Beato Daniele Comboni
Tratto dal libro: RITRATTI
DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
"Noi condanniamo in modo particolare la stolta
opinione di coloro che non temono di asserire che i negri non fanno parte della
famiglia umana e che non sono dotati di anima umana".
Era il 3 gennaio 1870 quando queste parole
risuonarono nell'aula del Concilio Vaticano I.
Si discuteva il documento sulla fede
cattolica e un vescovo del sud degli Stati Uniti chiedeva che questa
"condanna" fosse inserita nel testo in discussione, dato che in
America circolavano ancora dei libri in cui si insegnava che i negri sono
collocati su un gradino della natura a metà strada tra la bestia e l'uomo.
Prima di sorprenderci per un simile
dibattito, dovremmo ricordare che nel Mein Kampf di Hitler (un libro di
sessant'anni fa, che il nazismo voleva far diventate il nuovo vangelo
dell'Europa!) si legge:
"È un peccato contro la ragione, perché
è una follia criminale ammaestrare un negro, un essere che è per la sua origine
una mezza scimmia, pretendendo di farlo diventare un avvocato".
Nei testi ufficiali del nazismo tale
"scienza della razza" veniva considerata una scoperta pari solo alla
rivoluzione copernicana.
E si accusava la chiesa cattolica perché col
suo atteggiamento universalistico insegnava dottrine decrepite ed invecchiate.
La scienza della razza, spiegavano i protagonisti di allora, non è stata
scoperta sui pulpiti della chiesa, e quindi essa non è competente a giudicarne.
Di dottrine universalistiche molta gente è morta. Ora sotto il segno dell'idea
razzistica il grande processo del risveglia europeo si sta sviluppando"
(Rosenberg, Discorso del 6 settembre 1938).
E si denunciava che "tra le grandi
potenze che si oppongono irriducibilmente a una comunità di popoli bianchi
accomunati dal sangue nordico c'è la Chiesa romana... Così facendo essa prende
posizione contro l'Europa" (Nazionalsozilistiche Monatshefte,
novembre 1938).
Su questi temi dunque la Chiesa romana
lottava ancora nella prima metà di questo nostro secolo, quando certi
intellettuali tedeschi spiegavano che bisognava ristabilire nuovamente il
concetto giuridico di "schiavo", applicato non più solo agli
individui, ma ai popoli.
Allora levò la sua voce Pio XI:
"Noi non vogliamo separare nulla
nella famiglia umana... Gli uomini sono prima di tutto una grande unica
famiglia di viventi". "I figli di tutte le razze sono uomini, non
belve o esseri qualsiasi e la dignità umana consiste nel fatto che tutti fanno
una sola famiglia, il genere umano. La Chiesa ci insegna a pensare, a sentire,
a trattare la cosa in questo modo… È questa la sua risposta alle discussioni
che oggi agitano il mondo... Tutti gli uomini sono oggetto dello stessa affetto
materno; tutti sono chiamati alla stessa luce..." (Discorso del 28
luglio 1938).
Abbiamo voluto indugiare su questi amari
ricordi del nostro recente passato per due motivi: anzitutto perché oggi si
osservano nuovi rigurgiti di razzismo, a causa dei recenti fenomeni migratori
e, in secondo luogo, per fare ancor più risaltare, in tanta tenebra, la luce di
coscienza e l'ardimento del cuore con cui Daniele Comboni, in pieno secolo XIX,
si sentì inviato agli sconosciuti popoli dell'Africa misteriosa e
impenetrabile, che egli chiamava "il primo amore della mia giovinezza",
per il quale si diceva pronto a dare la vita.
Molti pensano che la Chiesa sia sempre in
affannosa rincorsa della modernità e della civiltà, senza nemmeno sospettare
che ella si è massa con anticipo di centinaia e centinaia di anni e con una
generosità irraggiungibile, di idee, di uomini e di mezzi, su terreni che
ancora qualche decennio fa erano ostici e incomprensibili ai padroni del mondo.
Daniele Comboni, più di un secolo fa,
portava disegnato sul sua stemma episcopale l'intero continente africano,
sormontato dai cuori di Gesù e di Maria, a indicare l'amore di cui egli voleva
interamente avvolgerlo.
