Milano e le Edizioni Feltrinelli festeggiano l’ultima e più grande sala multimediale e dimenticano una delle loro anime

di Fabio Trazza

E anche Luciano Bianciardi ha cessato di esistere come sale della terra, come cane da guardia della società, come pioniere dell’avvenire, come ingegnere dell’anima. E sì, perché Bianciardi lo era. Ha dato l’anima per costruire l’anima della Feltrinelli. E oggi anche la Feltrinelli è spettacolo, spettacolo alto, degno di Milano. Ma sempre spettacolo. I grandi giornali e giornalisti di Milano hanno esaltato l’evento. Hanno descritto le folle in transito nei nuovi chilometri di esposizione aperti la scorsa settimana proprio nel centro di Milano. Hanno esaltato i divi dell’editoria, della critica, dei best seller, che sapevano concedersi ai lettori. Hanno celebrato il moderno luogo d’incontro della cultura. Ed hanno fatto benissimo! Anche perché in contemporanea, quasi a segnare il mutare dei tempi, il tempio della cultura milanese di un tempo, del tempo rosso, appunto la Casa della Cultura di via Borgogna, ormai agli sgoccioli, incapace di attrarre chi vuol pensare, ha deciso di attrarre chi vuol vedere. E così hanno presentato, facendola sfilare, la nostra Valeria Marini. I grandi giornali e giornalisti di Milano hanno esaltato l’evento. Han detto che era un omaggio alla moda, e quindi un fatto culturale. Ma per vendercelo meglio come fatto di cultura, avrebbero potuto dire che era un omaggio a Fellini: il nesso con la cultura sarebbe stato più evidente. Del resto la pienezza e le forme della Marini non sarebbero passate inosservate a chi, anche nei corpi, sapeva vedere il segno dei tempi prorompenti verso il boom economico degli anni ‘60. Ma oggi verso dove, e verso cosa, si prorompe? Sempre e solo verso lo spettacolo. E’ la costante del nostro tempo, che molti chiamano di transizione, ma che potremmo anche dire incolore. Certo si può obiettare che la Feltrinelli non poteva sottrarsi alla concorrenza di un mercato ormai consolidato, che ha trasformato la cultura in industria e spettacolo. Oddìo! Feltrinelli lo spettacolo lo ha sempre fatto. Anzi se n’è andato con un vero e proprio colpo di scena: saltando in aria per un ordigno scoppiatogli tra le mani sull’alto di un traliccio della luce a Segrate, per un attentato che avrebbe dovuto ridurre al buio la splendente Milano. Ormai fare cultura significa progettare industrial- mente, investire grandi capitali, ottenere grandi sponsorizzazioni dei centri finanziari e saper collegare le iniziative con i centri e i canali della grande industria internazionale dell’informazione, della cultura, dei viaggi, degli investimenti in beni artistici. Ed è quindi lodevole che anche Milano abbia le grandi librerie spettacolari. Ed è lodevole che grandi giornali e grandi giornalisti abbiano celebrato l’evento. A noi, responsabili di un minuscolo canale di comunicazione, non ci resta che ricordare, per la cultura dei nostri venticinque lettori, qualche figura che con il proprio lavoro culturale ha costruito l’anima delle Edizioni Feltrinelli. E questa qualche figura è Luciano Bianciardi. Faceva parte del nucleo redazionale iniziale, fatto di sei persone. Un intellettuale arrivato a Milano nel 1954 da una provincia qualsiasi, Grosseto. Si distrusse a Milano nel 1971, a quarantanove anni. Pochi hanno conosciuto, allevato e fatto crescere Milano, come Luciano Bianciardi. A parte le sue opere, tutte grandi, la più famosa La vita agra, furono circa un centinaio le sue traduzioni. Tra gli autori tradotti Stephen Crane, Saul Bellow, William Faulkner, Henry Miller, Aldous Huxley, John Steinbeck, Thomas Berger, Richard Brautigan. Dalla Feltrinelli “Mi licenziarono soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile”. Si faccia pure spettacolo! Si esaltino pure gli architetti e gli ingegneri che allestiscono le grandi sale multimediali! Su questo