Qui
di seguito viene presentata una bella pagina che
descrive in modo efficace chi era Luigi Scrosoppi; di quale tempra, forza
morale e fede fosse dotato. Dopo la breve lettura, anche chi nulla sa di questo personaggio,
percepisce che il linguaggio dei sui comportamenti è
quello dei grandi Santi che rendono onore alla Chiesa Cattolica e ben
continuano la testimonianza d’Amore iniziata da Cristo Gesù. |
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Tratto
dal libro: “Per i più poveri” di Maria Papàsogli – Zalum – Giorgio Papàsogli
(capitolo II)
Nel 1822 Carlo Filaferro era divenuto
direttore della Casa delle Derelitte, una fondazione modesta esistente da
qualche anno a favore delle fanciulle orfane.
Nel 1829 - poiché don Bearzi vice-direttore della Casa era divenuto parroco - don
Luigi Scrosoppi si affiancò al fratello come vice-direttore dell'opera.
L'ambiente delle Derelitte gli era familiare, poiché da vari anni, a scappa e
fuggi, seminarista e sacerdote giovanissimo, Luigi aveva varcato quella soglia.
I visini delle orfane si erano affacciati, così, di sorpresa fra i libri di
teologia e gli appunti per la predicazione: e un appello dall'eco profonda -
l'appello della carità - era sonato all'orecchio di don Luigi.
Quell'appello si ripeté più deciso nel 1829, e don
Luigi, accettando il posto lasciato vuoto da don Bearzi,
diede ad esso la prima grande risposta. Forse il
sacerdote di venticinque anni non sapeva ancora quale itinerario si preparava a intraprendere, compiendo quel passo.
Ecco dunque don Luigi, col
suo senso pratico, con la sua volontà ostinata, con la sua tenerezza riservata,
in mezzo alle bambine più povere di Udine e tra gli
scartafacci di un'amministrazione in tempesta.
La Casa delle
Derelitte attraversava un periodo di crisi grande: i bilanci erano affidati
alla carità della popolazione, e i « benefattori » stanchi sembravano aver
dimenticato che, tra quelle mura, i bisogni si ripresentavano ogni giorno identici; le ristrettezze economiche si facevano
penose, le bimbe smagrivano, e padre Carlo e don Luigi si chiedevano come tenere
in piedi la baracca vacillante.
L'opera che costava tanti
pensieri ai due fratelli aveva proporzioni tutt'altro che imponenti; si annidava, in realtà, in un
edificio minuscolo: una piccola casa affacciata sulla via, che misurava
diciassette metri di fronte, era alta circa cinque metri e profonda otto: sul
dietro si apriva un orto le cui modeste ricchezze rallegravano la mensa delle
orfane. Tutto organizzato alla buona, con un pizzico di fantasia e
d'improvvisazione: il granaio, per esempio, era utilizzato come dormitorio...
Negli ambienti rustici le bimbe, vivaci e gioiose nonostante il nome
malinconico di
« derelitte », scavallavano
mai sazie di pane, di giuochi e di amore.
La proprietà dell'edificio,
un tempo della signora Paola Florenzis, sul principio
dell'800 era passata alla Casa delle Convertite; ma
dal 1815 al 1822 l'affitto era stato pagato dal conte Alvise Ottelio, cosicché il nome del benefattore era rimasto
legato all'istituto, noto anche come « opera Ottelio
». Scaduto il contratto di locazione, padre Carlo, divenuto direttore delle
Derelitte, si era addossato l'onere dell'affitto, che veniva
pagato puntualmente, in rate semestrali, il 31 gennaio e il 31luglio.
Padre Carlo, dunque, pagava
l'affitto e dirigeva la vita dell'istituto: don Luigi intanto soffriva e
prendeva sempre più a cuore i problemi delle piccole ospiti, per le quali
l'esigua casetta della signora Florenzis
rappresentava tutto un mondo protettore ed amico. Ormai quei visi di bimbe non
visitavano più episodicamente i pensieri di don Luigi: facevano da padroni, ora
che egli si trovava ad essere non più tra i visitatori, bensì tra i
responsabili dell'istituto.
La casa doveva ricominciare a
vivere. Padre Carlo tentò di ottenere degli aiuti dal governo austriaco; don
Luigi fece qualcosa di più: pagò di persona, con una serie di gesti che per la
prima volta, di colpo, lo rivelarono.
Era il marzo 1829,
un aspro e ventoso principio di primavera, nelle campagne serene dell'udinese
che hanno a pochi passi la montagna. Durante quella
stagione che aveva sapore sorgivo di inizio, don Luigi
imparò un nuovo « mestiere »: tender la mano, da povero mendicante, lungo le
vie della città e quelle dei campi: chiedeva danaro, chiedeva pane e ortaggi e
frutta, chiedeva carne, poiché soprattutto di questa le derelitte avevano
bisogno. Chiedeva, dominando il rossore: Udine era la sua città e ad ogni
angolo di strada gli si facevano incontro visi fin troppo noti... occhiate incredule e canzonatorie, fischi di ragazzaglia divennero
il suo pane quotidiano. Su tutti quei visi era possibile leggere la stessa
domanda:
don Luigi Scrosoppi il quieto giovane prete che aveva alle
spalle una famiglia agiata, abitudini decorose, un sistema di vita senz'avventura
e senza radicalismi - era forse impazzito?
Ogni passo mosso da
don Luigi per le vie di Udine diveniva, in tal modo,
una rottura col suo passato tranquillo, una sfida pacata alla mentalità
assestata dei benpensanti, una vittoria nell'imitazione e nella sequela del
Signore umile.
