Vita dei santi

Antonia Maria de Oviedo e Schonthal

Sintesi ricavata dal libro: DAMMI DA BERE di Manuel Gomez  stampa Valsele Tipografica

 

La famiglia

 

Nasce a Losanna da padre spagnolo e madre svizzera. Il padre Don Antonio de Oviedo, era nato a Siviglia nel 1791. La famiglia Oviedo apparteneva all'alta borghesia andalusa. Esportava frutta con varie navi mercantili di sua proprietà. Ciò le garantiva un'agia­ta posizione economica.

Il nonno decise di inviare Antonio in Inghilterra affinché studiasse l'inglese, conoscesse direttamente i suoi principali clienti e si pre­parasse per la conduzione delle attività commerciali della famiglia. Così, nell'anno 1808, Antonio s'imbarcò per Londra su una nave inglese. Il viaggio sarebbe stato lungo, infinito... Erano gli anni duri delle guerre napoleoniche e tutta l'Europa era un campo di battaglia. La Spagna e l'Inghilterra si erano alleate contro la Francia. Dal ponte della nave il nostro giovane viaggiatore sognava le vie della grandezza. Naturale, a diciassette anni tutta la vita è sogno.... Questa volta, però, il risveglio fu un terribile incubo. La nave in­glese si vide obbligata a rifugiarsi in un porto francese per salvarsi da una tempesta in alto mare, quindi venne catturata come nave nemica e i passeggeri dichiarati prigionieri di guerra.

Antonio finisce in carcere. Quando lo sanno a Siviglia si adoperano per liberarlo, ma è difficile. Ad Antonio viene impo­sto di riconoscere Giuseppe Bonaparte come re legittimo di Spagna. Si rifiuta, e così chiude le porte alla sua libertà. Per di più, diventa prigioniero inglese per aver viaggiato su una nave che mai giunse in Inghilterra....

Comunque, egli non si rassegnò affatto a rimanere in prigione e così preparò la fuga verso la libertà. Dopo alcuni mesi di fuga giunse a Losanna, in Svizzera, in cerca della famiglia Schonthal e di un certo signor Ansley. Era l'anno 1812.

 

La famiglia della madre era più modesta. Possedeva a Losanna un piccolo negozio. Sarebbe andata alla rovina se non fosse stato per l'arrivo provvidenziale del signor Ansley. Era anche lui un profugo dell'Europa in guerra; scozzese di origine, cattolico e col titolo di duca, aveva dovuto rinunciare a tutto questo per non finire sotto la ghigliottina. Fuggendo, giunse all'accogliente casa degli Schonthal, nella quale venne ricevuto con affetto. All'epoca c'era­no in casa quattro donne: la signora Schonthal e le sue tre figlie. Riconoscente, si mise a lavorare nel piccolo negozio e riuscì a portare avanti la famiglia dei suoi amici con una certa agiatezza economica. Quando morì la madre, il signor Ansley divenne il protettore delle tre sorelle: Anita, Sofia e Susana. E intanto aiutava i fuggitivi.

Nell'attesa di un passaporto falso, Antonio de Oviedo fu costretto a rimanere nascosto in casa. Qui s'innamorò profondamente di Susana, la madre di Antonia. Non poté dichiararle il suo amore perché era in incognito; ma alla partenza le lasciò una dedica su una copia della Imitazione di Cristo: «Susana, pensami».

E poi di nuovo a peregrinare per l'Europa, adesso con un passapor­to falso ed un nome italiano. A Berlino venne nuovamente fatto prigioniero e rischiò di essere fucilato come spia. Una provviden­ziale sospensione della pena gli salvò la vita. Da Berlino in Polo­nia, Danimarca, Norvegia, Svezia e, finalmente, in Inghilterra. Il viaggio iniziato quel lontano giorno sulla nave inglese, era durato quasi cinque anni...

Quando tornò a Siviglia parlava diverse lingue. Ma adesso tutto era cambiato: anche lì erano giunti i disastri della guerra. Suo padre era economicamente e psicologicamente rovinato: l'attività commercia­le era fallita e molte delle loro navi erano affondate a Trafalgar.

Antonio cercò di risollevare l'attività ma non vi riuscì. Ricorse alla famiglia reale chiedendo aiuto e dedicandole una traduzione de Il trattato della Gloria. Tutto inutile, servì soltanto a peggiorare le cose: pronunciò un discorso dinanzi a Ferdinando VII e lo fece con così poca diplomazia che venne rinchiuso nel carcere del convento di Loreto. Un altro anno di prigione.

Forse fu, in prigione, che si ravvivò in lui il ricordo di Susana, la bella ragazza svizzera la cui tenerezza e semplicità non aveva mai potuto dimenticare. E tornò a Losanna. Nonostante fossero passati molti anni, Susana era ancora nubile. Questa volta non solo le dichiarò il suo amore, ma le chiese anche di sposarlo. Il matri­monio venne celebrato il 20 luglio 1819. Antonio aveva 28 anni e Susana 29. Nel contratto veniva chiaramente stabilito che il matri­monio e l'educazione dei figli sarebbero stati cattolici. Susana la­sciò molto presto il protestantesimo.

 

I giovani sposi si trasferirono in Spagna per cercare di salvare le sorti economiche della famiglia. A Cadiz, nel novembre del 1820 nacque Filotea, la loro prima figlia. Visse un mese e mezzo. Ancora dolore e morte... Antonio e Susana capirono che a Siviglia tutto era perso e decisero di tornare in Svizzera. A Losanna, il signor Ansley seguitava a portare avanti il piccolo negozio che dava da vivere a tutta la famiglia...

 

Il 16 marzo del 1822 nasce Antonia. Erano i vespri della primavera. Sulle Alpi cominciava il disgelo, ed il lago Lemano, si riempiva dell'acqua limpida che scen­deva cantando dai ghiacciai carichi di luce.

 

Poco dopo la nascita di Antonia, il padre decise di partire per l'Inghilterra, nel tentativo di sollevare l'economia della famiglia dedicandosi a ciò che sapeva fare bene, il commercio. Ma i viaggi del padre erano segnati dalla tragedia. Anche questa volta partì e, per non si sa quali disavventure, non si seppe più nulla di lui. Cosa accadde? Non lo sappiamo. La madre Susana però molto tempo dopo venne a sapere che il marito era a Londra molto ammalato. Partì per Londra e lo assistette fino al giorno della sua morte. Sarà stato sempre malato? Chissà! L'importante è che Susana, che avrebbe dovuto essere la più risentita, parlò sempre di lui come il suo «amabilissimo ed amato sposo».

 

Nel 1826 moriva a Losanna il signor Ansley. Quattro donne rima­nevano sole ad affrontare una società ed un mondo ostili ed aggres­sivi con la loro categoria. Il piccolo negozio della famiglia era fallito. Bisognava chiudere.

Fino ad allora Antonia era cresciuta profondamente amata sia dalla madre che dalle zie, ma era una condizione non destinata a durare; la sua vita infatti era destinata alla solitudine.

La madre Susana ben presto dovette allontanarsi in cerca di lavoro per poter sostenere la famiglia. Era in Francia quando ebbe notizie del marito ammalato a Londra, e quando decise di raggiungerlo per assisterlo nella malattia e nella morte.

Era proprio li il giorno della prima comunione di Antonia. In quei momenti, tante volte sognati e preparati insieme, il sentimento di solitudine in Antonia si fece più acuto. La madre Susana  lo sapeva e perciò gli scrisse:

«Dio ha voluto così, mi ha provato in ciò che in me è più sensibile.. .Mi ha dato una croce superiore alle mie forze, ma confido nella sua grazia che supplirà la mia fragilità...»

 

 

La formazione spirituale ed umana di Antonia

 

Nel frattempo Antonia si sposta a Friburgo dove incontra tante persone amiche che gli vogliono veramente bene, specialmente la famiglia Aeby. Qui ebbe inizio la tappa più impor­tante della sua formazione spirituale e umana. Era senza dubbio intelligente ed anche intuitiva: comprendeva che il futuro della donna era nella cultura e si dedicò totalmente alla formazione.

In un'epoca in cui la grande maggioranza delle donne rimaneva nell' analfabetismo e nella povertà culturale più assoluta, Antonia optò per la loro liberazione, cominciando da se stessa.

 

Una delle sue maestre li ricordava così:

«Oltre al francese e al tedesco conosce l'inglese e l'italiano alla perfezione; e poi la storia, la geografia, la pittura, la musica ed ogni tipo di attività artistica. Però in maniera speciale, è degna di ammirazione per il suo ineccepibile comportamento, per la sua profonda pietà, per la bellezza della sua anima, le buone qualità del suo cuore, e l'effluvio di virtù per cui si fa amare da tutti coloro che la frequenta­no».

 

Non era facile trovare una donna così istruita nei primi anni del secolo XIX.

La madre rientrò in seguito alla morte del marito, dopo due lunghi anni di assenza. A 16 anni, completata la prima formazione, toccò ad Antonia partire in cerca di lavoro vincendo i sentimenti che la legavano alla famiglia. Nonostante la sua giovane età, la vita esigeva che fosse già pienamente donna e cominciò a diventarlo nella solitudine e nel distacco. Prima a Ginevra. Fu chiamata dai marchesi della Roma­na per essere l'istitutrice della loro figlia Rosalia. Da Ginevra a Milano e poi a Firenze. Ogni volta più lontano da sua madre e dalle sue zie, che erano tutto ciò che possedeva.

La madre le scriveva:

«Sofia ed io siamo tristi all'idea che ti allontani sempre più... E perché poi? Per il denaro, il benedetto denaro che mi priva di ciò che ho di più caro al mondo».

 

 

Ma non era per denaro, bensì per miseria, il che è molto diverso. C’era la necessità di sopravvivere; ma la soprav­vivenza dei poveri è molto difficile. La mancanza di mezzi econo­mici divenne così acuta che Susana fu minacciata con il carcere per non aver pagato un piccolo debito.

Firenze era bella e la madre vi si trasferì per rimanerle accanto e dipingere. Si era creata molte illusioni artistiche lì, nella capitale del Rinascimento... Ma non fu possibile. Le spese erano superiori ai guadagni e dovette ritornare. Però li la trovò bella, come scrisse in una delle sue lettere:

«E' alta e bella. Quando siamo insieme mi accorgo che la guardano e la seguono con gli occhi, senza che lei si accorga di nulla; si vede che non cerca di piacere, il che la rende bella ancor di più....»

 

Era bella, è vero. E per questo suscitava grandi amori. Ma ora non poteva pensare ad essi. La sua allieva, una bambina viziata dalla nobiltà, completamente ignara di cosa fosse la fame, le rendeva impossibile il lavoro. Rinunciò ad esso. La famiglia capì e la lasciò partire pur conservando la sua amicizia...

A 18 anni torna in Svizzera e qui ebbe inizio un'esperienza che sarebbe stata feconda per la sua vita: si vede costretta a bussare a molte porte in cerca di lavoro; in pratica fu costretta a mendi­care. Alcuni anni dopo, in un giorno in cui, a Ciempozuelos, non aveva nulla da mangiare per le prostitute che alloggiavano nella sua casa, si sarebbe fatta forte di questa esperienza per andare a chiedere l'elemosina per le strade di Madrid.

 

In questa nuova esperienza, finalmente riuscì ad aprire un pensionato a Friburgo dove poté lavorare come insegnante, la sua vera professione.

A 26 anni fu scelta come istitutrice delle infanti della famiglia reale spagnola e lasciò la Svizzera per re­carsi a Madrid. Sua madre l’accompagnò fino a Ginevra per dirle addio ed arrivederci: Sperava ardentemente di poterla visitare un giorno a Madrid. Così avrebbe anche salutato la famiglia di suo marito, che non vedeva più dai tempi del loro matrimonio.

Non potevano mai immaginare che quello sarebbe stato invece il loro ul­timo addio. Morì di polmonite mentre Antonia era in viaggio. In tre giorni perdette così sua madre, la donna che più aveva amato e che più l’amò. Giunse a corte orfana e definitivamente sola. La solitudine, la povertà e il distacco la preparavano all'incontro della sua vita, alla consegna e alla donazione totale.

 

Visse per tredici anni a corte senza avere una casa sua. Poi giunsero le difficoltà economiche, però mai si accompagnarono alla mancanza d'amore, al contrario, in alcuni momenti la sua vita sembra addirittura una favola con principi azzurri e tutto il resto. Lei stessa lo racconta nella «Storia di una coscienza». Questi appunti, redatti per obbedienza all'età di 32 anni, quando ancora ne manca­vano dodici perché desse inizio alla fondazione della prima casa d’accoglienza, rappresentano uno dei documenti più impressionanti nella storia della santità. In essi si manifesta, con incredibile sem­plicità, il suo desiderio di seguire Cristo con un candore verginale aperto alla fecondità; però anche con la sua sensibilità e profondità di donna che l'amore umano invita, chiama e possiede.