Ma torniamo per ora a quel Concilio Vaticano
I dove il vescovo di Savannah (Georgia) chiedeva la difesa della razza negra.
C'era un altro sacerdote in quella stessa
aula conciliare che cercava in tutti i modi di far trattare la "questione
africana": era appunto Daniele Comboni, un missionario che, a tale scopo,
si era fatto nominare dal vescovo di Verona suo "teologo" al
Concilio.
Egli non si interessava tanto dei dibattiti
in corso, anche se li seguiva con interesse, ma cercava il mezzo di convincere
quella grande assemblea a un clamoroso intervento in favore
dell'evangelizzazione dell'Africa, il continente più trascurato.
Aveva scritto ai Padri conciliati una
lettera dove osservava che purtroppo nessun vescovo nero era presente in
quell'assemblea e chiedeva con foga:
"C'è qualcuno tra vai che faccia da
padre per i Neri, una voce che faccia da interprete per tanti figli di Cam?
Ditelo voi, eccellentissimi Padri...!".
Finalmente era riuscito a convincerne alcuni
e il Papa aveva concesso che il tema dell'evangelizzazione dell'Africa fosse
iscritto nel calendario del Concilio.
Ma c'era stata nel frattempo la presa di
Roma e l'annessione al Regno d'Italia, e l'assemblea dei Vescovi era stata
sospesa sine die.
Fu così che il sogno generoso di Comboni, di
scuotere la Chiesa intera, restò affidato solo alle sue povere mani.
Questa è la strana vicenda che dobbiamo
raccontare: la storia di un uomo che sembrò un sognatore e un visionario ed era
invece un profeta.
Le sue idee, i suoi progetti non sono stati
realizzati neanche ai nostri tempi e alcuni non lo saranno mai; eppure tutto
ciò che si è mosso e si muove missionariamente, a favore dell'Africa, sembra
che egli lo abbia anticipato. E molti dei suoi insegnamenti e progetti
attendono ancora di essere presi in considerazione.
Ai suoi tempi i cristiani africani erano
solo qualche migliaio, mentre oggi sono milioni, ma egli già intravedeva e
progettava il risveglio di tutto il continente nero.
Daniele Comboni nasce a Limone sul Garda nel
1831; è il terzo di otto figli, ma è l'unico bambino che riesce a sopravvivere.
Quando partirà missionario, lascerà alla
mamma il ricordo di una fotografia, ed ella dirà con umile sofferenza che
"di tanti figli gliene è rimasto solo uno di carta". Ma oggi
ha un figlio santo, che le fa compagnia in cielo ed è onorato in terra.
A dodici anni, poiché la famiglia è molto
povera, ha la fortuna di essere accolto nel collegio per ragazzi non abbienti,
ma dotati, aperto a Verona da don Nicola Mazza, un celebre e santo educatore
del tempo.
E in quel collegio, in cui gli studi
conducono indistintamente o ad alte soglie dell'Università di Padova o ai corsi
di teologia del Seminario, si respira a pieni polmoni l'entusiasmo missionario
che il Papa del tempo sta infondendo nella Chiesa.
Le missioni erano state gravemente colpite,
prima con la soppressione della Compagnia di Gesù, poi con la soppressione di
molti ordini religiosi nelle nazioni europee.
Sul finire del secolo XVIII i francesi che
occupavano Roma avevano addirittura emanato un decreto di soppressione della
Congregazione de Propaganda Fide, che si occupava tradizionalmente delle
missioni cattoliche, badando bene a saccheggiarne prima la biblioteca.
Ma Pio VII aveva ricostituito sia la
Compagnia di Gesù sia la Congregazione, e da allora i problemi
dell'Evangelizzazione avevano ripreso a scuotere la coscienza dei cristiani.
E rinasceva in particolare un interesse per
l'Africa.
Nel 1839 Gregorio XVI, un pontefice che
molti accusano a torto di chiusura, non solo aveva nuovamente condannato la
schiavitù e lo schiavismo (definendolo "opera di gente vergognosamente
accecata dalla brama di uno sporco guadagno"), ma aveva anche dato
istruzioni perché i preti di ogni razza e nazione venissero preparati in modo
da poter accedere a tutte le responsabilità e le dignità ecclesiali, anche
all'episcopato, allo stesso modo dei bianchi.
