Capire
i segni
di Daniele Rubboli
Giornalista professionista - Musicologo - Organizzatore teatrale
Presidente Incoming Rotary Club Milano Sud Ovest e Socio Fondatore del Rotary
Club Ferrara Est
Il 18 aprile sono andato alle urne del referendum e ho votato.
L’ho fatto per non dimettermi da cittadino, come ha detto Luigi Abete, ma
soprattutto perché noi modenesi, anche se viviamo all’estero (sono a Milano
da vent’anni, ma resto affiliato alla Zampone Connection), al nostro senso
civico non rinunciamo (Modena, con Bologna, ha visto alle urne un’affluenza
del 64,9, record italiano ’99).
Non mi sono né sorpreso come Di Pietro, né scandalizzato come Fini, al verdetto
di nullità di questo spaventoso spreco all’italiana.
Il fatto è che, antico giornalista quale sono, continuo a cercare di capire
i ... «segni» e qui ce n’erano due.
Uno, Mario Segni, che il mai dimenticato Fortebraccio avrebbe portato a giusto
esempio del significato che in fisica ha il «vuoto spinto».
L’altro, la stanchezza del gregge che, già senza pastori autorevoli, voleva
almeno essere guidato da cani di razza e non da botoli figli di incroci mal
riusciti.
Una stanchezza così evidente, tangibile, che solo chi è in malafede o è talmente
stupido non poteva vedere.
Che questo referendum non ottenesse il numero sufficiente dei
votanti era nella possibilità di preveggenza di tutti. Bastava fare un piccolo
calcolo che si è rivelato esatto e fatale: l’Italia non è più il Paese della
tragica emigrazione di fine ’800, quando New York era la quarta città italiana
per presenza di nostri connazionali. Non esportiamo più in maniera così drammatica
tanta gente, anche se di lavoratori all’estero, del braccio e della mente,
ne abbiamo ancora tanti.
Ma siamo pur sempre il Paese della massiccia emigrazione interna dalle isole
e dalle regioni del Sud verso i grandi complessi industriali del Nord. Ed
era impensabile che gli elettori della Sicilia e della Sardegna, della Puglia
e della Calabria, che pur lavorando a Torino, Genova e Milano hanno mantenuto
la residenza a «casa propria», demotivati, stanchi, sfiduciati come tutti
noi da questi uomini piccoli piccoli (le eccezioni confermano la definizione)
che dovrebbero governarci, facessero il viaggio fino alle urne ... di nascita
per votare.
Nel mio entourage ho incontrato tantissime di queste persone, ma anche gente
emigrata a Milano da Vicenza o da Genova, che non ha saputo trovare una giustificazione
alla trasferta domenicale di più che centinaia di chilometri per votare che
cosa?! Una riforma che, per preciso mandato, per mestiere spetta a chi siede
alle Camere?! I cittadini delegano i propri rappresentanti per essere coperti
nella amministrazione della cosa pubblica e questi, incapaci di svolgere il
proprio mestiere, fingendo aperture democratiche fasulle, rimettono le scelte
ai cittadini.
E i cittadini vanno da altra parte, in perfetta, sacrosanta libertà.
C’erano dunque tutti i «segni» utili per capire che al referendum sarebbero
andati in pochi e la sufficienza non sarebbe stata raggiunta. Purtroppo questa
proclamazione di stanchezza del Popolo italiano sarà una volta di più disattesa:
chi vive di referendum continuerà a proporne e chi non sa far politica continuerà
a farne perché altro mestiere non ha.
Ho una proposta: nessuna tassa agli italiani per il Kosovo, ma gli stipendi
dei parlamentari per almeno due mesi, a parziale recupero dei miliardi gettati
per questo insensato, inutile referendum e a totale copertura degli aiuti
che vogliamo inviare alle vittime del feroce opportunismo espansionistico
serbo.
Quegli aiuti che i loro fratelli greci continuano clamorosamente a negare
nel silenzio connivente delle diplomazie occidentali, come se la Grecia non
appartenesse alla Nato, o anche semplicemente al consorzio umano che si affaccia
sul Mediteraneo!
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