Alla fine, trionferà l'amore in pienezza, l'amore assoluto, oblativo, offerto generosamente a Dio, che è Amore e che si dona senza limiti, specialmente a coloro che non sono state mai veramente amate, e che furono piuttosto mercenarie dell'amore.

 

Proposte di matrimonio

 

A 18 anni, quando sua madre la trovò alta e bella, a Firenze, qual­cuno si accorse di lei per la prima volta. Antonia lo racconta così:

«Una richiesta di matrimonio, che mi offriva una buona posizione, un titolo ed una fortuna, non poté smuovere la mia risolutezza: Dio e mia madre, questi erano i miei due amori».

Il ragazzo era un marchese e le chiedeva di diventare marchesa accanto a lui. Per la prima volta nella sua vita disse di no al matrimonio. Adesso le ragioni erano Dio e sua madre. Tra non molto, quando resterà orfana, sarà solamente Dio... Si era donata a Lui definitivamente, seppur in segreto.

A 22 anni, anni fu lei ad innamorarsi. E' un momento importante nella sua vita: è appena guarita da una malattia e si crede invulnerabile all'amore umano, nonostante avesse avuto mille occasioni per pre­disporsi verso gli uomini.  E’ di nuovo lei a raccontare:

«Un male fino ad allora sconosciuto si era impadronito del mio cuore. Avevo rivisto un amico d'infanzia... e sentii con lui un 'intima conformità di sentimenti... Mi sentivo amata... La lotta fu lunga e cruenta. Durò quasi due anni...».

 

A corte, ancora una volta l'amore bussa alla porta del suo cuore. Gli aprì, lo lasciò entrare e fu sul punto di dire di sì, perché tutti quelli a cui rivela la sua situazione interiore la esortano ad accettare, no­nostante la sua intima consacrazione. Le costò una depressione:

«Tante sofferenze avevano minato gravemente la mia salute. Avevo perso completamente l'appetito ed il sonno. Una ter­ribile tristezza aveva sostituito la mia abituale allegria».

Furono i momenti più difficili della sua vita. La sua notte più oscu­ra. Si rifiutava di acconsentire perché, malgrado le apparenze ed il silenzio di Dio, continuava a credere alla sua presenza e ad offrigli per intero la sua vita. Questa lotta interiore fu la causa della sua malattia. Da una parte, l'impegno che aveva preso con l'Amore senza limiti, e dall'altra l'offerta dell'amore umano che le veniva donato e che lei faticava ad accettare.

Adesso la situazione era più difficile rispetto alle precedenti, in quanto il pretendente viveva nella sua stessa casa, a corte. Si chia­mava Antonio ed era il segretario particolare della Regina. Una degnissima persona. Gli voleva bene e lo stimava. Inoltre, lo amava e lo avrebbe amato per sempre. Soltanto quella presenza invisibile che la conduce misteriosamente per mano, senza sapere dove, le impedisce di dirgli di sì. Prega molto, chiede consiglio e tutti l'incoraggiano a sposarsi con Antonio:

«E così chinai il capo e per la prima volta accarezzai il desiderio che tanto avevo combattuto».

 Ma ormai era tardi:

«La Divina Provvidenza mi offriva un altro calice di amarezza perché lo unissi a quello che aveva consumato il mio Salvatore... Re­spinto per tanti anni e ormai senza speranza di poter occu­pare un posto nel mio cuore che egli credeva tutto di Dio, Antonio, costretto a scegliere una sposa, si era deciso per un 'altra ... E' necessario aver conosciuto l'angoscia che in quell’occasione oppresse la mia anima, per avere un'idea di quello che ho sofferto».

 

Questa esperienza la segnò definitivamente e la rese pienamente donna:

«Quell'affetto era ancora dolce per me. Egli mi amava perché ero dotata di talento, scienza e virtù...».

Per alcune particolari circostanze, Antonio non giunse a sposarsi, nonostante avesse già fissato il giorno delle nozze. Tornò ancora da lei, ma lei volle lasciare le cose ben chiare:

«Io gli manifestai fin dal principio che non doveva nutrire speranza alcuna riguardo a me, poiché ero decisa a non sposarmi affatto. Rimanemmo amici continuando ad amarci mutuamente pur senza mai volerlo confessare».

 

Sembra che adesso il suo destino sia definitivamente segnato. Ma non è cosi. Continua a suscitare amore. E giunge l'ultimo a chie­dergli la mano. Questa volta niente di romantico, al contrario. Era vedovo, aveva già dei figli e viveva a Parigi, dove possedeva un'im­mensa fortuna. Dubitò ancora. E' logico. Si ritrovava di nuovo sola a decidere e, d'altra parte, per sposarsi avrebbe ancora preferito don Antonio:

«Rifiutai. I miei amici insistevano, i miei compaesani si erano messi d'accordo per convincermi... Mi si faceva pensare a tutto il bene che avrei potuto fare con una fortuna come quella che possedeva il mio pretendente... Hanno insistito tanto che alla fine nonostante la mia ripugnanza stavo quasi per accettare...»

Rifiutò per non deludere Antonio:

«Per la seconda volta stavo per dire sì a qualcuno che non amavo mentre non avevo mai acconsentito a dirlo a coloro che avevo veramente amato».

 

Questa volta il tuo confessore fu dalla sua parte:

«Rinunciai all'unione parigina e Antonio ed io ci promettem­mo mutuamente che, se un giorno avessimo deciso di sposarci, sarebbe stato l'uno con l'altra».

 

E siamo già nel 1854. Ha 32 anni e vive a corte. Conclude il sincero e prezioso racconto della sua vita con le parole solitudine e apertura:

 

«Sono sola, i parenti che mi rimangono hanno le loro famiglie e quasi tutti vivono in una posizione agiata. Il mio antico desiderio di vita religiosa rinasce nel Carmelo... La manna celestiale del Tabernacolo mi produce disgusto per ogni cosa terrena: Signore, Signore, cosa vuoi che faccia?»

 

Ed Egli le rispose:

Voglio che tu sia povera perché possa vivere senza possedere nulla e possa dare il meglio di te stessa: la tua tenerezza, il tuo tempo e la tua semplicità; è l'unica maniera di identificarti con i più poveri, gli ultimi, quelli che non possiedono cosa alcuna...

 

E sicuramente le disse anche:

Voglio che tu viva in solitudine per non porre limiti all'amore e poter vivere l'amore senza limiti.

 

La verità è che l'intensa esperienza d'amore che vive Antonia come donna, la preparò per accogliere, senza restrizioni, la donna profondamente umiliata alla quale ogni genere d'amore viene negato.

 

A servizio della corte spagnola

 

Maria Cristina, figlia del re di Napoli, era nata a Palermo nel 1806. Nel 1829 sposa lo zio Fernando VII, re di Spagna, già tre volte vedovo e senza discendenza. Già nel 1830 la bella Maria Cristina da alla luce la prima figlia Isabella che erediterà la corona con il nome di Isabella II. Nel 1832 nasce Maria Luisa Fernanda. Nel 1833 muore il re Ferdinando VII all’età di 49 anni.

Maria Cristina, ancora giovane, molto bella e con sangue napoletano, non tarda ad innamorarsi perdutamente di un certo Fernando Munoz, figlio di una locandiera di Tarancòn. E’ un ufficiale di infimo grado della sua guardia personale, ma è giovane, bello, … e questo basta per farle perdere la testa. Da questo amore, che non è stato tenuto segreto, naquero sette figli. Non fu certo indolore questa scelta di Maria Cristina. Perse la reggenza e quindi l’incarico di Regina Governatrice, perse la patria potestà delle due figlie avute con il re Ferdinando VII e subì molti anni di esilio forzato. Poi però rientrò nel palazzo della Reja a Madrid.

Per educare le tre figlie di questo secondo matrimonio di Maria Cristina, fu proprio chiamata la nostra Antonia. Ad indicarla fu l’ambasciatore spagnolo in Svizzera che ebbe modo di apprezzare le sue qualità e le sue virtù.

Arrivò a Madrid a 26 anni, il 15 febbraio 1848, nel palazzo della Reja dove Maria Cristina e la sua famiglia abitavano da quando erano tornati dall'esilio. Per Maria Cristina era questa la soluzione migliore. Infatti le permetteva di rimanere vicino alla figlia, la Regina Isabel­la II ancora bambina, quanto bastava per vigilare attentamente su tutti i movimenti della corte e così poter intrigare, attività che svolgeva con immenso piacere....

Il 1848 fu un anno chiave nella storia d'Europa e del mondo: è l'anno delle rivoluzioni e della pubblicazione del Manifesto comu­nista... La prima rivoluzione scoppiò a Parigi, in gennaio. Conseguentemente, una dopo l'altra, iniziavano le rivolte di Vienna, Berlino, Budapest, Venezia, Milano... A Madrid la rivoluzione ar­rivò con due mesi di ritardo. Scoppiò il 7 maggio dopo pochi mesi dall’arrivo di Antonia.

Il primo ministro, Narvàez, la grande spada di Loja, la represse molto duramente, come conveniva al migliore stile dittatoriale. Gli storici dicono che grazie a questa repressione erano state risparmiate alla Spagna le conseguenze delle rivoluzioni del 1848; ma non è esatto, Narvàez riuscì soltanto a contenerle per alcuni anni, per­ché nel 1868 si arriverà comunque alla Repubblica.

Antonia rimase sgomenta al sentir parlare di tutti i morti dovuti alla repressione. Come conseguenza di questa repressione, la famiglia reale dovette lasciare Madrid e partire per San Sebastiàn, vicino alla frontiera. Antonia li seguì.

San Sebastiàn le piaceva moltissimo perché gli sembrava di essere in Svizzera per la fiorente vita religiosa, e per essere lontana dal caldo spaventoso di Madrid. Gli piaceva il suo mare e si bagnava in esso. Con questo suo semplice e naturale atteggiamento si può sco­prire quanto i santi ci siano vicini e quanto siano capaci di ammi­rare la bellezza della creazione e di tutto quello che li circonda...

 

Ad Antonia, però, l’ambiente ed il contesto politico in cui si trovava non le piaceva affatto. Oltre ai proble­mi e agli intrighi politici c'era anche la situazione affettiva d'Isabella II e la sua condotta scandalosa.

Così scrive Antonia:

«Immaginavo che l'ambiente cortigiano fosse cattivo ma è molto peggio di quanto pensassi, soprattutto perché l'esempio viene dall'alto. La nostra sventurata Regina Isabella ne è completamente sommersa. Il re si ritira dalle feste alle tre di notte... ma Isabella vi rimane fino all'alba».

 

Isabella II era una donna nata per godersi la vita, esuberante e passionale, ma si trovò accanto un marito che non era in grado di soddisfare in lei nessuna di queste cose. Ed essa cercò altrove la gioia e l'amore.

Le sue amicizie amorose erano di dominio pubblico. Eppure il popolo di Madrid adorava la sua Regina. Più tardi, quando soffie­ranno i venti repubblicani, Isabella manterrà il trono solo grazie all'affetto che nutrivano per lei i suoi sudditi.

 

Nel luglio del 1854 scoppiò un'altra «rivoluzione», ora direttamen­te contro Maria Cristina, la Regina Madre.

Anche Antonia ne fu travolta. Apparteneva alla sua famiglia per lo stretto rapporto che aveva con le figlie e con lei stessa. I ribelli esigevano che venisse loro consegnata la Regina ed assali­rono il Palazzo della Reja. Ma nessuno si trovava più a palazzo, per maggior sicurezza si erano trasferiti al Palazzo d'Oriente dove rima­nerono rinchiuse per ben quaranta giorni. Il popolo aveva fame e gridava sotto le loro finestre: Associazione o morte! Lavoro e pane!

E poi di nuovo la repressione, questa volta contro quei poveri affamati accusati di essere incendiari e socialisti.

La Regina Maria Cristina aveva contro di lei non solo il popolo affamato, ma anche i progressisti e liberali che l'accusavano di essere conservatrice, assolutista ed intrigante. Il popolo invece la odiava per essersi preoccupata di assicurare una fortuna ai suoi numerosi figli, appropriandosi di tutti i fondi disponibili; ed inoltre l'accusava di speculazioni varie e di aver collocato a corte tutta la famiglia del marito, ossia mezza Tarancòn.

Con queste prospettive non restava altro che emigrare. Ancora l'esi­lio. Maria Cristina abbandona di nuovo la Spagna insieme alla sua famiglia. Antonia andò con loro. E' il biennio progressista. La reazione del popolo dopo la loro partenza fu durissima. Durante l'esilio Antonia scrive:

«Gli avvenimenti politici mi impongono il dovere di non ab­bandonare nella disgrazia la Regina, che nei giorni di splen­dore mi colmò di doni e mi concesse protezione»

 

Nel 1860 si sposò la più giovane delle figlie, Cristina, ed è in quell’occasione che Antonia decise di lasciare l'incarico di corte.

 

Padre Serra

 

Padre Serra è sicuramente la figura principale nella vita e nelle scelte definitive di Antonia. Fu lui ad annunciarle la missione che avrebbe dovuto compiere nella Chiesa e nella socie­tà. Ed è stato lui a sostenerla nei momenti più difficili e ad accom­pagnarla nel cammino lungo, oscuro ed entusiasmante della fonda­zione.

