Il
ruggito dell'iperbole
di Fabio Trazza
Ogni guerra distrugge e ferisce. Per ora la distruzione è nei
Balcani. Ma le ferite sono anche qui. Tra noi. Anche le lacerazioni sono ferite.
Tutti parlano e gridano. Non vogliamo unirci al coro. O ai cori. Vogliamo
ragionare e capire. E non possiamo farlo con la grandezza delle grandi redazioni
in contatto con le agenzie di tutto il mondo. Che poi, non è detto che ti
sappiano informare. Comunque, nella confusione di immagini e parole, qualcosa
si fa notare. E’ salutare, per esempio, il dossier «i Balcani» de il sole
24 ore, 25.4.99, titolato “Per non fare morire la speranza”.
Nel clima generale della comunicazione, assurta a simbolo di scontro drammatico
e sanguinoso in questa guerra, molto è spiegato di ciò che distrugge, poco
di ciò che ferisce. Per esempio non si è capito molto, da noi, la reazione
scomposta di tanti giornalisti che si sono scoperti anti-Nato perché la Nato
ha distrutto la televisione di Milosevic. Con questo metro tanti ingegneri
dovrebbero essere anti-Nato perchè la Nato distrugge i ponti di Milosevic.
E la televisione è come il ponte: fa attraversare rapidamente uno spazio e
fa incontrare le persone e i popoli. E se il ponte e la televisione non svolgono
più questa funzione, devono essere distrutti e ricostruiti, perchè tutti abbiano
il diritto di passare liberamente e di guardare disinvoltamente, senza essere
cacciati da un luogo o tenuti lontano dalla realtà.
Vogliamo quindi ragionare sulle ferite, ma non quelle che certi giornalisti
pensano di ricevere al loro presunto sacerdozio, o che certi politici di fronda
immaginano siano inferte alle radici bizantine della diplomazia.
Vogliamo ragionare e capire qualche ferita vera, grave, quella su cui nessuno
sinora, forse per pudore, si è chinato. Ma solo così è anche possibile sanare.
La ferita che si sta riaprendo nella coscienza di molti, e che da dieci anni,
lentamente, faticosamente, si stava rimarginando, dopo che la recente storia
passata gliela aveva incisa, è l’antiamericanismo.
Ritorniamo quindi a capire come abbiamo «scoperto» l’America nel ’900, in
Europa, in Italia, e a Milano. E interroghiamoci su quanta strada abbiamo
fatto, se ancora i muri della Scala sono imbrattati di vernice rossa contro
gli americani e i suoi alleati, cioè noi.
Vittorini, Pintor, Pavese sono stati i nostri esploratori. E non si può dire
che siano stati esploratori miopi o, peggio, interessati. “Una voce ruggente
indicherà gli sviluppi interiori dell’uomo in America.” Ed Elio Vittorini
aveva conosciuto la guerra di Spagna, il fascismo e l’antifascismo, il comunismo
e le vie degli ex comunisti.
“Qualunque cosa pensino i critici romantici, un’esperienza così profondamente
rivoluzionaria non è rimasta senza parole; e mentre nell’Europa del dopoguerra
si riprendevano i temi di una cultura decadente, l’America si esprimeva in
nuovo linguaggio.” E Giaime Pintor non fu mai guidato dall’ideologia, ma dal
culto della ragione e della cultura. Morì a ventiquattro anni su una mina,
nel 1943, mentre forzava le linee per entrare nel Lazio ad organizzare la
resistenza, in accordo con il comando inglese. “L’America non era un altro
paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove
con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti. La
cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno
schermo gigante il nostro stesso dramma. Ci mostrò una lotta accanita, consapevole,
incessante, per dare un senso un nome un ordine alle nuove realtà e ai nuovi
istinti della vita individuale e associata, per adeguare ad un mondo vertiginosamente
trasformato gli antichi sensi e le antiche parole dell’uomo.” E Cesare Pavese
già nel ’35 aveva conosciuto il processo politico e il confino, e poi conoscerà
la guerra e il partito comunista. Tre esploratori dunque, Vittorini, Pintor,
Pavese, sulle cui orme potrebbe essere riscoperto il cammino di conoscenza
per giungere all’America. E potremmo quindi sorvolare sui giudizi che furono
espressi dai dirigenti chiave della riorganizzazione postbellica e della ricostruzione
italiana, dopo i bombardamenti sull’Italia e l’invasione di terra, perchè
naturalmente inclini a vedere nell’appoggio americano la leva per la resurrezione.
Come è il caso di Vittorio Valletta (1883-1967), che si rivelò decisivo sia
per le controversie sindacali, sia per gli equilibri economici internazionali:
lavorò, in piena guerra fredda, all’accordo tra la Fiat e Mosca, sempre assicurandosi
l’appoggio di Washington.
