I
milanesi come gli etruschi
di Luciano Bianciardi
Infine c’eravamo noi, i giovani, la generazio- ne bruciata: decisi a rompere con le tradizioni ed a rifare tutto daccapo. Naturalmente eravamo in polemica con tutti gli altri, coi medievalisti eruditi e con gli archeologi. Cosa volevano, gli uni e gli altri? Cosa significavano le sterili e goffe pidoccherie dei primi, cosa significavano i furori antiquarî dei secondi? Era l’ora di finirla con questo dilettantismo, con questa sterile erudizione, con questa mitologia delle origini antichissime. La cultura italiana, dicevamo noi, era già abbastanza aduggiata e mortificata da queste forme reazionarie e provinciali, dal campanile, dallo sciocco municipalismo. Gli etruschi? Ma gli etruschi non sono mai esistiti. Voi vi chiedete da dove sono venuti, se dal continente, o dall’Asia minore, o dall’America; avanzate anche l’ipotesi che siano sempre stati qui. Ebbene, avete tutti ragione e tutti torto, cioè vi ponete un problema che non ha senso. Avrebbe senso chiedersi da dove sono venuti i piemontesi, o i toscani, o i milanesi? Non esistono popoli che, tutti d’accordo, un bel giorno prendono il mare (dove trovano tante navi, oltre tutto?) e se ne vanno altrove. Da dove vengono i milanesi? E chi lo sa? Molti da fuori: qualcuno è venuto su perché a casa sua non trovava lavoro, qualche altro venne, da giovane, a farci il militare, e poi ha preso moglie e non si è mosso più. Altri ci sono nati e ci stanno e ci lavorano: magari vorrebbero andarsene, a Capri, o in Brasile o in Australia, ma non possono perché non hanno soldi per il viaggio, nè speranza di poter campare, lontani dalla loro città. Se vi dicessero che i milanesi vengono dalla Dalmazia, cosa fareste voi? Direste certamente che è un’ipotesi sballata, no? E allora perché credere a chi sostiene che gli etruschi vennero dall’Asia minore? Gli etruschi erano appunto come i milanesi; erano quelli che abitavano in questa zona, e da altre parti, molto tempo fa e venivano chiamati, dagli altri, dai loro vicini, con questo nome. Da dove son venuti? Chi lo sa? Da dove gli era parso giusto venire. Ma l’alfabeto, la lingua, questa lingua misteriosa e indecifrabile? Macché indecifrabile, rispondevamo noi. A che serve cercar di decifrare la cosiddetta lingua etrusca, se il frammento più lungo è di cinquecento parole in tutto? O forse, aggiungevamo, se proprio vi preme di salvare in un qualsiasi modo i vostri etruschi, ebbene, allora vi diciamo che gli etruschi esistevano, ma non erano un popolo: erano una minoranza che governava la nostra terra, e teneva soggetta la povera gente, e la faceva sgobbare; una minoranza di armatori navali e di grossi commercianti, e di preti. Non avete forse detto che la religione romana prese da quella etrusca una parte della sua liturgia? Una minoranza, oltre tutto, di politicanti, anzi, di fascisti. Il primo fascio littorio non è stato forse trovato a Volterra, città, come voi dite, antichissima (sebbene non quanto la nostra) e di fondazione etrusca? Tutto questo dicevamo noi giovani usciti dalla guerra, con grave ira e sdegno degli archeologi. Eravamo un bel gruppetto; ci si trovava ogni sera al caffè, a chiacchierare, a giocare a carte, poi, quando era tardi e il cameriere accennava a voler chiudere, cominciava la lunga passeggiata, fino alle due o alle tre di notte. La nostra città era piccola, e si faceva presto a raggiungere la periferia, verso la campagna piatta e buia.
(Luciano Bianciardi. Il lavoro culturale. Prima edizione Giangiacomo Feltrinelli Editore. Milano ottobre 1957. Quarta edizione nell’ “Universale Economica Feltrinelli” ottobre 1997. pp. 12-14)
E Milano? Milano era lontana, su, oltre il Po, vicino alla Svizzera, una città di fabbriche, di grandi im prese, di traffici. Gli intellettuali lassù sparivano dietro a un grosso nome, e diventavano funzionari di un’industria, tecnici della pubblicità, delle human relations, dell’editoria, del giornalismo. Cessavano di esistere come clan, come corporazione, come grande famiglia; non erano più il sale della terra, i cani da guardia della società, i pionieri dell’avvenire, gli ingegneri dell’anima.
(Luciano Bianciardi. Il lavoro culturale. op. cit., p. 21)
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