E questo, come abbiamo prima ricordato,
accadeva in un'epoca in cui molti pretendevano di negare che i negri avessero
l'anima.
Nei collegi di don Mazza l'Africa era una
vera passione, tanto che il fondatore veniva scherzosamente chiamato "Don
Congo".
Si discuteva anzi in quegli anni di
accogliere a Verona ragazze e ragazzi africani, riscattati dalla schiavitù, per
formarli cristianamente con l'intento di consentire poi loro il ritorno in
patria come evangelizzatori dei propri fratelli (nel matrimonio o nel
sacerdozio).
E così venne fatto, a partire dal 1851,
mentre alcuni sacerdoti dell'istituto si preparavano a partire per la "Nigrizia",
come allora si diceva.
Per favorire tale progetto, don Mazza aveva
addirittura previsto nei programmi scolastici del suo collegio non solo lo
studio delle principali lingue europee, ma anche l'apprendimento dell'arabo.
Agli inizi del 1849 (a diciotto anni,
dunque) anche Comboni "si consacrò all'Africa" con un voto
personale che doveva innervare e sostenere tutta la sua vita.
Scriverà nel 1867: "Votato all'Africa
da diciassette anni io non vivo che per l'Africa e non respiro che per il suo
bene".
Dieci anni dopo insisterà: "Sono
ventisette anni e sessantadue giorni che ho giurato di morire per l'Africa
centrate: ho attraversato le più grandi difficoltà, ho sopportato le fatiche
più enormi, ho più volte visto la morte vicino a me e, malgrado tante
privazioni e difficoltà, il Cuore di Gesù ha conservato nel mio spirito (...)
la perseveranza, in modo che il nostro grido di guerra sarà fino alla fine: o
Nigrizia o morte!". Come si vede, egli contava addirittura i giorni di
vita che lo legavano a tale irrevocabile decisione.
"Nigrizia" era il nome con
cui gli atlanti di allora indicavano tutta la zona interna dell'Africa,
praticamente sconosciuta, su cui si usavano disegnare solo dei leoni e qualche
grosso fiume tracciato a caso.
Di quel continente, i bianchi conoscevano
soltanto gli insediamenti sulle coste e alle due estremità (Algeria e
Sudafrica), dove il clima è più temperato e sopportabile. Il resto era avvolto
"da un buio misterioso".
In seminario, dunque, Daniele si prepara
accuratamente, unendo agli studi di teologia quelli di lingua araba, dei
costumi di alcune tribù africane e di fondamentali nozioni di medicina.
Il 31 dicembre del 1854 viene ordinato
sacerdote a Trento, nella cappella del palazzo vescovile, da Monsignor Giovanni
Nepomuceno de Tschiderer (che Giovanni Paolo II ha proclamato "Beato"
nel 1995).
Prima che gli sia possibile partire per
l'Africa passano quasi tre anni, ma intanto ha modo di perfezionarsi nell'arte
medica. Nel veronese, difatti, scoppia un'epidemia di colera, con centinaia dl
vittime. Destinato al paese di Buttapietra, Comboni vi esercita una tale
generosa assistenza, da prete e da infermiere, che il commissario imperiale gli
riserva un solenne encomio, dichiarando che Comboni "ha dato tutto se
stesso a tutti". Era un buon tirocinio.
Partì verso la fine del 1857, quando
l'istituto di don Mazza decise di collaborare alla missione africana, inviando
un gruppo di cinque preti, il più giovane dei quali era appunto don Daniele, accompagnati
da un volontario laico, un fabbro friulano.
Poiché ad Alessandria d'Egitto c'era da fare
una lunga sosta organizzativa, i missionari ne approfittarono per un
pellegrinaggio in Terra Santa. Allora il paese di Gesù lo si doveva percorrere
a piedi o a cavallo e non mancavano pericoli anche per la vita
La lunghissima relazione che Daniele scrisse
ai genitori è un racconto gustosissimo e ricco di colore, ancora oggi utile per
conoscere la situazione dei luoghi santi nel secolo scorso, sotto il dominio
dei turchi, e le pie devozioni dei pellegrini del tempo.