“Debbo dire che io vedo con grande fiducia tutto l’avvenire italiano, e ciò
perchè gli americani, amici nostri, sono d’accordo con noi. Un americano,
e non un coreografo, mi ha definito l’Italia del Nord «l’unico granaio meccanico
che esista in Europa». (Vittorio Valletta, audizione del 1946 alla commissione
economica della Costituente, ora in Ministero per la Costituente, Rapporto
della Commissione Economica, II: Industria, 2: Appendice alla Relazione, in
L. Villari, Il capitalismo italiano del Novecento, Bari, Laterza, 1975, p.556).
Ma perchè quella fiducia nell’avvenire potè essere incrinata dallo spirito
antiamericano, serpeggiante ancora nelle coscienze, anche di molti giovani?
Nel dopoguerra, nel clima della divisione del mondo in blocchi contrapposti
e guidati da Usa e Urss, felicemente denominata «guerra fredda» dal giornalista
americano W. Lippmann per indicarne la fase cruciale 1945-55, furono decisivi
gli schieramenti degli intellettuali nel far crescere movimenti di opinione.
Importanti gli esistenzialisti francesi riconoscibili attorno alla rivista
«Les Temps Modernes» e caratterizzati dal tentativo di prender le distanze
da entrambi i blocchi. Altri intellettuali, in altri paesi, furono invece
caratterizzati dalla loro risposta ai fenomeni storici, generati direttamente
dalla guerra fredda, e che vogliamo riassumere:
- 1947: elezioni “controllate” filosovietiche in Polonia nel 1947;
- 1948: “colpo di Praga” appoggiato da Mosca nel 1948;
- 1948-1949: blocco di Berlino ovest da parte comunista dal giugno 1948 al
maggio 1949;
- 1949: formazione di un’alleanza politico-militare a scopo difensivo stipulata
il 4 aprile 1949 a Washington tra dodici paesi occidentali (Belgio, Canada,
Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi,
Portogallo, Stati Uniti), la Nato appunto, North Atlantic Treaty Organisation;
- 1949: smembramento della Germania e nascita delle due Germanie, l’occidentale
Repubblica federale tedesca nel maggio 1949, l’orientale Repubblica democratica
tedesca a regime comunista nel settembre 1949;
- 1950-1953: guerra di Corea dal 1950 al 1953, con l’appoggio americano ai
sud coreani contro il nord appoggiato dalla Cina allora molto legata all’Urss,
una lunga guerra solo per ripristinare i confini tra gli stati coreani;
- 1953: culmine del «maccartismo», ondata di persecuzione negli Stati Uniti
contro seguaci e simpatizzanti comunisti, con condanna a morte dei coniugi
Rosenberg per spionaggio filocomunista;
- 1954: adesione alla Nato della Repubblica Federale Tedesca;
- 1955: creazione di un organismo politico-militare comunista analogo alla
Nato, il Patto di Varsavia, con cui l’Urss ottenne il controllo militare permanente
delle forze armate dei paesi aderenti (Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia,
Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Romania);
- 1956: invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche;
- nell’Europa dell’Est nasce il «Dissenso» fra gli intellettuali di sinistra,
brutalmente e tragicamente represso;
- nell’Europa dell’Ovest nasce il «Movimento» fra gli intellettuali di sinistra
contro il colonialismo, peraltro in crisi, che non trova ostacoli nella sua
diffusione di massa:
- 1960 in Francia contro la guerra d’Algeria e la pratica corrente della tortura
rimane famoso il Manifesto, sottoscritto da 121 personalità, ispirato da J.-P.
Sartre;
- 1966 negli Stati Uniti e in tutta Europa contro l’intervento militare americano
in Vietnam scuote le coscienze The Responsability of Intellectuals del linguista
Noam Chomsky.
E siamo al sessantotto e al suo clima internazionale. Per tutti gli anni settanta
è continuata l’idea che spettasse agli intellettuali la guida della critica
sociale e l’indicazione, tanto perentoria quanto semplicistica, di muoversi
nei movimenti collettivi per indirizzarli a fondare una società, se non alternativa,
almeno nuova e più giusta. Basterebbe un puro elenco di riviste politiche,
tra le più diffuse tra il ’60 e l’ ’80, a dimostrarlo.(1)
Con gli anni ottanta è venuta meno non solo quell’idea, ma persino la
sistemazione teorica che sosteneva quella funzione. E il ripensamento ha investito
gli esponenti più accreditati e autorevoli del marxismo occidentale, a cominciare
dallo stesso Gramsci. I nuovi studi sull’argomento, che possono e debbono
essere estesi, non solo in Italia, puntano a scoprire complessità e contraddizioni
di un pensiero insufficiente a scoprire il rapporto cultura-politica, e non
certo a recuperare vecchie e osannate categorie, come quella dell’intellettuale
organico, o altre meno fortunate.