 

José Maria Benito Serra era nato a Mataro nel 1810. A diciotto anni professò nel monastero benedettino di San Martin, in Santiago de Compostela. Lo scenario era splendido. San Martin rappresenta il monumento alla grandezza del monachesimo, inteso come potere e dominio, ma anche come cultura e bellezza. Già monaco benedet­tino, frequentò vari centri di studio dell'Ordine, specializzandosi in scienze umanistiche, lingue classiche, storia, sacra Scrittura e teo­logia.

 

Il 18 marzo del 1835 ricevette il sacerdozio nel suo monastero di San Martin. Celebrò la prima messa nella cappella dedicata a Santa Maria del Soccorso. Ancora oggi vi si trova l'immagine barocca della Vergine, originale ed ingenuamente bellicosa. Col braccio sinistro sostiene il Bambino, mentre con la mano destra brandisce un lungo bastone nell'atto di colpire il demonio che, ai suoi piedi, sta cercando di portarsi via un'anima.

 

Nell'immagine della Madonna del Soccorso di San Martin sembra concentrarsi tutta l'anima religiosa della Galizia: ingenua, barocca e sempre alla ricerca di protezione contro l'onnipresente demonio. Padre Serra parlò sicuramente ad Antonia molte volte e con affetto di questa Madonna, davanti alla quale un giorno aveva intrapreso il suo cam­mino di sacerdote.

Ma Padre Serra rimase a Santiago ben poco tempo. In quello stesso anno Mendizàbal soppresse gli ordini monastici della Spagna ed egli si vide costretto ad esiliare nel monastero benedettino di Cava, a Salerno. Lo accompagnò il suo amico e compagno, Padre Salvado. A Cava insegnò greco, diritto canonico e teologia morale, seguendo da vicino la dottrina di Alfonso de Liguori, appena proclamato santo.

Nel 1845 partì in missione per l'Australia. Il viaggio fu lunghissi­mo. Sul ponte della vecchia nave ebbe molto tempo per pregare e sognare. Da quando aveva respirato l'aria incantata di San Martin, vedeva il mondo come una via luminosa che l'apostolo San Giaco­mo percorreva instancabilmente predicando il Vangelo. Egli voleva imitarlo e per questo intraprese la via della missione verso il punto più lontano. In Australia gli eventi si accavallarono. Venne nomi­nato superiore della missione e Vicario generale di Perth e diede inizio alla fondazione del monastero di Nueva Nurcia. Probabil­mente, mentre lo innalzava, avrà pensato con nostalgia al favoloso monastero di San Martin, il maggiore dell'ordine benedettino in Spagna ed il maggiore di tutti i monasteri spagnoli, con ben 20.000 metri quadrati di costruzione. Avrà sognato di costruirne uno simi­le? Forse, anche se il sogno sembrava irrealizzabile...

A svegliarlo dal sogno giunse la nomina a Vescovo di Porto Victoria. Il lavoro era entusiasmante, ma molto duro. Doveva partire da zero, la diocesi era praticamente inesistente.

Nel febbraio del '48 si recò a Roma per ricevere la consacrazione episcopale e per raccogliere missionari e risorse economiche per la sua nuova diocesi. Da Roma giunse a Madrid dove visitò la fami­glia reale, sempre per chiedere fondi.

In casa della Regina Madre incontrò Antonia per la prima volta. L'incontro fu formale e del tutto fortuito. Antonia rimase impressionata da quel vescovo giovane e attraente, con la sua lunga barba nera, che cer­cava di contagiare tutti con la bellezza della missione in un Paese lontano... Ma non poteva nemmeno immaginare in quei momenti qual’era l'identità della missione che la Provvidenza riservava ad entrambi per il futuro. Egli si avviava appena sulla via dell'episcopato nella lontanissima Australia e Antonia iniziava il magiste­ro alla corte di Spagna.

Nell'agosto del '49 venne nominato vescovo coadiutore di Perth, con il titolo di Daulia, e diritto a successione. Per di più, il cardi­nale Franzoni gli comunicò che «era desiderio di Sua Santità che amministrasse i beni temporali di Perth». Era tutto molto strano...

Il 6 di ottobre s'imbarcò a Cadiz verso la sua nuova diocesi, por­tando con sé 39 missionari europei. Il popolo lo accolse con entu­siasmo, ma il vescovo no: si sentiva defraudato. Per questo gli intimò severamente di comparire davanti al sinodo, pena la sospen­sione.

Ebbe così inizio il dramma di un giovane vescovo. Lo accusarono di tutto, specialmente di essersi appropriato dell'amministrazione economica e dei beni della Chiesa. E questo ancor prima di comin­ciare! Le cose giunsero ben presto a tal punto che il vecchio vesco­vo Brady arrivò ad occupare la residenza vescovile con le armi in pugno, aiutato da sette miseri ubriaconi. Il vecchio vescovo venne messo in carce­re... Padre Serra si dispiacque tanto che si offrì come ostaggio, ma fu inutile, la situazione era divenuta ormai senza ritorno.

Nell'ottobre del 1851 p. Serra venne nominato Amministratore Apostolico di Perth con pieni poteri.

Nel 1854 tornò in Europa. Assistette a Roma alla definizione del dogma dell'Immacolata Concezione. In quei momenti era a Pa­rigi con la Regina esiliata.

Quando Padre Serra visitò la Regina, a Parigi, si incontrò nuo­vamente con Antonia, ma un'altra volta di sfuggita. Non era ancora giunta l'ora dell'amicizia e del lavoro comune.

 

Fece ritorno in Australia con sei religiosi e dodici missionari. Sono gli anni più intensi del suo episcopato. Ma i contrasti interni non si erano risolti, al contrario. Il suo grande amico, Padre Salvado, venne nominato vescovo di Porto Victoria. Erano andati via insie­me da Santiago, insieme erano stati in Italia ed insieme erano poi partiti per l'Australia. Sembrava che tutto andasse bene, ma non era così. Infatti, Padre Salvado aveva deciso di rimanere a Nueva Nurcia, il primo monastero benedettino che avevano aperto insieme appena arrivati, quello che nei loro sogni avrebbe dovuto essere bello come San Martin... Questa decisione del suo amico complicò le cose e compromise l'amicizia. Doloroso ma umano. I santi sono i più umani, per questo si sbagliano....

Nell'aprile del 1859 la Santa Sede separò Nueva Nurcia da Perth. Padre Serra non comprese questa iniziativa. Si sentì venduto, tra­dito e partì per Roma con l'intenzione di chiedere che venisse ritirato il decreto. Il decreto venne invece confermato ed egli si vide destituito e presentò la rinuncia al suo amato vescovado di Perth. La Santa Sede si rifiutò di accettarla subito, perché la giudicò frutto di una decisione istintiva ed affrettata.

Roma è maestra nell'aspettare. Gioca col tempo come nessuno, forse perché sa di essere eterna e non ammette la precipitazione. Così trascorsero due anni. Padre Serra si considerò ferito nel suo onore di vescovo e di spagnolo, come egli stesso scrive al ministro di Grazia e Giustizia, e non cedette. Roma nemmeno, e per questo, trascorsi i due anni, entrò in vigore la dimissione non ritirata. Era l'agosto del 1862.

Per lenire tanto dolore, Roma gli offrì una sede vescovile nel Sud dell'Italia, però era già tardi. Si sentiva stanco e vecchio per andare in montagna e non accettò. La ragione può sembrare poco seria, ma fu proprio questa. Forse pensò che con il cuore diviso non poteva continuare ad essere vescovo: sarebbe stato molto difficile amare la nuova diocesi continuando a pensare a quella lontana. Roma tacque definitivamente ed egli tornò in Spagna chiudendo una tappa deci­siva della sua vita: quella della missione in prima linea.

La permanenza di Padre Serra a Roma fu molto importante per Antonia; è li infatti che si rincontrarono. In quest’occasione Antonia ebbe modo di conoscere da vicino p. Serra; scoprì un uomo forte e tenero che portava nel cuore il messaggio e la testimonianza del Vangelo con l'urgenza della sequela radicale. Quando poi si accostò alla sua anima, si sentisti affascinata dalla profondità della sua vita interiore.

L'impatto fu grande. Nel '62 Antonia scrive un poema per l'Accademia poliglotta di Propaganda e recita poesie nel Vaticano! Su richiesta di Pio IX le venne commissionato un nuovo poema per l'anno successivo. Impressionata dalla semplicità evan­gelica del vescovo compose l'ode intitolata Il Missionario. Tornò ancora una volta a Roma e la recitò nell'Accademia di Propaganda. Nessuno sapeva in quel momento che Il Missionario del suo poema altri non era che Padre Serra, il suo vescovo, il suo amico, padre e angelo custode... Padre Serra veva acceso nella sua anima il fuoco della mis­sione.

Anch'egli era rimasto positivamente impressionato di Antonia. Così era sorta un' amicizia nobile, tenera, fedele e matura per entrambi, che sarebbe durata per sempre. In questo clima di rispetto e di cordia­lità iniziarono insieme l'avventura della liberazione della donna ferita ed emarginata, forti soltanto della debolezza della croce delle Be­atitudini, e dell'amore senza limiti di Gesù di Nazareth. Questa sarebbe stata la loro vera e più importante missione.

 

Le donne di strada

 

Cominciò tutto nell'ospedale di San Giovanni di Dio. Lì Padre Serra scoprì la luce intensa del mattino di Pasqua, negli occhi malati e pieni di vergogna della donna dedita alla prostituzione, ed anche il suo pianto, la sua rabbia e la sua impotenza mentre urlando chiedeva di vivere e di essere libera, senza che nessuno però l'ascoltasse.

In una lettera alla Regina Isabella II Padre Serra racconta:

«Signora, mi cade la penna di mano al ricordo impressionante di quelle giovani che, dopo essersi sinceramente pentite, sono costrette a ritornare ancora sulla strada del vizio».

 

Nella Madrid dell'epoca la prostituzione era aumentata. Per cercare di contenerla erano state promulgate delle leggi barbare ed inuma­ne: la prostituta poteva essere fermata in qualsiasi luogo e momento e condotta in prigione per il periodo di tempo che si giudicava conveniente. C'era quindi molta repressione, ma quanto a soluzio­ni, nessuna.

 

La prigione in quegli anni si trovava nella via Ancha de San Bernardo, nell'ex convento benedettino di Monserrat. Mesonero Romanos la descrive così:

«Serve per rinchiudere e correggere le donne di strada».

Che ironia, specialmente per il benedettino Padre Serra!

Quelle che si ammalavano venivano portate all'ospedale di San Giovanni di Dio destinato a ricevere i malati affetti da ogni genere di malattia venerea, secondo Mesonero.

L'ospedale si trovava al numero 60 della via Atocha. Era stato fondato dal venerabile Anton Martin nel 1552, che lo aveva ceduto ai Fratelli di San Giovanni di Dio, ed aveva un chiaro scopo benefico: accogliere i malati poveri e contagiosi della città. A quell'epoca disponeva di sei reparti per gli uomini e quattro per le donne: uno per le malattie veneree, uno per le cutanee, uno per la scabbia ed uno per le convalescenti.

Padre Serra vi si reca con frequenza. Ha cinquantaquattro anni e da due si trova a Madrid. Egli stesso afferma che si sente vecchio. A quell'epoca un uomo della sua età lo era, specialmente dopo essere vissuto in climi così differenti ed in continue tensioni.

E' povero, molto povero. Il Vaticano gli aveva concesso alla fine una piccola pensione come vescovo dimissionario e vive di essa, quando non la distribuisce ai poveri. Ma non si lamenta, al contra­rio. Sa bene che la via del Vangelo si percorre meglio quando si è leggeri di equipaggio, ed a lui manca ancora molto da camminare... Appena giunto a Madrid si era sistemato nelle Scuole Pie di San Fernando. Nessun palazzo, bensì una scuola. Ora che non possiede nulla, né diocesi né parrocchia, dispone di molto tempo per prega­re, confessare e fare catechesi.

Prega intensamente. Gli piace entrare all'interno di sé, nel più pro­fondo del cuore, chiudere le porte e parlare con il Padre. Sì, ha un cuore di mistico.

Ama la catechesi e la confessione: celebrare il sacramento dell'in­contro e della misericordia gli sembra la proiezione più evangelica del vescovo e del sacerdote, perché è prolungare l'abbraccio del Padre che riceve, accoglie e fa sedere alla sua mensa imbandita a festa il figlio che torna a casa.

Un vescovo così è molto benvoluto. Lo chiamano da tutte le parti, ma lui sceglie il servizio ai più poveri: le ragazze delle adoratrici, le Conferenze di San Vincenzo, le Scuole Domenicali. Egli stesso lo racconta con incredibile semplicità:

«L'aristocrazia di Madrid si occupa molto delle Scuole Dome­nicali, dove le ragazze povere vengono istruite ogni domeni­ca a leggere, scrivere e fare i conti, oltre che nel catechismo. Qui, a San Fernando ne abbiamo una... Stavano per trasfe­rirla perché non si trovava un sacerdote che la accudisse. Io mi sono offerto di riempire questo vuoto...».