c’è tanta luce. Ma chi sono gli ingegneri dell’anima? Su questo c’è tanto buio. Più si stampa e si scrive, e meno si legge. Un esempio. Mi raccontava Aldo De Martino, che conosce certo il grande pubblico, avendo trascorso tanta parte della sua attività culturale come direttore del centro di produzione rai, quando a Milano si produceva, di essere stato invitato per una breve conferenza in un club di sedicente élite milanese. Tutti molto giovani, trentenni milanesi o giù di lì, e riuniti, come segno di apertura, attorno al nome di Europa. Ma non riuscivano a seguirlo: la cultura di cui De Martino parlava, ovviamente roba vissuta, per loro era buio. E’ questione di generazione? No. E’ la natura dei milanesi. Come quella degli etruschi. Vi ricordate Bianciardi? Gli etruschi erano appunto come i milanesi; erano quelli che abitavano in questa zona, e da altre parti, molto tempo fa e venivano chiamati, dagli altri, dai loro vicini, con questo nome. Da dove son venuti? Chi lo sa? Da dove gli era parso giusto venire. Ma l’alfabeto, la lingua, questa lingua misteriosa e indecifrabile? Macché indecifrabile, rispondevamo noi. A che serve cercar di decifrare la cosiddetta lingua etrusca, se il frammento più lungo è di cinquecento parole in tutto? E’ quello che ci è rimasto a furia di onorare gli ingegneri dello spettacolo e di ignorare gli inge- gneri dell’anima: molto poche parole. Cinquecento. Come gli etruschi. Del resto, cari lettori, vi avevo detto che pochi hanno conosciuto Milano come Bianciardi. E Milano corre seri rischi, ovviamente per via dei milanesi, cioè quelli che abitano in questa zona. Il rischio più grande, per una città che resta unica in Europa e nel mondo, è quello che proprio Luciano Bianciardi aveva visto ne La vita agra: “A Milano [...] tutti i difetti dell’industria moderna e tutti i difetti del partito comunista si mischiavano a formare un casino credo unico al mondo”. “A Milano [...] c’è un vantaggio: che ti danno lavoro e ti pagano. Per il resto, non è una città, non è un paese, non è niente. E’ solo una gran macchina caotica, senza cielo sopra, e senza anima dentro. Andrebbe minata”. Le diagnosi di un ingegnere, anche se dell’anima, non andrebbero sottovalutate, nè dimenticate nel frastuono delle feste d’inaugurazione. Anzi, consiglio di prenderle sul serio. E, per restare in metafora, varrebbe la pena di pensare ad uno sminamento. Mi sembra che l’unico lavoro utile sarebbe quello di collegare stabilmente e direttamente Milano all’Europa e alle sue città. Si riscoprirebbe la sua anima, contro la quale non valgono certo le mine. Pochi, ma significativi, elementi lo imporrebbero. Primo. Lo stato nazionale, necessariamente privato delle sue prerogative più alte, sopravvive nell’indifferenza della società, quando non nell’ostilità. Secondo. L’Unione Europea esercita le funzioni più alte senza aver ancora allestito un sistema di reale democrazia per la rete delle sue istituzioni, e dei suoi centri di potere. Terzo. Le città restano sempre più ancorate al loro ruolo di centro vitale delle società, dove concretamente l’uomo vive, lavora, scambia, progetta, sogna, si incontra e si separa. La prospettiva possibile, praticabile, è quella di non chiudere le città, nè alle persone, nè alle cose, nè ai progetti, ma di aprirle al confronto e allo scambio, per ricercare pratiche comuni, influenze reciproche. Si obietterà che è un consiglio inutile per Milano, così aperta al mondo. Il suo sindaco è appena tornato da New York. Appunto, ma perchè? Non poteva fare il giro delle capitali europee? E con loro concordare qualcosa in comune, che avesse a che vedere, oltre che con l’ordine pubblico, anche con l’ordine dell’anima di una città? Solo così Milano potrebbe smettere di essere solo “una gran macchina caotica, senza cielo sopra, e senza anima dentro”.

 


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