Alla luce di quanto è stato dibattuto e dell’asprezza con cui si è combattuto,
specie in Italia, e particolarmente a Milano, non si può certo dire che durante
la guerra fredda non abbiamo parteggiato. Il lungo e molto parziale elenco
fornito in nota ne è un piccolo significativo documento.
Abbiamo quindi “parteggiato nel dramma, nella favola, nel problema”, come
diceva Pavese, ma non è certo che tutti “abbiamo studiato la cultura americana
un pò come si studiano i secoli del passato, i drammi elisabettiani o la poesia
del dolce stil novo”. Anzi è probabile che dopo tanti anni di «guerra fredda»,
sino al crollo del muro di Berlino, sia prevalsa in molti l’idea che solo
le super potenze, Usa e Urss sono state “impegnate a correggere il corso della
nostra esperienza, e a buttarci in un angolo come rottami inutili o a condurci
in salvo su una riva qualsiasi” (per usare le parole di un nostro esploratore,
Pintor, un ragazzo di ventiquattro anni), e che per quei molti non avesse
più senso studiare o aver studiato. E non solo per gli studenti. Anche per
i professori e gli intellettuali, quelli delle radio e delle televisioni,
dei giornali e dei partiti, che arrivano agli studenti e trasmettono i loro
schemi e le loro pigrizie. Hanno fatto e fanno credere che “il ruggito dell’iperbole”,
la voce dell’America, sia una minaccia, quando invece, come ci invitava a
sentire Vittorini, è solo la potenza di una voce per spingerci ad astratti
furori. Vittorini usa l’espressione “astratti furori” (e chi non sente l’eco
degli eroici furori del rinascimento di Giordano Bruno?), per segnare la distanza
tra le voci con cui in America e in Europa si esprimono gli stessi concetti.
Di là il ruggito. Di qua la cadenza provinciale, “la voce borghigiana” appunto.
Ma “astratti furori” è anche l’espressione tematica iniziale del romanzo di
Vittorini, Conversazione in Sicilia del 1941. Quindi “astratti furori”, per
dire le stesse cose sulle due sponde dell’Atlantico, ma a voce alta, senza
biascicare, ricercando creativamente la propria casa comune in Europa. E’
da qui che dovrebbe partire la coscienza politica di quanti oggi osservano
o guidano l’intervento Nato nei Balcani. Ma le ferite aperte, e non rimarginate,
della guerra fredda lo impediscono. Non per niente spesso si scongiura o ci
si augura, a seconda dei punti di vista, che i Balcani diventino per gli Stati
Uniti, e per la Nato tutta, un nuovo Vietnam. Molti poi pensano che possa
valere ancora l’antiamericanismo, covato e gridato durante la guerra fredda,
per smuovere e indirizzare gli eventi storici di oggi.
Quell’epoca è definitivamente chiusa da dieci anni.
Mr. Milosevic, in fondo, è un detrito di quella guerra, un avanzo dell’equilibrio
del terrore che vigeva durante la guerra fredda. Allora erano anche consentite
le guerre convenzionali. Servivano per non alterare i rapporti di forza. E
si viveva nell’incubo che si potesse arrivare alla guerra atomica. Solo gli
Stati Uniti e l’Urss potevano contendersi il mondo, perchè da soli, e contrapposti,
potevano minacciare l’uso delle testate nucleari. E lo hanno fatto. A quell’epoca,
neanche qualche dittatore particolarmente intraprendente, come Fidel, poteva
farsi armare da Mosca oltre un certo limite o poteva sognare di intimidire
popoli vicini. Fu in quel clima che prosperò, o sopravvisse, una federazione
nei Balcani: la Jugoslavia, vissuta per cinquant’anni più per le ferree leggi
dell’equilibrio del terrore nucleare che per le lungimiranti iniziative titoiste.
Oggi, a dieci anni dalla caduta del muro di Berlino, possiamo assumere proprio
quel muro come metafora, valida sia per l’Ovest, sia per l’Est. Il muro non
è franato: è stato assaltato, picconato, tirato giù e smontato mattone per
mattone. L’Occidente ha gioito, ma di lacrime, al suono del violoncello solo
di Rostropovich sulle macerie. Poteva intravedersi la fine delle conseguenze
della seconda guerra mondiale e infatti la Germania si riunifica. All’Est
nessuna resistenza impossibile. Anzi è necessario riconoscere un’abilità politico-militare
e diplomatico-istituzionale altissima a tutti i gruppi dirigenti in carica
in Russia nelle fasi cruciali ’89-’95, per aver gestito il disimpegno senza
rilevanti contraccolpi. Anzi. Mossa strategica: liquidazione totale di tutta
la cosiddetta Unione, per poter far sopravvivere Mosca e la Russia all’insostenibilità
economica e al declino produttivo. Esattamente l’opposto di quanto avviene
a Belgrado. Nessuno ha mai imposto il mantenimento di una struttura federale
al signor Milosevic. La Cecoslovacchia ha conosciuto gravi tensioni, ma in
piena libertà ha liquidato un sistema politicamente insostenibile e ha generato
due Stati. Stessa scelta hanno fatto anche altri paesi dell’Est, anche se
con qualche esito personale drammatico, come nel caso dei Ceausescu.