 

Ed il vescovo rimane li a supplire un cappellano. Più semplicità di questa non ci poteva essere.

All'Ospedale di San Giovanni di Dio vi si reca per assistere e confessare le prostitute ammalate e moribonde. Il posto è arido e deprimente. E' un luogo di morte. Eppure è li che egli riesce a scoprire la presenza avvolgente del Risorto che chiama alla Vita e, ancora una volta e sempre, invita alla sua mensa i peccatori e le prostitute:

«Molte volte, visitando nelle corsie dell'ospedale di San Gio­vanni di Dio quelle donne infelici, che pagano con una malattia vergognosa i disordini della loro vita, sono stato testimone di manifestazioni di pentimento che non posso non giudicare veritiere. Quale Ministro del Dio di bontà, al riconciliare le giovani indurite dal vizio con quel Signore che non venne a cercare i giusti ma i peccatori, sono stato spesso depositario di desideri che ho giudicato sinceri. E così, cre­dendomi obbligato ad imitare l'esempio del Buon Pastore, volli caricare sulle mie spalle la pecora smarrita, e fui io stesso molte volte a bussare di porta in porta, chiedendo che venisse accolta in quei luoghi destinati ad offrire uno spazio d'accoglienza al pentimento. Ma tutto fu invano. Non vi riu­scii». (Lettera alla Regina, 11-VII-1864).

 

E' in quei momenti che il vescovo, povero e stanco, prende una decisione chiara e liberatoria, grazie alla quale trasmetterà gioventù e speranza ad un innumerevole stuolo di donne lungo il corso dei secoli: aprire una casa di accoglienza dove possano: «trovare ospita­lità le donne di vita disordinata che, decise a cambiare vita, non sono state ammesse in nessuna delle altre strutture di analoga istituzio­ne esistenti nella città».

 

L'idea non era nuova, ma lo stile e l'ampiezza del servizio umano ed evangelico riservato alla donna emarginata, si. Egli voleva che in questa sua casa trovassero posto le donne ammalate e rifiutate da tutte le altre strutture, quelle che nessuno accettava...

Un pomeriggio di Pasqua del 1864, Padre Serra invitò Antonia a fare una passeggiata per le strade di Madrid, che a quel tempo non era che un immenso villaggio povero e malfamato. Era appena tornata da Roma e sognava più che mai la missione ed il servizio del Vangelo, senza sapere esattamente in che maniera realizzarli. Le carmelitane le avevano detto di no, perché il suo posto era nel mondo. Sì, d'accordo. Ma dove?

Accettò l'invito del buon vescovo. Sicuramente aveva sentito il desiderio di parlarle della sua tanto amata Australia, così vicina e così lontana, di quella missione che gli bruciava l'anima...

Uscirono insieme e p. Serra la condusse su una via per lei nuova e scono­sciuta. Egli l'aveva percorsa tante volte nel suo andare e venire dall'Ospedale. Era sporca. Per la prima volta Antonia vide le «sanjuaneras», le donne che prostituivano il loro corpo agli angoli delle vie San Juan, San José, Huertas, Costanilla de los Desamparados, Santa Polonia, Santa Maria, Jesus, La Berengena...

«Generalmente provenivano dai quartieri malfamati come il Barquillo, un sobborgo costituito da miserabili ammassi di case, orti spaziosi, recinti, mulini, macine e fonderie, anche se non poche giungevano dalla provincia e da città lontane».

 

Erano tempi tristi, tempi di crisi, di fame e di esplosione demografica. Tempi di peste, di rivolte come quella cubana, e di guerre come quella dell'Africa. Erano i Vespri della notte di San Daniel... Per questo, erano diventate più numerose le «sanjuaneras» agli angoli delle strade...

Provò disgusto e repulsione, come ella stessa disse. Era troppo per lei, passare dalla corte e dai salotti di Roma e dei palazzi vaticani, a questa Madrid disordinata e sporca dove questo pomeriggio il vescovo l’aveva condotta a passeggiare. Ma p. Serra le parlava in continuazione per distrarla e inquietarla, per lasciare che s'impregnasse di emarginazione...

In quel pomeriggio, indimenticabile e caldo di tanta amicizia, p. Serra le rivelò il suo progetto a partire dall'esperienza dell'Ospedale. Antonia parlò molto poco! Era troppo impressionata da quello che vedeva e dalle parole semplici, evangeliche ed energiche del suo amico, il povero vescovo:

Antonia, aiutami, ho bisogno di te. Io non ho ritenuto estra­neo al mio ministero, né indegno della posizione che occupo nella Chiesa, avvicinarmi alla prostituta ed invitarla alla mia tavola... No, non l'ho ritenuto indegno perché significa ripetere lo stesso gesto di Gesù...

 

Quando Antonia tornò a casa era già scesa la notte su Madrid. Si sentiva inquieta e turbata. Anche un po' contrariata con il vescovo. Era andato un po' troppo lontano col suo progetto ed invito. L'indoma­ni, di buon mattino, Antonia gli parlò di un suo piano alternativo. Era più semplice: aiutare senza sporcarsi.

 

Antonia si mise a letto, ma non potè riposare. Le parole del suo amico continuavano a martellargli in testa. Soprattutto quelle che riguardavano l'amata del Cantico dei Cantici:

«Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa, in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio» (8,7).

 

Per la prima volta Antonia intuì la missione della sua vita: gli veniva chiesto di accogliere l'amore nella sua casa perché niente e nessuno infrangesse il suo mistero e profanasse il suo incanto con lo sfrut­tamento...

Nelle prime ore del mattino si assopì un poco. Al risveglio, vide con sorpresa che i mandorli della Pasqua erano fioriti nella vecchia Madrid. Cominciava a sbocciare la primavera... E si mise a scrivere....

 

La primavera del 1864

 

 

La primavera del '64 fu la più importante della sua vita. Fu la primavera della conversione radicale a Cristo e ai poveri. Le costò. Fino ad allora aveva vissuto l'esperienza di Dio come bellezza un poco disincarnata. Era il Dio santo per la sua grandezza, che dimo­rava nel tempio, nel monastero, nell'amore... Non è strano. La sua vita si era realizzata a contatto con la nobiltà di sangue blu, distante e asettica.

 

Scriveva a proposito della settimana santa in Madrid:

«Per non parlare poi della pompa solenne e della ricchezza di ornamenti nella celebrazione dei santi misteri presenziati dai cavalieri dei quattro Ordini militari...».

 

A Roma avevi avuto la stessa esperienza. Eri rimasta attonita di fronte alla sontuosità delle cerimonie vaticane ed avevi creduto di vivere l'esperienza del Dio immenso:

«Sua Santità si presenta in grande gala per la messa solenne, con un corteo così maestoso ed abbagliante che non si può fare a meno di emozionarsi».

 

La tua seconda esperienza di Dio si realizza nell'amore umiliato, nell'incontro con coloro che vivono la gioia profonda delle Beati­tudini, come figli con il Figlio, a contatto con l'incarnazione. E' il cambiamento radicale.

Padre Serra le chiese di collaborare con lui nella creazione della prima casa d'accoglienza. Si trattava di raccogliere le prostitute malate che affollavano l'ospedale di San Giovanni di Dio, e far loro trovare un luogo caldo in cui vivere.

 

NON accettò!

 

Non poteva essere certa la presenza del mistero di Dio in quella debolezza e povertà prive di ogni spiraglio di luce. No, lì non poteva trovarsi la luce. Dovevano pur esistere altre vie più pulite per l'incontro con Dio e per mettersi alla sequela di Gesù. Così, comunicò il suo rifiuto a Padre Serra giustificandolo con le seguenti ragioni:

 

Prima:  Come la prenderebbero a Roma?

Certamente male, in que­sto aveva ragione. Non sta bene che un vescovo si avvicini al fango e ancor meno che si macchi con la povertà o si comprometta con l'emarginazione.

 

Seconda: La Regina si sta adoperando per trovarLe una sede. Come reagirà ora di fronte a questa sua scelta?

Antonia sapeva che la Regina era la meno indicata per dare un giudizio a riguardo. La sua corte non era affatto un modello di pulizia e di rettitudine, a prescindere dall'ipocrisia delle forme solo apparente­mente pulite. Comunque, presto saprà cosa ne pensa... Conoscerà, suo malgrado, la sua avidità e si sentirà defraudata. Credeva forse che la corte pensasse conformemente al Vangelo? No, il suo vangelo è e resterà sempre il potere...

 

Terza ragione per rifiutare:

«Non deve farsi coinvolgere in questa faccenda; forse si è già spinto troppo lontano recandosi all'ospedale San Giovanni di Dio. Vostra Eccellenza ed io possiamo lavorare in modo indiretto. Io darò il mio denaro e farò tutto ciò che posso per loro, sebbene mi disgustino. Ho parlato con i miei zii e si oppongono decisamente. Dicono che Vostra Eccellenza po­trebbe governare una diocesi e il mondo intero, e non sta bene che si abbassi a trattare direttamente con quella cate­goria di donne».

 

Questo era il suo argomento definitivo:

«non sta bene, non è saggio trattare direttamente con quella categoria di donne. In altre parole, voleva dire: è ripugnante».

 

Aveva ancora molta strada da percorrere prima di giungere ad iden­tificarsi con esse e vedere nella loro povertà il sacramento luminoso della presenza di Cristo. Al momento, cerca di convincere il ve­scovo che si tratta di un cammino troppo sporco, sia per lei che per lui. E difende con accanimento la sua posizione. Ci mancava solo che l'istitutrice delle infanti di Spagna si vedesse coinvolta con quella categoria di donne!

 

Perché s'impegnava tanto a difendere un mondo, quello della corte, che non era affatto il suo? Eppure aveva rifiutato di inserirsi in esso, aveva rinunciato al matrimonio con un marchese, aveva detto di no al segretario particolare della Regina, addirittura stava pensando di entrare in un convento di carmelitane... Cosa le succede adesso? La verità è che difendendo quel mondo le sembra di difendere se stessa. La verità è che ha paura.

L'alternativa che le si presenta è molto radicale, e non ha il corag­gio di viverla secondo la radicalità del Vangelo, almeno in un primo momento. Per questo propone a Padre Serra soluzioni alter­native più comode: aiutare indirettamente, dare soldi, cercare dei fondi; in definitiva gli chiede di agire dal di fuori. Dal di dentro, no. Migliorare la loro situazione, va bene; ma quanto a lasciare tutto, tagliare i ponti con quanto aveva finora conosciuto ed immergersi nel loro mondo fino a sporcarti con esso, questo mai.

Pensava ancora che il mondo si potesse migliorare. Non aveva sco­perto che Gesù non ci chiama a costruire un mondo migliore, bensì uno differente. Non capiva ancora che l'uguaglianza e la dignità delle persone emarginate non si ottengono facendo diminuire l'in­giustizia o lo sfruttamento, ma distruggendo il loro potere e la loro ragione di esistere, creando comunità in cui ogni cosa e messa in comunione, senza che esista né mio né tuo, vivendo la fraternità (Atti 4,32).

 

Tutto questo lo scoprì insieme a Maria di Nazaret. Fu nella pri­mavera del 1864, una bella e limpida sera di aprile. Nonostante il suo rifiuto, Padre Serra insistette nel chiederle di fare il salto nel vuoto, e l'invitò a pregare e discernerlo davanti alla Madonna del Buon Consiglio, nella chiesa di Sant'Isidro.

Ci andò, e ciò che accadde in quei momenti fu illuminante. Sco­prì la luce, una luce nuova che sorgeva dalla debolezza di Maria. Percepì una voce che la disarcionò dal cavallo della religiosità benpensante e si ritrovò, scalza e povera, sulla via della sequela.

Le sembrò di udire queste parole: «Colei che non vuole ascoltare il consiglio di una madre non è una buona figlia»!

 

Ma lei lo voleva! Lo aveva sempre voluto, ma a modo suo. Adesso le veniva chiesto di più, molto di più. E scese ad ascoltare più nel profondo. Si mise nella stessa disposizione di Maria, quella del servizio, del distacco, dell'apertura gioiosa al mistero e alla Parola per accoglierla pienamente.

E come Maria, nel profondo della sua vita, scoprì che la Parola la chiamava ad una scelta estrema e radicale, ad identificare la sua vita con un Cristo che è «contraddizione» perché siede alla mensa dei pubblicani e dei peccatori, annuncia un regno per i poveri, si lascia profumare, toccare e baciare da una prostituta che tanto ha saputo amare, e la vuole come prima testimone della sua risurrezio­ne....

 

Questa nuova maniera di vedere il mondo, con la freschezza di un limpido mattino di Pasqua, glie la insegnò Maria di Nazaret, l'umile serva del Signore, la madre di un condannato e giustiziato. E, come lei, disse sì. E scoprì, con sorpresa, che coloro i quali si limi­tano a vedere il sacro in ciò che è grande, distante, freddo e ceri­monioso, non prendono sul serio l'incarnazione: Il santo che da te nascerà sarà chiamato Figlio di Dio (Lc 1,35).