Tornava a casa col suo
calesse carico di doni, e si vedeva correre incontro le bimbe in festa che gli si aggrappavano all'abito talare: « Gigi, dàmi cicin... »
Quel grido confidente
ricompensava don Luigi di tutte le amarezze inghiottite lungo i suoi itinerari.
Se
Udine rideva e sussurrava, la gente di campagna riusciva ad essere, talora, più
rude: quel questuante anticonformista diveniva un segno di contraddizione:
incontrava la risposta generosa e l'insulto, ed erano due generi ben diversi di
ricchezza che don Luigi accumulava pazientemente. Un giorno, in un paesino nei
pressi di Udine, un tale, cui egli si era rivolto, gli
rispose con uno schiaffo: don Luigi - per sua natura impulsivo e tutto fuoco -
riuscì a sorridere:
« Questo va bene
per me; ma che cosa mi darete, ora, per le mie orfanelle? ».
L'uomo non si
aspettava una simile risposta; guardò con occhi nuovi colui
che aveva considerato un bigotto sfaccendato, e dovette arrossire. Quel
giorno, il calesse di don Luigi rientrò più carico del solito, e molti doni vi
erano stati deposti dalla medesima mano che aveva dato lo schiaffo.
Tutta la sua forza di
temperamento, don Luigi la spendeva dunque così, nel perseverare su cammini malsicuri:
le premesse per la sua vita di animatore, di direttore
e di servo dei poveri erano già in quel suo umile, tenace girovagare. E
tuttavia, mentre la chiamata alla carità portava frutto nell'intimo, ebbe
luogo un'apparente battuta di arresto: verso il 1830,
Luigi parve sul punto di distaccarsi dalla strada intrapresa.
Non lontano dalla Casa delle
Derelitte sorgeva un convento di cappuccini, riaperto recentemente, dopo la
soppressione del 1807. Don Luigi vi passava davanti, sfiorando il segreto della
raccolta vita comunitaria che tornava a fiorire all'interno di quelle mura. La
spiritualità francescana aveva di che affascinarlo, col suo invito alla povertà
gioiosa, col suo schietto contrassegno evangelico: in Luigi, già da tempo, fremeva la volontà di un dono integrale.
Mendicante per le derelitte, egli era pur sempre il figlio protetto di mamma
Antonia, e sentiva la frattura che si delineava nella
sua vita:
aveva imboccato un sentiero esigente ed osato un
comportamento nuovo, ma, a sera, rientrava nella casa paterna, ritrovando tanta
parte delle antiche abitudini e i pacati valori umani che sembravano a un
tratto un limite alla libertà dello spirito.
Un saio, una regola, una vita
comunitaria orientata alla ricerca della perfezione, avrebbero appagato l'ansia
di Luigi, sarebbero stati una sicurezza sul cammino
dell'integralità evangelica cui il giovane tendeva, con fuoco e con pazienza.
Poi, lentamente, quel
pensiero si trasformò; don Luigi comprese più a fondo la sua vocazione. C'è chi
si santifica su una via battuta da molti, in un contesto
fatto di stabilità, c'è chi deve aprirsi la strada da solo: e Luigi Scrosoppi
capì che il suo compito era questo.
Capì, forse, che il vero
punto di riferimento per la sua vita non sarebbe stato il convento dei cappuccini,
ma la casetta che gli sorgeva vicino, col suo granaio dove d'inverno fischiava
il vento e dove le creature più indifese di Udine
cercavano di prender sonno. Le bimbe abbandonate: questo primo amore di don
Luigi non era forse, anch'esso, come una regola ed una vocazione?
Egli scriveva, in quel tempo,
due grosse rubriche dove raccoglieva riflessioni o notizie riguardo a temi che lo interessavano. Alla voce
« vocazione », troviamo righe rivelatrici:
« Per farci santi
non bisogna credere di dovere ritirarsi in religione, o in eremi. S. Agostino
in un sermone fatto a religiosi del deserto ebbe a dire: Ecco siamo nella solitudine; tuttavia non
sono la preghiera ed il canto liturgico che fanno i santi, ma è il ben operare
che santifica il luogo e noi. Se infatti i luoghi
potessero santificare chi vi abita, né l'uomo né l'angelo sarebbero precipitati
dalla loro dignità ».
La concezione della santità
qui formulata parrebbe in contrasto con l'immagine che, un giorno, i
contemporanei si sarebbero fatti di Luigi Scrosoppi:
attento e vigile fino nei più minuti particolari delle regole, tenacemente
avvinto alla lettera che custodisce lo spirito. Dalle righe appena lette appare
una visione tutta interiore della vocazione, non per questo più morbida: al contrario,
profondamente esigente e legata al suggerimento di una donazione integrale.
Staccandosi lentamente dal
suo sogno francescano, don Luigi meditò su questa realtà. Soffrì, forse, nel
rinunciare a quell'umile e domestico orizzonte di
perfezione che gli era suggerito dalle immagini del convento? Il suo ministero si sarebbe svolto in un più stretto
contatto col mondo e in un più diretto servizio dei poveri: fu un'ora di prova
che avrebbe illuminato tutta la vita di padre Luigi. La sua graduale e radicale
rinuncia ad ogni compromesso con i valori terreni ebbe l'avvio dalla decisione
presa nel 1830, dalla serena e lucida comprensione che non è
il luogo a renderci santi, ma che « il ben operare santifica il luogo e noi».