Il muro di Berlino come metafora, dicevamo, valida sia per l’Ovest, sia per
l’Est: quando frana un muro, bisogna raccogliere pazientemente i mattoni e
pensare alla ricostruzione. Oggi in Europa c’è l’ultimo mattone del vecchio
mondo, il signor Milosevic, che vuol gestire una federazione senza il rispetto
che necessariamente un governo federale deve nutrire nei confronti dei singoli
Stati della propria Federazione. Senza infierire sulla Slovenia, sulla Croazia,
sulla Bosnia, per poi perderle, avrebbe potuto guidare lo Stato Serbo all’autonomia,
favorendo così l’autonomia di tutti gli altri, per intraprendere lo sviluppo
economico e affacciarsi da pari nell’Unione Europea. Oltretutto nessuno gli
aveva imposto di guidare tutti gli stati dell’ex-Jugoslavia. Nè può pensare
che intorno a lui il mondo sia quello immobile della guerra fredda. Gheddafi
e Saddam insegnano. O che alle sue spalle ci sia la Russia a difenderlo. Come
può la Russia, che si è disfatta di tutti i suoi satelliti, difendere un suo
piccolo ex-imitatore, che si intestardisce a non abbandonare i suoi ancora
più piccoli e poveri satelliti. E’ una tragedia logica, prima ancora che militare,
politica o umanitaria.
Per ricostruire l’Europa, bisogna dunque far cadere gli ultimi detriti e riedificare.
E’ ciò che si sta facendo. Ed è un’impresa lunga, molto più lunga di quanto
si possa immaginare e alla quale anche Mosca già concorre, con la sua diplomatica
attesa. E con l’Europa ricomincerà a sperare anche la Russia, non appena il
Danubio stanco si sarà portato via l’ultimo piccolo ex-imitatore di Belgrado.
Potrebbe valere anche per i serbi quanto Pavese diceva degli italiani: “ciò
era stato per l’assurda e tragicomica situazione di morte civile in cui la
storia ci aveva per il momento cacciati.”
Nota
1) -Sulla crisi del marxismo dogmatico: «Quaderni rossi» dal ‘60 al ‘65. Contro
le tendenze neomarxiste: «Rinascita» sin dal ‘44; «Il contemporaneo» dal ’65
come supplemento a Rinascita. Per la nuova sinistra: «quaderni piacentini»
Ia serie dal ’62 all’ ’80, IIa serie ’81-’84. Per la tendenza liberal-democratica
e liberal-socialista: «Il Mondo» sino al ’64; «L’Astrolabio» dal ’63; «Il
Ponte» dal ’45; «Problemi del socialismo» Ia serie dal ’58, IIa serie ’65-’70;
«Mondo operaio» e dal ’73 «MondOperaio»; «Ombre rosse» dal ’71 all’ ’80; «Giovane
Critica» dal ’63 al ’73; «Nuovo Impegno» dal ’65, rivista bimestrale di letteratura,
trasformatasi poi ufficialmente nel ’77 in trimestrale marxista-leninista;
«La Sinistra» nel ‘66-’67; «Inchiesta» del ’71; «Monthly Review» dal ’68 in
edizione italiana; «classe operaia» dal ’64 al ’67; «Contropiano» dal ’68
al ’71; «Laboratorio politico» dal ’81 al ’83; «MicroMega. Le ragioni della
sinistra» dal ’66; «La rivista trimestrale» dal ’62 al ’70, vero e proprio
laboratorio ufficiale strategico per la convergenza storica tra il mondo comunista
e il mondo cattolico. Per l’area cattolica democratica: «Discussione» dal
’54; «Politica» dal ’55 al ’74; «Settegiorni» dal ’67 al ’74; «Il regno» dal
’55; «Testimonianze» dal ’58; «Com - Nuovi Tempi» dal ’64; «Il Sabato» dal
’78. Per la destra, anche estrema: «Elementi» Ia serie dal ’78 al ’79, IIa
serie dall’ ’82 all’ ’83, modellata su «Élements», rivista politica della
nouvelle droite francese.
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