 

Ma il Figlio di Dio era stato rifiutato, emarginato, crocifisso fuori dalla città santa, perché il suo sangue non la macchiasse rendendola impura... Che ironia! Adesso Antonia comprendeva che conoscere il Figlio e farsi figli significava entrare in un processo di umanizzazione e d'incarnazione nel debole, nel fango, e non nelle stelle...

Questa fu la sua conversione: scoprire, sorprendentemente, che il Dio fatto uomo in Cristo si trova negli ospedali, nelle brutture, nella prostituta, nella strada, nelle case di tolleranza e nel dolore infinito di coloro che soffrono.

 

Soltanto adesso trova il cammino limpido che cercava, la via segna­ta dal richiamo del Cristo povero e della donna malata, rifiutata e vinta... E finalmente si sentì davvero felice. Scrive:

«Sono contenta, e così sicura che Iddio mi ha chiamata a questa opera, così tranquilla nella mia vocazione, che il mio unico desiderio è di esserle fedele...».

 

Esserle fedele! D'ora in poi, vivere la fedeltà sarà per lei riempirsi di tenerezza e contagiare con l'amore coloro che non sono mai state amate.

Ed ancora, svuotarsi di se stessa per lasciarsi riempire dalla grandezza intatta della donna emarginata...

Insieme al Padre Serra si mette alla ricerca di una casa e la trovano a Ciempozuelos. Il primo giorno di giugno entra in quella che sarà la prima di numerose case d’accoglienza per le prostitute e che si chiamerà «Nostra Signora della Consolazione». E' molto piccola e povera, ma le sue porte sono completamente spalancate.

Dopo sette giorni arrivano le prime due donne, una francese e l'al­tra spagnola. Vengono dalla strada, dove cercavano di comprare l'amore...

 

Ciempozuelos

 

Antonia giunse a Ciempozuelos nella primavera del '64, con gli occhi ancora inondati della luce che le aveva regalato a piene mani la Santa Vergine del Buon Consiglio. Ciempozuelos era un piccolo villaggio, distante da Madrid circa 30 chilometri. La distanza giu­sta. Così le ragazze sarebbero state sufficientemente lontane dalla città, dalla strada e dal luogo del loro sfruttamento, per vivere tranquille e intraprendere la via dell'incontro con la loro originaria grandezza.

Il villaggio si adagiava su una piccola collina le cui pendici si stendevano fino alla valle dei fiumi Jarama e Tajuna. Le piacque.

 

«L'opera iniziò e continuò nella più grande povertà in una casetta presa in affitto che presto divenne troppo piccola».

 

In povertà totale, in affitto. Così nacque Colui che fu avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, perché non c'era posto per lui nell'albergo (Cfr Lc 2,7). Così è vissuto Colui che non aveva dove posare il capo (Cfr. Mt 8,20).

L'inizio è buono: sa di Buona Novella, di Vangelo, di Beatitudini... Per questo nella sua casa è possibile il calore e la tenerezza, e per questo divenne in poco tempo troppo piccola. Ne trovò un'altra più grande: era vecchia, inagibile ed economica, un'ex convento mezzo diroccato. Lo restaurò e diventò un gioiello.

«Le ragazze andavano aumentando, le elemosine affluivano, ed il Signore benediceva visibilmente quell'opera che tanto umilmente era iniziata».

 

Tutto sembrava filare col vento in poppa, quando un giorno, il 4 marzo del '69, un incendio divorante ridusse in cenere la chiesa e la parte superiore della casa. Dovette ricominciare quasi da zero. Questa volta, però, accanto alla povertà e alla distruzione, c'è anche la solitudine. Padre Serra è andato a Roma dove è iniziato il Con­cilio Vaticano I e per diciotto mesi dovette rimanere completamente sola, con un gruppetto di ragazze emarginate. Ma è precisamente, nella solitudine e nella povertà, che nasce piccola, bella e indifesa, una comunità nuova, la comunità delle Oblate del Santissimo Redentore:

«Il 2 febbraio 1870, quando il nostro divin Redentore si offriva nel tempio per la salvezza del mondo, senza cerimonia alcuna, ma colma di gioia celestiale, Antonia Maria della Misericordia, vestiva, con una sola compagna che in seguito l'abbandonerà pure, il povero e semplice abito religioso color cenere delle Oblate del Santissimo Redentore».

 

Quanto era diverso dall'ambiente della corte! E' la rottura definitiva con tutta una maniera di vivere, certo; ma soprattutto è la decisione d'iniziare un cammino nuovo d’incarnazione e identità con la donna povera, sfruttata ed umiliata del secolo XIX. Da istitutrice delle figlie della Regina a compagna di viaggio delle prostitute!

 

L'infante Cristina, che le voleva tanto bene, ricordava che per starle più vicina Antonia aveva imparato a cavalcare. Ora, per restare vicina alle prostitute, fa un salto nel vuoto, scende a terra e si veste di sacco e di cenere, scalza e povera come loro, perché crede in loro e sogna la loro liberazione.

 

Un giorno, proprio mentre si trovava sommersa dagli impegni della fondazione, Antonia ricevette un invito speciale da Isabella II:

Antonia: «da tempo desidero regolarizzare l'istruzione delle mie care figlie in una maniera che mi soddisfi, e per questo ho pensato che nessuna meglio di te possa esaudire il mio desiderio... Spero, dunque che vorrai occuparti dell'educa­zione delle infanti, mie figlie, e confido che farai il sacrificio di abbandonare l'opera a cui ti sei consacrata per soddisfare la mia richiesta» (Parigi, 1871).

 

Abbandonare? Assolutamente no! Le rispose che non è una que­stione di sacrificio, è oblata e di sacrificio se ne intende. Per sacrificio, si farebbe qualunque cosa. Ma in questo caso si tratta di libertà e lei non ne hai più; si tratta d'amore e lo ha già consegnato tutto; e si tratta ancora di servizio al Vangelo e questo la incatena oltre se stessa: «Ormai non mi appartengo più, sono la schiava dei poveri...».

La Regina capì:

«La tua risposta mi addolora; ma comprendo che nella scelta tra Dio e me non è ammissibile esitazione alcuna» (Parigi, 1871).

 

Esatto, Maestà, non è ammissibile: le prostitute sono il sacramento di Dio per noi oblate.

Quello che non sopportava era che qualcuno le preferisse alle tue ragazze. Il sindaco di Ciempozuelos tentò di farlo alcuni anni dopo. Egli le comunicò un verbale zeppo del più radicale sapore liberale:

«non deve essere ammessa nel suo Centro nessuna persona che non abbia i dovuti documenti». E fu imperterrito.

 

Quali documenti dovrebbero esibire quelle sventu­rate? L'amministrazione le fornisce unicamente del «titolo» di pro­stituta, che chiude loro definitivamente tutte le porte.

Ecco cosa risponde Antonia:

«Le dirò che il suo provvedimento manderebbe a rotoli la finalità della fondazione, che giustamente cerca di accoglie­re le ragazze che, non avendo nessun documento, dovrebbero dedicarsi al vizio contro la loro volontà, se la Religione e la carità non aprissero loro le braccia... La sua minaccia è la prima che ricevo nella mia vita ed è priva di ogni fondamen­to, ma se Lei vuole portare in carcere tutte le sessanta per­sone che vivono nella casa, siamo pronte. Così per alcuni giorni mi risparmierà la preoccupazione di provvedere al loro cibo».

 

 

La mendicità come identità totale con i poveri

 

Fin dal principio Antonia stabilisce che nella sua casa tutto sarebbe stato gratuito. Ben presto, però, si rese conto che con questo tipo di economia non si poteva vivere; o meglio, si poteva, ma bisogna armarsi di coraggio e di una fede immensa nella Provvidenza. Anche in questo, si giocò il tutto per tutto e cercò di imitare Gesù nella sua limpidezza:

«Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo? E il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre... Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,25-33).

 

La Provvidenza! Com'è diverso il suo modo di viverla rispetto al nostro! Per lei la Provvidenza è donare; per noi, ricevere. Per te è collaborazione, per noi soluzione. Per te è sicurezza, per noi sfidu­cia. Chiediamo a Dio di risolvere i nostri problemi e poi, quando lo ha fatto, riposiamo tranquilli senza neppure ringraziarlo, perché alla fine siamo convinti che lo sforzo l'abbiamo fatto noi. Atonia scrive:

«Quando ci manda persone nuove è segno che ci manderà anche il pane. Riceviamole con affetto. La ragazze sono la grazia di Dio».

 

Un giorno, uno dei tanti, a Ciempozuelos c'era fame. Non aveva pane, e le bocche da sfamare erano tante. E arrivò una ragazza nuova. Che fare? Per lei era chiaro:

«In questa casa ci sarà sempre un posto per le ragazze. Quan­do non ci saranno più letti, prendano il mio materasso».

 

Il Padre Serra era più pessimista: «Il posto c'è, ma non abbiamo pane». Fu in quel momento che Antonia si offrì di chiedere l'elemosina:

«Bene, padre, se non c'è pane, lo chiediamo».

Prense un sacco, se lo buttò sulle spalle e uscì in cerca di pane. Dopo diversi giorni, ritornò col sacco pie­no. C 'era pane per tutte.

 

Nelle sue “Costitu­zioni” si trova scritto:

«Per il sostentamento delle vostre case di accoglienza e per tutto quanto occorra affinché si possano salvare molte anime, non dovete turbarvi ed inquietarvi. Limitatevi a fare tutto ciò che da voi dipende ed abbandonatevi per tutto alla volontà di Dio, con totale fiducia. Non è lui che nutre gli uccelli del campo? Quanto più si occuperà di un 'opera che è sua».

 

Mendicare! E' in questo gesto che si manifesta la sua opzione più forte a favore dei poveri. Crede in loro, si fa povera come loro, fino alla mendicità. E ancora, per lei e per le sue comunità, chiedere l'elemosina affinché possano vivere degnamente le ragaz­ze che si prostituiscono, è certamente, la forma più pulita e profetica di affermare la loro grandezza di fronte allo sfruttamento. Questa è la vera oblazione.

Confidare nella grandezza della donna e negare al denaro il suo carattere idolatrico, significa rifiutare il culto del potere, del poten­te e dello sfruttatore; significa affermare, alla radice, che l'ordine di questo mondo è già stato condannato nella croce e nella morte e Risurrezione. Esso è stato soppiantato da un mondo nuovo, con nuovi valori: l'amore, l'offerta di sé, il servizio, l'amicizia.

«Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).

 

Accettando di chiedere l'elemosina non solo si fa povera come la prostituta, ma vive anche come lei, di elemosina. Identità totale. Era cosciente che soltanto mettendosi al loro livello ella sarebbe stata credibile e quindi accettata.

Il suo gesto di tendere la mano e chiedere, per amore, un pezzo di pane da condividere con la donna alla quale tutto è stato negato, sa davvero di Lieto Annuncio. Sa di pace, di semplicità, di sorpresa e di creatività: la creatività di condividere tutto col fratello senza mai abusare di lui, anzi potenziando sempre le sue capacità.

E' il prolungamento della creatività della croce. Non è credibile che Dio si offra fino a quel punto, appeso ad un legno, in povertà suprema. E' troppo grande il dono che ci offre. E' troppo l'amore dello Spirito che abbondantemente sgorga dalle ferite di Gesù. L'utopia si fa verità e realtà suprema, perché in quelle sue braccia tese realizzò, in pienezza, il suo essere per gli altri donandosi al Padre ed ai fratelli. E ne uscì sangue e acqua (Gv 19,34). Cioè la vita.

 

La mendicità non è per Antonia installazione in un'attività, e neppure evasione da una qualche realtà, al contrario: è un processo di espropriazione personale e comunitaria che porta lei e ciascuna oblata a divenire proprietà e possesso degli altri: del Padre, del Figlio, dello Spirito e della donna emarginata. Campo da lavoro e vigna del Regno.

L'oblazione come fecondità... L'oblazione di Cristo e della donna oblata, perché entrambi rappresentano l'affermazione dell'Altro, come valore supremo e rinnovazione costante della Vita...

«Dio sa bene che non desidero altro che la gioia di tutte le mie figlie. Una gioia santa, tutta di Dio, che non cesserete di sentire, nonostante le prove, se saprete dire amen a quan­to dispone Gesù, nostro amore, nostro modello, che volle nascere e morire in tante amarezze. Si prova tanta gioia, e gioia vera, quando si soffre per Lui, in unione col suo sacri­ficio...».

 

«Cerco aiuto e protezione per le mie povere ragazze, alle quali vogliono togliere il pane che con tanta fatica e dispia­ceri era stato loro assegnato in un primo momento. Ricevo continuamente dinieghi e insulti e solo qualche volta una parola di speranza. E quando sfinita, digiuna, con i piedi gonfi, e la testa che mi gira, torno a casa per mangiare qualcosa e soprattutto per raccogliermi finalmente a prega­re, dopo aver tralasciato di farlo per tutto il giorno, l'unica consolazione che mi resta è la certezza di aver sofferto e lavorato in comunione col nostro divino Gesù per salvare le anime».

