E’ forse finito il carnevale ambrosiano tra povere feste e scarsi commenti

di Fabio Trazza

Verrebbe voglia, guardando i giornali del giorno dopo la fine di Carnevale, a Milano, di pensare che ormai il Carnevale non si celebra più. In effetti siamo dinanzi ad un rito stanco. Ma sarebbe pure stato utile qualche resoconto che mettesse in condizione il lettore di sapere e di riflettere sulla fine di qualcosa che a Milano è stato sempre unico: il Carnevale ammbrosiano. Quest’anno a Milano, a parte il Giornale, con la cronaca di Gioia Locati, e l’Avvenire, che si è soffermato sul corteo organizzato dagli oratori, non pare sia stato scritto molto. Ma forse è stato fatto addirittura meno di quanto non si sia scritto. Tralasciamo le considerazioni filosofiche su ciò che si prepara sotterraneamente in una società che si priva di vere feste popolari, e accontentiamoci di sapere dalle scarne cronache, che a Milano hanno dato prova di sè i travestimenti ispirati ad una magia dozzinale. Ma non si può onestamente dire che questa è una notizia, perchè per tutto l’anno la divulgazione di tale magia imperversa nei grandi canali di comunicazione, televisione in testa, pubblica e privata. E quando si vive sempre in carnevale, non si capisce proprio perchè nei giorni a lui dedicati si debba fare qualcosa di speciale. Si potrebbe dire che si è realizzato l’antico sogno del Borromeo: scarnovolare Milano. E’ un termine coniato dal Cantù a metà ottocento: “Ho già accennato come san Carlo riuscisse a scarnovolare (parola che raccomando ai nuovi accademici della Crusca) la domenica di Quaresima; ma non potè ottenerlo de’ quattro giorni anteriori, per quanto gli spiacesse che quei d’altri paesi affluissero a Milano per cansar il digiuno e l’astinenza dei primi giorni quaresimali. Anche altre volte si cercò levare quest’abuso, che fa gavazzare noi altri, quando a poche miglia di distanza la Chiesa sparge di polvere la testa de’ credenti per rammentare che cenere sono e cenere ritorneranno”. Il tema fu affrontato da Cesare Cantù nel 1846 nel Capitolo “Di varie feste”, pp. 221-267, dell’opera “Novelle lombarde” , edizione del 1878, pubblicata in Milano, dalla Libreria editrice di educazione e d’istruzione di Paolo Carrara, via S. Margherita, 1104.

E tanto per aggiungere un tema di riflessione morale si potrebbe anche riferirsi ad altro antico milanese, Carlo Maria Maggi, grande lirico del ‘600 in lingua milanese, pubblicato dalle Edizioni Can Bianco, in edizione critica curata, commentata e tradotta da Dante Isella in tiratura speciale di sole cento copie di pagine 168.

Se fussev andæ al cors, tornand a cà,
Avarissev trovæ gent da Musocch,
E par on pó d’on spass millia reciocch.
In sto mond traditor
Bon temp? Te ’l digh mì Rocch.
Spass che quand i specciè
Par la gran tiragora
El canaruzz ve doeur,
E l’impazienza ve tapella el coeur.
Ma intant par arrivagh
Al besogna toeù sù
Reproprij, mostaccied, impartinenz,
Mæl termen, insolenz,
Spes, mancament, ingann,
Bosij, struzij, affann,
E alla fin rapellass:
Par on lægh de travaij on gozz de spass.
Ma poeù alla fin che spass?
Quand ghè rivé
A provai, no trové nagott de bon,
E ve metten ingossa al prum boccon.
Se sì a commedia, el prum pensé che vegna
L’è pregà ’l ciel che la fenissa prest.
La fenestra che boffa,
El soffegh de la gent,
El rezitant sempiæs,
El sogget freggiorent, confus e secch
Fan on savor da buttà sù i busecch.
Al festin n’occor olter.
O no ve fan ballà,
E par quest, osservand che v’ingrugné,
I ve riden adré;
O la polver ve nega,
O, par no rend el ball, ciappé ona bega.
Sì in pù moeud desgustæ:
Chi sbergna, chi è gelos, chi mæl criæ.
Quand el spass è passæ,
Oh stemm fresch.
L’è poeù allora
C’al ven sù par la gora.
D’i bon temp de sto mond quist hin i temper:
Secca la roeusa e ‘l sponsgignon ghè semper.
Despoeù c’hi mandæ sgiò restè camuff,
E daventa i bonn coss pesg che n’è el ruff.
L’è usanza de sto mond
Che no comenza adess:
L’avanz d’on gran bontemp l’è on gran rincress.
Costor che ’l carnevæ
Noden in d’i bagord,
Incomenzand quaresma hin tugg balord.
Tutt’è, despoeù c’han ciappottæ in la fanga
E disen træ de lor,
Che cossa n’hoia?
Troven c’olter n’avanza che la zoia.
Che se zoia è restæ su la conscienza,
Come la resta spess,
Par spass d’ona gorghæda de gainn
La dura pur on pezz a trà guainn!
(xx, vv. 11-65)

(traduzione del passo xx, vv. 11-65)
Se foste andata al corso, tornando a casa avreste trovato immusonita e per un pò di spasso mille rimbrotti. In questo mondo traditore, buontempo? Sì, te lo dico io! Spassi che, quando li aspettate, dalla gran voglia vi duole la gola e l’impazienza vi dà il batticuore. Ma intanto, per arrivarci, bisogna sopportare rimproveri, rabbuffi, impertinenze, insulti, insolenze, spese, svenimenti, inganni, bugie, pene, affanni e giungervi, alla fine, con stento: per un lago di travagli una goccia di spasso. Ma poi, in conclusione, che spasso? Quando arrivate a provarli, non trovate niente di buono, e vi mettono sazietà già al primo boccone. Se siete a commedia, il primo pensiero che venga è pregare il cielo che finisca presto. La finestra che spiffera, il caldo opprimente della folla, l’attore insipido, il soggetto freddino, confuso e secco, fanno un sapore tale da recere le budella. Al festino, in breve: o non vi fanno ballare e, perciò, osservando che vi imbronciate, vi ridono alle spalle; o la polvere vi soffoca o, per non concedere un ballo, vi prendete una bega. Restate in più modi disgustata: chi sbeffa, chi è geloso, che screanzato. Quando lo spasso è finito, oh stiamo freschi!, è allora che viene sù per la gola. Dei divertimenti di questo mondo tale è il tenore: la rosa avvizzisce e la spina c’è sempre. Dopo che avete mandato giù, rimanete avvilito, e le cose buone diventano peggio dell’immondizia. E’ usanza di questo mondo che non incomincia ora: quel che avanza da un gran divertimento è una grande nausea. Costoro, che in carnevale nuotano nei bagordi, incominciando la quaresima sono tutti storditi. Il fatto è che, dopo che hanno sguazzato nel fango e si dicono tra sè. «Che me ne resta?», trovano che altro non ne avanza che la gioia. Che se poi la gioia è rimasta sulla coscienza come rimane spesso, per uno spasso che è stato una sorsata da galline si dura pure un bel pezzo a guaire!

 


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