinelli” (10) con un esperto
sui progetti comunitari, che ha reso noto come la scuola italiana non sia
stata in grado di utilizzare tutti i fondi europei disponibili per i vari
progetti. Ora partirà il nuovo gruppo di progetti per il 2000-2003. E ciò
che i giovani hanno potuto constatare è che se uno non sarà in grado di partecipare,
rimarrà fuori di fatto, senza che nessuno lo aiuti o si preoccupi della sua
esclusione. C’è quindi il rischio che l’eccellenza, che deriva dall’accettazione
delle proposte del potere europeo, si estenderà a macchie di leopardo nell’Europa,
e gli altri, gli esclusi, regrediranno proprio verso uno stato di subordinazione
terribile.
R E’ possibile.
D Questa stessa possibilità, unita a tutti gli elementi toccati
finora, potrebbe anche farci pensare che in fondo al percorso, fra qualche
anno, ritroveremo l’antico modello greco della democrazia, non dico finito,
ma fortemente compromesso. Quali prospettive possono esserci in questa direzione?
R Questo è un problema enorme. Già adesso ci sono dei dubbi, si discute che
cosa sia la democrazia. Lo dico in un altro modo. Nel tardo impero romano
si arrivò alla concessione della cittadinanza a tutti. Questa è la fine dell’impero.
E anche all’idea che lo stato debba mantenere i cittadini. Se ci mettiamo
su questa strada, è chiaro che andremo a fondo. Bisognerà introdurre dei talenti.
Ricordo la parabola dei talenti e non solo la distribuzione dei pani e dei
pesci, affidata ad una burocrazia occulta e fortissima. Questi sono i problemi
della democrazia, su cui solo adesso si comincia a riflettere. Eravamo tranquilli
sui contenuti della democrazia, di fronte al totalitarismo sovietico. Ma adesso,
che la democrazia ha vinto, ci poniamo il problema di queste diseguaglianze.
E’ veramente, quello che lei chiama le macchie di leopardo, un dramma. Ma
sono un dramma anche nel senso che sono inevitabili, probabilmente.
D Le pongo un’ultima questione, connessa a questo dramma, che
sottolinea anche la pochezza dello stato nazionale. Per discutere del bilancio
dello stato, si riuniscono in centinaia, tutto il parlamento, i grandi esperti,
etc.. Poi la posta in discussione è di una entità che pare enorme, perchè
deve finanziare tutte le attività di tutto lo stato, però è irrisoria rispetto
alla transazione, oppure alla contesa, intorno a una grande società come può
essere la Telecom. Questo ci fa capire che tanti rappresentanti del popolo,
nominati dal popolo, discutono di briciole, mentre i grandi pani sono sottratti
alle scelte del popolo. Lei pensa che questo rischio, che lo stato nazionale
ha già consumato, possa riproporsi in Europa nella stessa forma?
R Sì, lei chiede allo storico un esercizio di futurologia, che è contrario
alla sua etica professionale. Però indubbiamente i dati son questi: crisi
dello stato nazionale, creazione di una finanza senza confini e incapacità
di verifica e di controllo. Peggio ancora. Siccome il confine è sparito dalla
coscienza popolare (in generale, se lei nota, non si fa altro che parlare
contro confini), ci si espone a questi venti in modo irresponsabile. Curiosamente
siamo contro i confini, ma il confine è la base per esercitare la democrazia.
E da lì non si esce. Quindi è probabile che tutto vada attentamente ripensato
e ricalibrato, non in modo intellettualistico, ma in modo realistico, se no
avremo una democrazia festiva e una ferialità abbandonata alla forza. E questo
apre delle prospettive sconcertanti. Viviamo in un’epoca meravigliosa da questo
lato, che però va più veloce dei nostri strumenti intellettuali, che sono
ancora generici e buonisti.
Note all’intervista:
1) Il 19 febbraio 1999 il Prof. Giorgio Rumi, assieme al Prof. Avv. Carlo
Sarasso, è stato il relatore a Como al Teatro Sociale per il Premio Professionalità,
che il Rotary International Distretto 2040 conferisce annualmente alle personalità
lombarde distintesi in iniziative sociali di grande rilevanza in Italia e
nel mondo.
2) A Basilea nel 1989 si svolse l’Assemblea Ecumenica delle Chiese Cristiane
di tutta Europa, dopo 558 anni dalla precedente Assemblea Ecumenica di Basilea
del 1431, per decidere come propspettiva reale di unificazione europea tre
temi pacificatori: pace, giustizia, ambiente.
3) Dal 22 al 25 febbraio 1999 si sono svolti a Milano i lavori dell’Internazionale
Socialista, il quarto congresso del Partito del Socialismo europeo, per lanciare
da Milano il manifesto per le elezioni europee del 13 giugno 1999.
4) vedi nota 1).
5) Sergio Romano, Confessioni di un revisionista. Ponte alle Grazie. Milano
1998. pp.5-150
6) op. cit., p. 141
7) Wasp: white, anglo-saxon, protestant. L’èlite americana che aveva governato
negli anni della formazione dell’America.
8) B. Severgnini, Primo comandamento: copiare non è un delitto ma bisogna
farlo bene, Corriere della Sera, 3.3.99, p.2.
9) per tutti valga Mauro Della Porta Raffo, I barbari sull’asinello, il Giornale,
1.3.99, p.8.
10) Convegno 24.2.99 “I progetti comunitari” Istituto “Altiero Spinelli” Sesto
S.Giovanni, relazione dott. Anna Corbi, Ministero della Pubblica Istruzione.
Copyright
(C) 1999 il Narratario. Direttore responsabile F. M. Trazza.