 

La famiglia redentorista

 

La sua opzione per la grandezza e la debolezza della donna povera l’aprì pienamente alla famiglia redentorista di Alfonso de Liguori. Anch'egli aveva scelto di essere povero. Affascinato dal Vangelo di Gesù di Nazaret, si era spogliato di tutto e si era incamminato con crescente fermezza sulla via delle Beatitudini. Prima verso l'Ospe­dale degli Incurabili; poi verso il carcere, i sobborghi, ed infine verso le montagne povere e assolate dell'Italia meridionale, quella parte d'Italia sempre irredenta.

Lasciare tutto per donarsi totalmente fu la risposta di Gesù allo Spirito: «Mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per an­nunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4,18). Per questo rimase con loro, celebrando la sovrabbondante redenzione dell'amore e della liberazione.

Antonia fu redentorista per Carisma e per amicizia: la chiamata della donna emarginata e la sincera gratitudine. Nell'anno 1867, P. Mauron, Superiore Generale dei Redentoristi, le scrisse ricordando la loro vecchia amicizia e la loro comunione. Era nato in Sviz­zera come lei. Si erano conosciuti a Friburgo, in momenti difficili. D'allora, ogni volta che andava a Roma, accompagnando la Regina Governatrice, si recava a visitarlo. Con più frequenza nei due anni trascorsi a Roma dopo aver lasciato la Casa Reale.

Certo è che ora sa stare a suo fianco. Le offre tutto ciò che ha, far parte della Famiglia Redentorista, divenire Oblate del SS. Redentore. Antonia accettò con molta gratitudine, e da quel mo­mento tutto si rese chiaro e limpido per lei: Oblata, Redenzione, Poveri...

I più poveri! Costruire il Regno di Gesù a partire dalla scelta per la grandezza e la debolezza del povero, è aprirsi alla luce e fidarsi unicamente della forza dell'amore:

«Non ha forse Dio scelto coloro che sono poveri nel mondo per renderli ricchi nella fede ed eredi del regno promesso a quanti lo amano?»

 

E dice ancora:

«Voglio che vedano nelle prostitute l'immagine del nostro Divino Redentore».

 

Sono parole forti e crude: la prostituta come immagine, sacramento e trasparenza di Gesù.

Il volto del povero, l'accoglienza del povero, sono l'affermazione della presenza del trascendente nella storia. Il povero è colui che denuncia la nostra cattiva coscienza, ed elimina in noi una religiosità alienante e vuota, perché rifiuta ogni tentativo di strumentalizzare Dio e di trasformarlo in oppio, evasione, ideologia o tentazione del potere: il povero è reale, sta lì, non ha forza, non è potente, non sfrutta, è sfruttato, ed urla e pretende la sua liberazione.

Per Antonia, annunciare la liberazione, e celebrare la sua venuta, significa uscire per le vie e sulle piazze della città, invitando alla Cena le donne che vivono agli angoli delle strade perché non hanno un tetto. Quando tutte saranno sedute alla mensa si potrà dividere il pane e celebrare l'Azione di Grazie.

L'Eucaristia come presenza ed alimento, e la donna emarginata come immagine e partecipante alla Mensa, sono il centro della tua comunità. Per questo, la comunità nel cui interno si celebra ed accoglie con la stessa profondità il sacramento dell'Eucaristia e il sacramento della donna che si prostituisce non può essere una co­munità borghese, costruita sugli schemi della dominazione. E' in­vece una comunità evangelica: in essa si celebra la forza di Gesù che dona la sua grandezza alla donna emarginata e che riceve da essa la sua debolezza per trasformarla in pienezza d'incarnazione e risurrezione. Per questo le comunità delle oblate rappresentano il rifiuto radicale di ogni genere di abuso:

- rinnegano le basi di una società che esercita il dominio dell'uomo sulla donna, e la riduce al livello di amante o prostituta, negandole l'uguaglianza come persona.

- rifiutano gli ideali liberali e borghesi, perché non accetti la loro visione utilitaristica della persona: vali tanto quanto possiedi...

Queste attitudini ti sembrano inumane e anticristiane:

«Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della Gloria» (Gc 2,1).

 

- Negano alla radice l'annuncio del Regno e svuotano del loro con­tenuto le esigenze cristiane.

 

Così Antonia si apre alla Famiglia Redentorista ed essa riceve lei e la sua comunità. L'oblazione e la misericordia insieme per celebrare l'amore fatto redenzione: Che nome tanto bello e proprio della nostra missione!

In questa nuova famiglia apprende che la sua missione è quella di portare la luce e la liberazione agli occhi tristi e stanchi della donna percossa: era la più povera e per questo la più amata dal Padre, da Gesù, da Alfonso de Liguori, da lei stessa e da Padre Serra.

 

Amica della vita

 

Antonia, era stupore, contrasto e provocazione. Sicuramente la sfida più rivoluzionaria della Chiesa spagnola del secolo XIX. Lei stessa lo esprime nella stesura delle Costituzioni che propone alle sue fi­glie ed a lei stessa.

«L'istituto delle Oblate del Santissimo Redentore è stato fon­dato unicamente affinché le sorelle che lo compongono rea­lizzino la propria santificazione, accogliendo, istruendo e promovendo le donne emarginate, aprendo per esse dei centri gratuiti dove possano essere accolte senza restrizione alcu­na. Nessuno, mai, potrà aggiungere un'altra qualsiasi opera, anche se caritatevole, che distragga in qualche modo le suo­re da questo fine unico del loro Istituto e della loro vocazio­ne».

 

 

Ci vuole audacia evangelica per assicurare che la propria santificazione si realizza a contatto con la prostituzione. Ho l'impres­sione che questa sfida non era mai stata proposta così chiaramente.

La Chiesa la raccolse, cosciente che in questo modo avrebbe potuto recuperare gli atteggiamenti più profetici del Lieto Annuncio che Gesù di Nazareth ci aveva portato. Non era stata lei a dire che la prostituta è la negazione di tutto il pulito e che la sola sua vicinan­za contamina? Certo, ma è precisamente questa la tua provocazione evangelica: convincerci che non è così e che dobbiamo sforzarci di rompere i nostri schemi anticristiani per imitare la generosità e la tenerezza di Gesù.

 

Per Antonia, l'oblata è la donna che crede nella donna e perciò crede in Dio, non il contrario. Questa è la sua prima «provocazione», espres­sa sotto forma di rifiuto della religiosità alienante. La donna rifiu­tata diventa così sacramento di salvezza, trasparenza di Dio che nessuno ha visto, ma che tu credi presente nel fratello più povero:

«Lo avete fatto a me».

L'angolo sporco e buio nel quale soffre e lavora la donna oltraggia­ta diventa un luogo privilegiato d'incontro col mistero e di invito al banchetto del regno:

«Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi» (Lc 14,21).

 

Antonia, nella sua pienezza di donna e nella sua radicale femminilità ci rivela il mistero della santità in una maniera così vicina e bruciante.

Noi uomini ci eravamo costruiti un Dio lontano; avevamo detto che Dio non si poteva toccare. E allontanandolo dalla vita gli abbiamo negato il diritto di rimanere in mezzo a noi, di camminare per le vie della nostra città e di macchiarsi col nostro fango...

Coloro che pensano che l'incontro con Dio e il suo Cristo sia evasione dal reale, trovano in Antonia una controprova. Coloro che imma­ginano che la sequela di Gesù si realizzi fuggendo, allontanandosi dall'emarginazione non potranno capire la sua offerta evangelica. Ella sa che l'opera di Dio non è una questione religiosa, ma umana:

Dio scommette sempre a favore dell'uomo. Queste sono le sue meraviglie e la sua verità.

 

Con Antonia la casa religiosa cessa di essere solo il posto riservato alla donna consacrata alle cose divine, alla donna pulita che si apre alla fecondità spirituale, per diventare, anche, il luogo in cui abita la donna ferita e umiliata, la cui fecondità si misura in denaro e la cui maternità è ripudiata dalla società e dalla cultura ufficiale...

Roma lo capì perfettamente quando approvò la sua opera con questa solenne dichiarazione:

«Tra le pie associazioni che per la misericordia di Dio, si sono stabilite nel nostro tempo... occupa sicuramente il pri­mo luogo la Congregazione delle Oblate del Santissimo Redentore. Il fine speciale dell'opera è quello di accogliere con tutta carità le donne di qualsiasi età o condizione che sono decise a trasformare la loro vita».

 

 

Roma, compiaciuta della sua offerta, le fece delle proposte che ella accettò. Per questo, nella redazione finale delle costituzioni definitive del suo gruppo, concorderà che non si chiamino regole, è troppo severo... E le suore non saranno chiamate religiose, risulterebbe freddo e un po' distante per la donna emarginata… meglio sorelle, è più caldo. La santità si nasconde in ciò che è piccolo e vicino. Roma l'aveva capito perfettamente e la spingeva a viverlo in comunione e comunità. Così era bello...

 

Padre Serra aveva intuito il problema, è vero; ma si era subito accorto che la soluzione doveva venire da una donna, non da lui. Ed offrì ad Antonia di trovarla. Ella accettò e diede al tutto un tocco di originalità femminile, fondandosi sull'impegno serio e radicale con la donna, e sulla lettura attenta e profonda del Vangelo e degli atteggiamenti di Gesù.

Non si trattaya solo di rigenerare la donna caduta, come si diceva allora; e nemmeno di toglierla dalla prostituzione. Vi era qualcos'altro. Si trattava di ottenere che la donna sfruttata credesse in se stessa, scoprisse la sua grandezza e si negasse a ogni tipo di emarginazione. E per raggiungere tutto ciò era necessario rompere il cerchio di ferro dello sfruttamento e metterla in una situazione nuova di libertà e di tenerezza.

In un primo momento, la proposta di Padre Serra e tua non sem­brava si potesse attuare. Prima di loro, molti altri avevano ripetutamente tentato, e sempre con insuccesso. Perché? Non sap­piamo dirlo con certezza, ma potremmo indicare come causa il distacco, la freddezza, la mancanza di femminilità. Forse perché le consacrate d'allora assumevano atteggiamenti maschili con la don­na, che veniva continuamente umiliata proprio dalla violenza del­l'uomo. Antonia sapeva che tutto ciò si poteva risolvere con una mag­giore presenza femminile avvolta in un mare di tenerezza.

Certo, la loro idea non era del tutto originale. Ci aveva già pen­sato, alcuni anni prima, una suora, Madre Sacramento. Ma quello che loro vollero è qualcosa di diverso, di più radicale: accogliere tutte senza limiti, né restrizioni, perfino quelle che erano già state rifiutate sia dalle case di Madre Sacramento che da qualsiasi altro posto.

Infine, altra novità: la sua esperienza di Dio. Antonia percepisce Dio in maniera nuova, puramente femminile. Per questo la sua esperien­za di Dio si fa comunità e fecondità, e non dominio. Si fa tenerez­za, e non violenza; incontro, e non emarginazione; accoglienza, e non distacco; salvezza, e mai condanna.

Offre alla donna una fecondità nuova: rompere le catene della ste­rilità. E' sterile l'emarginazione e l'abuso che l'uomo perpetra sulla donna, perché conduce alla morte. E' sterile la comunità cristiana chiusa in se stessa, che non si apre all'abbraccio ed alla condivisione, che discrimina le persone e rinnega così la comunione. E' sterile la donna che non lotta per la vita e per la liberazione...

 

L'oblazione:  Dio come pienezza umana

 

Fin dal principio fu chiaro ad Antonia che la sua scelta per l'amore non poteva limitarsi ad un'offerta assistenziale, alla pura beneficenza. Questo perché pensava che la beneficenza non elimina le radici dell'indigenza ma le prolunga; e soprattutto, perché la beneficenza a volte non è altro che una maniera di mascherare la mancanza d'amore, e ciò non poteva assolutamente accettarlo. Per aiutare veramente il povero, è necessario rompere il ciclo della miseria e promuovere la persona affinché possa smettere di essere povera, e possa scoprire la sua grandezza e realizzarsi pienamente come es­sere umano.

E' questa la rivoluzione dell'amore: rifiutare gli schemi stabiliti dai quali ha origine l'emarginazione, per andare oltre. Essere oblata significherà donarsi interamente, svuotarsi di se stessi, diventare dimora dello Spirito e lasciare che il Padre e i fratelli prendano possesso di te e di ciò che è tuo. Significherà prendere sul serio il mistero dell'incarnazione e rendere la propria vita una realtà pienamente incarnata: significherà farsi povera e mettere la povertà al servizio dei poveri, per arricchirli inondandoli d'amore senza limiti.

Leone XIII in una delle visite di Antonia le disse: Questa è un'opera di redenzione, più che di carità.

