Il
ruggito dell’iperbole
Sembra che i Padri Pellegrini fossero venuti dall’Europa pieni di delusione e stanchezza: per finire, non per cominciare. Delusi del mondo non volevano più il mondo; solo astratti furori li agitavano, l’idea della grazia, l’idea del peccato, i pregiudizi feroci del dualismo calvinista. E non avevano più la forza di affermarli nelle vecchie città delle lotte religiose; fuggivano come se non vi credessero, come se vi rinunciassero. Ma lì, su quelle coste coperte di alberi dal legno duro, era di nuovo il mondo: lo videro e furono di nuovo nel mondo, accettando, poi anche ringraziando, e dalla stanchezza passarono via via alla baldanza, alla fede. Trovarono in America la necessaria ferocia per praticare quei pregiudizi feroci; essere, in qualche modo, vivi. Nulla dissero di nuovo, nulla aggiunsero alla coscienza dell’uomo, non scoprirono nulla per lo spirito umano: vivevano solo di quei pregiudizi, i colonizzatori; eppure, scrivendone per sostenerli o combatterli, erano già una voce nuova. Se leggiamo Cotton Mather, pubblico accusatore di «streghe» ed «eretici», o «The Bloudy Tenent of Persecution» dell’illuminato Roger Williams che con tanto fanatismo lottò contro il fanatismo, o il sermone selvaggio «Sinners in the Hands of an Angry God» del famoso predicatore Jonathan Edwards, sentiamo come la voce sia diversa da quella borghigiana che aveva espresso o ancora esprimeva gli stessi concetti in Europa. Qui c’è, continuo, il ruggito dell’iperbole. E’ una voce che ruggisce. E sarà questo pur sempre, una voce ruggente, che indicherà gli sviluppi interiori dell’uomo in America.”
Elio Vittorini
Americana, Milano,Bompiani, 1941. Antologia mai posta in vendita e poi con
note introdutive censurate nell’edizione del 1942. Ora in: E.Vittorini, Diario
in pubblico, Milano, Bompiani, 1970, p.116.
Ma il libro di cui vogliamo parlare conta per un significato diverso: vale come il messaggio disinvolto di un popolo a chi è lontano dalle sue rive e la risposta orgogliosa dell’America ai problemi del mondo nuovo. Questa è stata almeno la riuscita di Vittorini, e su questa riuscita polemica si può iniziare un discorso più vivo di quello che spetterebbe a una semplice antologia di testi. Americana. [...] L’America è stata sempre da noi oggetto di una valutazione unitaria: forse la sua compattezza geografica e la distanza sul mare hanno contribuito a creare questo mito di un paese che cresce come un unico corpo e si configura e si atteggia secondo abitudini proprie. Emigranti arrivavano da tutte le terre d’Europa, ma la grande voce dell’america copriva presto il frastuono delle lingue diverse e confondeva in un’unica razza i popoli lontani. Architetture sorgevano di fronte ai due oceani diverse da quelle delle nostre città. E quando questo slancio del vivere superò la sua fase iniziale, uscì dalle praterie e dalle miniere per farsi industria e potenza, la curiosità indulgente degli europei si coprì di un tono polemico, finché parve a qualcuno che un vero conflitto fosse sorto tra le due civiltà, simile all’urto violento e inevitabile delle età successive. Questo complesso di diffidenza e di curiosità trovò altrove la sua espressione naturale in una ricca sociologia; soprattutto dopo la guerra, quando l’America entrò da vicino nella vita europea e impose i propri gusti e le proprie tendenze. [...] Da una parte e dall’altra sono impegnate forze capaci di correggere il corso della nostra esperienza, di buttarci in un angolo come rottami inutili o di condurci in salvo su una riva qualsiasi. Ma l’America vincerà questa guerra perché il suo slancio iniziale obbedisce a forze più vere, perché crede facile e giusto quello che si propone. Keep smiling, «conserva il tuo sorriso»: questo «slogan» di pace veniva dall’America con tutto un seguito di musiche edificanti, quando l’Europa era una vetrina vuota e l’austerità di costumi ai paesi totalitari scopriva soltanto il volto disperato e amaro della reazione fascista.[...] Grava sulla civiltà americana la stupidità di una frase: civiltà materialistica. Civiltà di produttori: questo è l’orgoglio di una razza che non ha sacrificato le proprie forze a velleità ideologiche e non è caduta nel facile trabocchetto dei «valori spirituali»; ma ha fatto della tecnica la propria vita, ha sentito nuovi affetti nascere dalla pratica quotidiana del lavoro collettivo e nuove leggende sorgere dagli orizzonti conquistati. Qualunque cosa pensino i critici romantici, un’esperienza così profondamente rivoluzionaria non è rimasta senza parole; e mentre nell’Europa del dopoguerra si riprendevano i temi di una cultura decadente o si adottavano formule, come quella surrealista, necessariamente sprovviste di futuro, l’America si esprimeva in una nuova narrativa e in nuovo linguaggio, inventava il cinematografo.”
Giaime Pintor
Americana, in Il sangue d’Europa (1939-1943), a cura di V. Gerratana, Torino,
Einaudi, 1950, pp.208-218.
Perso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere «la speranza del mondo», accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l’America, una America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente. Per qualche anno questi giovani [Vittorini e Pavese stesso n.d.r.] lessero tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia. [...] Per molta gente l’incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci. Va da sè che, per chi seppe, la vera lezione fu più profonda. Chi non si limitò a sfogliare la dozzina o poco più di libri sorprendenti che uscirono oltreoceano in quegli anni ma scosse la pianta per farne cadere anche i frutti nascosti e la frugò intorno per scoprirne le radici, si capacitò presto che la ricchezza espressiva di quel popolo nasceva non tanto dalla vistosa ricerca di assunti sociali scandalosi e in fondo facili, ma da un’ispirazione severa e già antica di un secolo a costringere senza residui la vita quotidiana nella parola. [...] A questo punto la cultura americana divenne una sorta di grande laboratorio dove con altra libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso còmpito di creare un gusto uno stile un mondo moderni che, forse con minore immediatezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perseguivano. Quella cultura ci apparve insomma un luogo ideale di lavoro e di ricerca, di sudata e combattuta ricerca, e non soltanto la Babele di clamorosa efficienza, di crudele ottimismo al neon che assordava e abbacinava gli ingenui e, condita di qualche romana ipocrisia, non sarebbe stata per dispiacere neanche ai provinciali gerarchi nostrani. Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti. E se per un momento c’era apparso che valesse la pena di rinnegare noi stessi e il nostro passato per affidarci corpo e anima a quel libero mondo, ciò era stato per l’assurda e tragicomica situazione di morte civile in cui la storia ci aveva per il momento cacciati. La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma. Ci mostrò una lotta accanita, consapevole, incessante, per dare un senso un nome un ordine alle nuove realtà e ai nuovi istinti della vita individuale e associata, per adeguare ad un mondo vertiginosamente trasformato gli antichi sensi e le antiche parole dell’uomo. Com’era naturale in tempi di ristagno politico, noi tutti ci limitammo allora a studiare come quegli intellettuali d’oltremare avessero espresso questo dramma, come fossero giunti a parlare questo linguaggio, a narrare, a cantare questa favola. Parteggiare nel dramma, nella favola, nel problema non potevamo apertamente, e così studiammo la cultura americana un pò come si studiano i secoli del passato, i drammi elisabettiani o la poesia del dolce stil novo.
Cesare Pavese
Ieri e oggi, articolo del 3 agosto 1947, «L’Unità»,Torino. Ora in: Pavese,
La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1959, p.193-196.
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