 

Dio si offrì, in Cristo, non solo per divinizzare l'uomo e la donna, ma anche per umanizzarli e liberarli dal peso della disumanizzazione cui li porta il loro peccato. Dio come pienezza umana! Per questo la pienezza dell'uomo si realizza nella donazione totale all'altro, dopo essersi spogliati di se stessi e lasciati riempire dalla gratuità di Dio.

Antonia ha voluto lasciare questa offerta di luce nelle mani della donna emarginata. E' a lei che aprì la sua casa ed è lei che volle servire. Desiderava che riscoprisse così la sua grandezza.

Questa è stata la trama affettiva della sua vita: la cele­brazione perfetta dell'amore senza limiti, né divisioni. L'affettività integrata, matura. Avrà difficoltà e lotte, ma saprà cercare e tro­vare la soluzione con maturità: non si chiuse nella sterilità, al con­trario, si apri pienamente alla fecondità, come credente e come donna.

Così ha voluto che maturassero le sue figlie: nell'alleanza e nel­l'amore totale. Come spose e donne adulte che vivono l'affettività come dono, senza infantilismi, né immaturità, convinte che l'amore è pienezza di creatività e di fecondità.

Già da questo s'intuisce che le sue case di accoglienza rappresen­tano per lei la sala del grande banchetto di nozze, dove i poveri siedono quali invitati d'onore, mentre lei e le sue figlie - le sorelle oblate - si prodigano con gioia ad accoglierli e servirli.

 

La misericordia

 

 

Antonia, lasciandosi conquistare dalle prostitute imitò fedelmente il gesto di Gesù.

Che nessuno si meravigli di questo, anche se per i puritani sarà molto difficile non farlo, perché non capiranno mai il debole di Cristo per i poveri e per coloro che la società ufficialmente condan­na. .. Ma non hanno il diritto di meravigliarsi, dal momento che loro stessi fanno parte di una Chiesa che è «casta meretrice».

Che ironia! Siamo frutto dell'amore nuziale tra Cristo e la «casta meretrice». Come rifiutare le prostitute in nome della sacralità, quando Cristo s'innamorò tanto di una di esse da celebrare con lei le sue nozze d'amore infinito ed eterno! La Chiesa santa e pecca­trice del Concilio! La «casta meretrice», come la chiamavano i Padri della Chiesa, che pur tanto l'amavano.

 

Con quanta gioia Paolo annuncia questa meraviglia del Dio gratuità che sceglie la bellezza di una realtà piccola e debole per farla diventare sua famiglia, sua sposa.

«Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti. Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono». (1 Cor. 1,26-28)

 

 

Quando Antonia scoprì questa predilezione del Dio che chia­ma e sceglie per sé tanti che non sono «di buona famiglia», comprese il significato nuziale della misericordia: non è compassione, bensì scelta; non è pena, ma gioia profonda; non è pietà, bensì amicizia; non è grido, bensì chiamata.

La misericordia è celebrare e prolungare il gesto di Gesù che si presenta dicendo: «Dammi da bere»!

Oggi è facile disincarnare il gesto umanissimo di Gesù presso il pozzo, per trasformarlo in un gesto «spirituale», lontano e vuoto. Invece no. La Samaritana è la sposa infedele, la prostituta che ha avuto cinque mariti ed ora vive con un amante. Questa è la verità. Eppure, è a lei che Gesù chiede da bere.

«Dammi da bere!» è un grido di solidarietà, di necessità dell'altro, di fiducia nell'uomo e nella donna nella loro radicale grandezza e debolezza. Cristo si apre all'uomo ed alla donna perché gli è neces­sario per essere se stesso. «Dammi da bere!» è l'affermazione della grandezza dell'altro e l'esatto contrario dello sfruttamento.

Questi gesti si trasformano per Antonia in chiamata all'imitazione ed all'impegno. Per questo scrive:

«Le Oblate del Santissimo Redentore imiteranno l'amore e la delicatezza di Gesù con la Maddalena pentita, con la Samaritana, con l'adultera che i giudei gli avevano presen­tato per chiedergli se non era giusto lapidarla...».

 

 

E' difficile trovare un caso di realismo cristiano altrettanto forte:

l'imitazione di Cristo si presenta nell'estremo dell'emarginazione, oltre ogni religiosità benpensante. Ancor di più, l'imitazione di Cristo si presenta fuori dall'ambito umano: al tempo di Gesù la donna non veniva considerata figlia del Dio dell'Alleanza, e nell’epoca essa era rifiutata socialmente e culturalmente, peggio ancora se era una prostituta. Eppure, Cristo scommette per lei e si dichiara bisognoso di lei.

Generalmente succede il contrario: il povero viene emarginato, l'emarginato viene visitato, il pubblico peccatore viene perdonato... E' il massimo del paternalismo. Ed anche dell'umiliazione.

Invece, la forza di Gesù, portatrice di salvezza, si manifesta in maniera contraria: Egli si lascia invitare, amare, profumare e bacia­re. E questo, purtroppo, ancora oggi non riusciamo ad accettarlo. Col suo atteggiamento, Gesù ci insegna che il povero ha iniziativa, freschezza, originalità, grandezza e molto da dare...

Ecco cos’è avere un'anima da povero: aver bisogno dell'altro ed aprirsi all'altro. Sedersi presso il pozzo per chiedere e donare acqua viva (Gv 4).

 

La comunità del Regno

 

Antonia diceva alle sue oblate:

«Figlie, imitate l'amore e la delicatezza di Gesù. Fatevi sa­cramento trasparente di amicizia, perché l'amicizia è il lieto annuncio che libera il povero in profondità».

 

Antonia sapeva che la pienezza umana si realizza nel dono, nel dare ed accogliere, per questo visse la misericordia come amore senza limiti.

Costruire la comunità del Regno non è facile, ma ne vale la pena. Bisogna cominciare scavando in profondità, molto in profondità, fino a trovare la roccia, come Gesù stesso afferma nel Vangelo. Poi, occorre eliminare i materiali inutili... Tra questi, ve ne sono due di cui difficilmente ci priviamo, anche se è assolutamente necessario farlo: il tuo e il mio.

«La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un 'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comu­ne» (At 4,32).

 

 

Come alle origini, quando le prime comunità cristiane tentavano di vivere sul serio l'amore in pienezza. Per questo Antonia scriveva:

«Tutte uguali, tutte sorelle, in tutte le cose. Io sono molto comunista riguardo alla comunità».

 

Sicuramente Antonia poco sapeva del comunismo, per lo meno di quello che poi è stato veramente il comunismo. Sicuramente poteva condividere alcune afferma­zioni del suo maestro, Feuerbach, ad esempio quella in cui dice:

«In un palazzo si pensa diversamente che in una capanna...».

 

Questo suo osar pensare in maniera diversa le produsse tanta soffe­renza. Quando decise di lasciare «il palazzo» per vivere accanto alle prostitute malate e rifiutate da tutti, i suoi amici non compre­sero il suo gesto. Il 7 giugno 1865 il Duca di Riànsares, padre delle tue tre allieve, le scrisse la lettera più sarcastica e cinica che avesse mai ricevuto in vita sua:

 

«Vedo dalla sua lettera che è occupata a portare a termine un 'impresa titanica, da lei iniziata al fine di recuperare al­cune Maddalene. Gesù Cristo non ne convertì che una e sappiamo bene come gli è andata! Ora, cosa accadrà a lei che parla a tante di loro, non presso il pozzo, ma quando si trovano dentro di esso, e porge loro la mano per portarle fuori, alla luce dei santi precetti? Io la ammiro, anche se non approvo tanta pena e tanto lavoro per raccogliere degli es­seri da cui non ci si potrà mai aspettare gran che. Buon per lei se, per aver iniziato questa opera, si guadagnerà il cielo, ma per quanto riguarda i vantaggi dell'opera e la sua sus­sistenza: i primi, non li vedo, e quanto alla seconda credo proprio che non sopravviverà a lei. Sempre che la Sua fede non si rafireddi molto prima, specialmente se Dio dovesse ancora darle un avvertimento simile a quello che le ha già dato, quando permise che s'incendiasse l'edificio. Non deve credere che sono cattivo. Non lo sono. Dico così perché ho sempre creduto che i suoi talenti, le sue grandi virtù e la sua ardente fede cattolica potevano essere impiegati in cose più utili all'umanità ed alla stessa religione. Gesù Cristo venne al mondo per cercare i peccatori e convertirli, ma non si confondeva con loro: li mandava alla piscina a purificarsi e lui continuava la sua predicazione... Dirà lei che il diavolo è diventato predicatore. E' possibile. Ma, che vuole? diavolo o predicatore, avrei avuto più piacere e più fiducia nel ve­derla eccellere nei suoi sforzi a favore dell'umanità, magari circondata da vergini che sarebbero potute diventare buone e sante madri di famiglia, piuttosto che dalle Maddalene che giammai diventeranno niente di buono per la società; e Dio solo sa se potranno salvare le loro anime».

 

Questa lettera è un cantico all'ipocrisia. In un'altra, precedente a questa, diceva a proposito delle Maddalene pentite:

«Lasciamo da parte questo argomento per non tentare oltre la nostra immaginazione, sempre disposta a volare verso i pa­esi seminati a zizzania, ed a farci aprire gli occhi per guar­dare e farci cadere in peccato… Evitiamo dunque questi cattivi pensieri...».

 

Ovviamente, a palazzo nessuno credeva che Antonia potesse davvero operare una trasformazione nella vita delle prostitute. Al contrario. Bisogna evitare persino di rivolgere il pensiero ad esse, per non sentirsi sporchi e macchiati solamente al farlo. Qualcosa del genere pensava ella stessa prima della sua conversione.

Cosa si poteva aspettare? Il potere non s’identifica col Vangelo, né i po­tenti sono propensi ad imitare gli atteggiamenti di Gesù. Essi cre­ano l'emarginazione, ma si distaccano dagli emarginati fino a di­sprezzarli, per non sporcarsi con loro. Dunque bisogna lasciare «il palazzo» e trasferirsi nella "capanna", per poter scoprire la loro grandezza.

 

Sicuramente, Antonia, era d'accordo anche con quest'altra afferma­zione di Feuerbach:

«Se a causa della fame e della miseria non hai niente nello stomaco, non puoi neanche avere nella testa, nel cuore e nei sentimenti alcun fondamento o sostegno per la morale».

 

Si era d’accordo sul fatto che la povertà distrugge, calpesta la dignità e disumanizza perché porta con sé disprezzo, rifiuto e con­danna. Per questo la povertà è così antiumana e anticristiana, per coloro che la producono e per coloro che la subiscono. E dunque, umanizzare significa lottare contro ogni povertà, per proclamare la Vita; significa costruire la Comunità del Regno.

La famiglia reale aveva scelto Antonia come educatrice per la sua preparazione e le sue doti peda­gogiche, ora ella adotta con la prostituta lo stesso metodo di insegnamento e gli stessi principi: la convinzione, la decisione interiore, la responsabilità di essere donna. Formula chiaramente il suo desiderio e lo trasmette per iscritto:

«In casa si dedicheranno al lavoro, cercando di sfruttare le capacità naturali di ogni donna per insegnarle una profes­sione o un mestiere col quale essa possa vivere con decoro, una volta ritornata alla società».

 

Prepararle per un lavoro professionale è importante, ma non basta. Volle ché si dedichi del tempo per insegnar loro a leggere e scrive­re, oltre che a dare nozioni di aritmetica, di geografia e di storia a quelle che lo desiderano.

Tutto questo oggi ci sembra poco. Siamo molto esigenti. Eppure ai suoi tempi era praticamente il massimo. L'articolo 1 dell'Associa­zione per l'Educazione della Donna, redatto alcuni anni dopo non dice di più:

«Dare alle giovani le nozioni indispensabili della cultura in­tellettuale, morale e sociale della donna e preparare coloro che hanno il compito di dedicarsi all'insegnamento».

 

 

Sei fermamente convinta che la donna emarginata che vive nella tua stessa casa, debba sentirsi in parità di condizioni nei confronti delle altre, incluso di coloro che «si dedicano all'insegnamento e all'educazione».

 

Il tutto, sempre nella libertà: Le donne potranno lasciare la casa in ogni momento, qualora non dovesse piacer loro la vita che vi si conduce (Articolo VI).

 

Un’oasi di pace

 

Quando venne aperta la prima casa di Ciempozuelos, Madrid conta 400.000 abi­tanti. In 30 anni la sua popolazione si è duplicata. Ma rimane incolta e povera. La povertà diventa mendicità nelle classi proletarie. La situazione è triste. Ci troviamo nell'epoca del primo sviluppo industriale ed assistiamo contemporaneamente al sorgere delle fasce di miseria intorno alle grandi città. Questo ci aiuta a capire il perché dell'aumento dell'emarginazione e dello sfruttamento della donna. Si dice che in quegli anni c'erano nella sola Madrid ben 12.000 prostitute. La loro situa­zione era deprimente:

«Una giovane abbandonata alla sua sorte, dimenticata dagli uomini, senza appoggio né conforto, senza avvenire né spe­ranza. Ricorre alla sua unica ed esclusiva proprietà: si ven­de per migliorare il suo destino, e le autorità, che fino a quel momento non si erano accorte di lei, la aspettano al varco come il cacciatore con la tigre. Conficcano nell'infelice le unghie della giustizia e il loro primo atto è quello di iscri­verla nel registro del disonore...».

 

Da quel momento è segnata per sempre. D'ora in avanti dovrà pagare le tasse al municipio e circoscrivere la sua attività in deter­minate zone:

«Le viene proibito di camminare liberamente per le strade pubbliche, diritto che non può essere negato neppure ai pazzi, soltanto alle povere donne che la società ha relegato nell'abisso della loro disgrazia» (F. de Vahillo, La prostitucién y las casas de juego, Madrid 1872).

 

 

E' questa la donna alla quale offre la sua casa come asilo. Asilo! Parola magica carica di bellezza! Asilo significa luogo inviolabile, luogo aperto alla pace e chiuso alla violenza. Come il tempio... Luogo di sicurezza e di fiducia per il povero e il debole che si sente indifeso in una società che lo aggredisce e lo rifiuta con violenza.

Antonia voleva che le sue case di accoglienza fossero oasi di pace e di comunione. Per lei la pace è la celebrazione della luce e della risur­rezione. Le ragazze avevano bisogno della pace come del pane, per consumarla in sacramento di vita e colmare di grazia tutte le ferite della violenza e dell'emarginazione. La pace la fanno gli uomini, è vero; però è soprattutto un dono dello Spirito, una benedizione, l'abbraccio del Risorto nel mattino limpido della Pasqua. Scrive Antonia:

«Esiste forse al mondo un bene più grande che la pace? Pace con Dio, pace con gli uomini, pace con se Stessi. Se così non fosse, perché Gesù avrebbe scelto come saluto quelle mira­bili parole che tante volte uscirono dalla sua bocca: "la pace sia con voi ... vi lascio la mia pace"»?

Per rendere possibile quest'oasi di pace esigeva molto, sopratutto il rifiuto della violenza che sorge dalla discriminazione:

«Che la superiora non cada mai nella facile tentazione di accettare nella sua casa solo le ragazze utili per il lavoro, poiché quelle che non servono che per peccare, hanno un 'ani­ma creata ad immagine di Dio come le altre. E non dobbia­mo mai dimenticare che queste sono più nostre che tutte le altre».

 

«Non venga mai negata l'accoglienza a nessuna di coloro che sono state rifiutate da altri, qualunque sia la sua età o i suoi difetti».

 

 

Antonia proponeva inoltre la cultura. La man­canza di cultura, soprattutto delle donne, era il grande problema del secolo XIX. Antonia vuole che la formazione che ricevono nella sua casa sia orientata a restituire allo spirito la dignità ed il vigore perduti.

Forse è questo il grido più forte che si leva nel sec. XIX in favore della donna più povera. Per raggiungere lobiettivo afferma:

"Si adotteranno quei mezzi che siano più adeguati per stimo­lare l'amore al lavoro e per vivere secondo il Vangelo, cer­cando di evitare troppi richiami, spesso non necessari e sem­pre sgradevoli".

 

Suore oblate del SS. Redentore, oggi

 

La sua offerta di pace, di accoglienza e di focolare caldo è oggi più necessaria che mai. E' sempre in aumento il numero delle donne vittime di violenza e aggressività solo per essere donne. La società consumistica usa la donna fino ai limiti assurdi, utilizzan­dola come richiamo pubblicitario e come simbolo erotico. Questo non la conduce alla liberazione, al contrario, con frequenza, la porta a subire aggressioni sessuali.

La con­ferenza di Puebla è molto più cruda nel denunciare le aggressioni che subisce la donna oggi:

«Alla consueta emarginazione della donna come conseguen­za di atavismo culturale (prepotenza dell'uomo, discrimina­zione di salario, mancanza di educazione, ecc.) che si manifesta nella sua assenza dalla vita politica, economica e cul­turale, si aggiungono nuove forme di emarginazione in una società consumistica. Si giunge così all'estremo di trasfor­marla in un oggetto di consumo di una società edonista che maschera lo sfruttamento della donna dietro la parvenza del progresso umano (pubblicità, erotismo, pornografla) . In molti dei nostri Paesi si è visto un aumento della prostituzione femminile, dovuto sia ad una situazione economica oppri­mente, sia ad una crisi morale accentuata»

 

In questa società così aggressiva abbiamo tanto bisogno di pace. Le comunità delle Suore oblate del SS. Redentore sono in grado di offrirla perché sono visceralmente umane.

 

Per le oblate, vivere la pace, offrire la pace ed eliminare ogni violenza è un compito di ricostruzione interiore, di rigenerazione dell'uomo e di abbraccio con il progetto creativo delle Beatitudini. Per questo Antonia chiese alle sue figlie:

«Figlie mie, vivete il vangelo della pace. Questa è la nostra missione nella costruzione del Regno: annunciare la pace, donarla, lasciarla come un dono dello Spirito nel cuore ag­gredito della donna emarginata che giunge al focolare caldo delle nostre case. Riempire il mondo di ulivi perché possano rifugiarsi sotto i loro rami tutte le donne che vivono all'addiaccio, e sono prive di casa e di affetto. Proclamare l'alleanza di Dio e del suo Cristo nella gente povera e pic­cola dell'emarginazione ed aiutarla a scoprire la sua presen­za liberatrice come un immenso arcobaleno che abbraccia la terra ... Però, soprattutto camminare al suo fianco guardan­do verso la terra nuova.... Pace con Dio, con il prossimo e con voi stesse; così si assicura la felicità in questo mondo e nell'altro».

 

Cieca di tanta luce

 

A Ciempozuelos le cose erano cambiate. Il 2 febbraio del 1870 Antonia aveva scelto un nuovo nome: Antonia Maria della Misericordia. Un nome nuovo per una missione nuova, il servizio.

Nel 1876 la comunità delle suore prevede un noviziato. Sono appena entrate in sedici quindi sono in più a lavorare e anche la casa è miglio­rata di molto. Nell'orto sono stati piantati alberi di meli, viti, salici, fichi e ulivi. Fa piacere stare nel suo orto!

Antonia viene chiamata da Vitoria. Vogliono che apra lì una nuova casa, e così parte per fondarla. Da Vitoria a Benicasim, sempre nel 1876. Qui il sole è accecante ed il mare è una delizia. A Benicasim le offrono una villa per la fondazione:

«Nell'insieme è un palazzo che per lei non ha altro difetto che la sua stessa bellezza».

 

In realtà aveva altri difetti. Il carattere difficile di don Francisco, il proprietario, che la fece soffrire molto con la sua impertinenza e la muffa dei suoi mobili. Questi ultimi erano in prestito e i vicini se li portarono via poco a poco, subito dopo l'inaugurazione. La casa rimase vuota e le pareti nude.

Non se la prese troppo dal momento che Benicasim era per lei il paradiso, con serpenti e tutto il resto:

«Gloria in excelsis Deo: sia ringraziato il Signore che, dopo tante avversità, ha ridato pace e tranquillità a questo para­diso terrestre, schiacciando il serpente infernale. Tutto qui è incantevole: l'ambiente profuma di aranci in fiore e di rose che traspirano pace e allegria».

 

Da Benicasim a Valencia. Qui c'era molta prostituzione a causa del clima, la vicinanza del porto, le caserme....

Vi giunse senza denaro, come sempre. Soffrì il freddo e la mancanza di sonno. Aveva ceduto materasso e coperte alle ragazze. Ci si poteva arrangiare così per qualche giorno, ma era impossibile rimanere in quelle condizioni per sempre. Così comprò una casa ad Alacuàs, un villaggio vicino. Era più economica e più tranquilla. Le piaceva il silenzio della natura perché la aiutava a coltivare lo spirito.

Ad Alacuàs l'oblazione raggiunse il limite estremo. Scoppiò una terribile epidemia di colera e le oblate si offrirono volontariamente di assistere i malati e seppellire i morti… Le sarebbero stati sempre grati, i superstiti.

 

Queste sono le prime fondazioni. Le costarono, ma all'epoca era una suora giovane e aveva molta voglia di lottare. Le successive saranno più facili: Tortosa, Zaragoza, Santander, Valladolid, Tarragona, Murcia, Santiago, Godella, San Sebastiàn.

Era stanca, Antonia. Da Ciempozuelos a San Sebastiàn sono quat­tordici fondazioni. E' stata dura, ma entusiasmante. Per di più con Padre Serra al suo fianco tutto era stato più facile. D'ora in poi però dovrà continuare da sola. Ricordati che Maria, in cambio dell'of­ferta, ricevette una spada che le avrebbe trafitto l'anima...

L'anno 1885 fu terribile. Aveva sempre creduto nella forza della croce, ma ora ella stessa confessò di essere giunta al limite del do­lore. Non poteva immaginare che le mancava ancora la sofferenza più grande: la calunnia. Qualcuno osò diffamare la persona che più amava, Padre Serra. Non sappiamo cosa accadde, ma deve essere stato un fatto molto grave. A 75 anni, vescovo, gli viene proibito di confessare e riceve l'ordine di vivere fuori dalle comunità oblate... E' un colpo durissimo. Solo tAntonia viene a conoscenza del fatto e scrive al Nunzio:

«Non posso esprimere a Vostra Eccellenza il dolore che provo, poiché ci sono cose che non possono essere espresse, cose che si vedono e appena si possono credere».

 

Improvvisamente e senza spiegazione alcuna, il tutto protetto da grande segreto, toglievano dal suo fianco colui che aveva dato l'av­vio all'apertura delle case di accoglienza. Cantonia continua:

«Ce lo tolgono. E proprio adesso che l’istituto aveva più che mai bisogno di lui.. Forse il nemico, vedendo che abbiamo costruito ben sedici case, nelle quali più di seicento povere pentite, sfuggite alle sue grinfie, mangiano il pane della ca­rità, e vedendo anche che durante quest'anno ne sono state inaugurate due nuove, e che tutto, grazie a Dio, va bene, avrà chiesto al Signore il permesso di tentarci per provare la nostra fede.

Signor Nunzio, nonostante l'eroica rassegnazione con la quale Padre Serra sta soffrendo, sono certa che questo terribile ed immeritato colpo lo porterà alla morte; così egli, dopo aver procurato casa, famiglia e cure materne a tante povere sven­turate, morirà lontano e solo, senza che le sue figlie possano ricevere la sua ultima benedizione».

 

Padre Serra sceglie come luogo per il suo esilio il Deserto delle Palme. Se ne va stanco, malato e triste, con profonda pena. Ma senza aprire bocca, senza incolpare nessuno, senza pronunciare una sola parola in sua difesa. Farlo significava proba­bilmente violare il segreto della confessione, e questo, mai.

Preferisce soffrire in silenzio:

«Anche il nostro buon Gesù fu esiliato per volontà del Padre suo e non si lamentava né chiedeva quanto sarebbe durato il suo esilio. Io devo imitare il mio divino modello».

 

Questa fu la sua unica difesa durante l'esilio. Soffrirà così tanto che morirà di li a poco, l'8 settembre 1886. Egli che aveva preparato casa e famiglia per accogliere tante donne emarginate, muore solo, esiliato, pregando, perdonando e confidando solo nel Padre.

Il dolore di Antonia è grande. Perdeva l'amico del cuore che aveva tanto amato. Tenta di aiutarlo, va a Roma per parlare in sua difesa, ma è inutile. Tutto è silenzio, segreto e dolore infinito....

Passa la tormenta e ritornano giorni più luminosi. Leone XIII concede il decreto di approvazione il 19 maggio del 1895. Dalla morte di Padre Serra ha aperto nuove fondazioni: Alicante, Jerez, Madrid, Barcelona...

 

Barcelona è la sua ultima fondazione. Ha settantadue anni. E’ stanca e malata. Da Barcellona ritorna quasi cieca, ma con la luce intensa del mare ed i gabbiani nelle vele dell'anima. Le rimangono ancora quattro anni da navigare...

Prega più che mai. Lunghe ore presso la croce e l'altare. Sempre presso il pozzo. Ore intense di acqua viva. Tempo d'incontro, di dialogo, di supplica, di cammino verso la luce. Ma soprattutto di silenzio interiore, di ascolto, di gratitudine e di accoglienza della Parola.

 

Già cieca, guardando solamente dentro di se, scopre un mondo di luce: la Svizzera, con la profondità dei suoi laghi e le sue montagne innevate; Ciempozuelos, ancora profondità, pozzo e rondini in volo; le ragazze, immagine della luce accecante di Dio; le fondazioni, oasi di pace accogliente della Pasqua; la Famiglia Redentorista, sacramento della redenzione sovrabbondante; Padre Serra, la limpi­da amicizia per sempre.... E infine, l'oblazione, la pienezza della luce.

 

Cieca di tanta luce, si offrì in oblazione totale al Padre (morì) il 28 feb­braio del 1898.