Ciò che soprattutto traspare da quelle
pagine è la fede appassionata di uno che sa di "guardare con i propri
occhi e toccare con le proprie mani" le reliquie storico-geografiche
dell'avvenimento che poi dovrà annunciare "fino agli estremi confini
della terra". Egli infatti stava per spingersi là dove nessun
cristiano era ancona giunto e vibrava di commozione al pensiero di dover
essere, per i suoi africani, il legame vivente con I'origine.
Un'origine così santa e così familiare! Ai
vecchi genitori scrive significativamente: "La grotta dove nacque Gesù
Cristo per metà è larga come il corridoio dove abitate, e l'altra metà è come
la vostra cucina... Io baciai quasi tutta la grotta, né sapea distaccarmi...".
Dopo due settimane, potevano finalmente
tornare ad Alessandria e inoltrarsi nel Sudan allora dominio egiziano verso la
capitale Khartum. Per raggiungerla dovettero risalire prima il Nilo Bianco, poi
attraversare su cammelli il deserto della Nubia e infine procedere ancora in
barca: un viaggio di due mesi e mezzo circa.
Ma Khartum doveva servire unicamente da
base; infatti vi si fermò un solo missionario, mentre gli altri risalirono il
Nilo Bianco per altri milleseicento chilometri.
Il tutto col rischio di essere scambiati per
una banda di negrieri e di essere trucidati.
Ma più forte del timore era lo stupore.
Daniele aveva l'impressione di contemplare la creazione quasi come era uscita
dalle mani di Dio. La bellezza era tale che spingeva a lodare con entusiasmo il
creatore.
Le lunghe e minuziose relazioni di questi
viaggi, che Daniele inviava ai suoi genitori, come per ripagarli della
solitudine in cui li aveva lasciati, sono dei veri gioielli in stile popolare e
permettono di scoprire l'Africa segreta con gli echi ardenti dell'esploratore e
del giovane apostolo (…).
La fede gioiosa e pura emerge quando
racconta del battello incagliato in mezzo al fiume, mentre dalle due rive li
osservano due differenti minacciose tribù; mentre i missionari decidono di non
usare in nessun caso le armi: "Abbiamo ben dieci fucili, ma il
missionario si lascia trucidare cento volte piuttosto che discorrere di
difendersi con grave pericolo dell'inimico. Gesù Cristo non avrebbe fatto così.
Il capitano della barca avvilito ci dice che non sa che farci".
E poi racconta della Messa celebrata al
mattino, dopo una notte di terrori e di preghiere e di eroici propositi: "Oh,
come fu dolce, in quella circostanza difficile, stringere fra le mani il Padrone
dei fiumi e il Signore di tutte le tribù e di tutti i selvaggi della terra,..".
Si sente nella lunghissima lettera, nel
grosso volume degli scritti occupa più di ventitré fitte pagine, la voglia di
rendere i familiari partecipi di quella sua straordinaria avventura, ma anche
la consapevolezza di essere abbandonato esclusivamente nelle mani di Dio,
quanto più si immerge in quel mondo sconosciuto, splendido sì, ma a tratti
minaccioso.
E anche a questa offerta egli vuole che i
genitori si sentano legati: "Io sono martire per l'amore delle anime le
più abbandonate del mondo, scrive, e voi diventate martiri per amore di Dio,
sacrificando al bene delle anime l'unico figlio".
Se il martirio di sangue era solo
un'eventualità, del resto non troppo remota, la disponibilità a dare la vita
doveva invece essere quotidiana. I missionari europei, nelle zone interne
dell'Africa, morivano come mosche, a causa del clima terribile e delle scarse
risorse mediche.
"Di ventidue missionari della
Missione di Khartum, che esiste da dieci anni, annotava Comboni, ne morirono
sedici e quasi tutti nei primi mesi".
Nei cinque anni precedenti l'arrivo dei
veronesi, era morta almeno la metà di tutti i missionari presenti nell'Africa
centrale.
E la storia si stava ripetendo. I sei veronesi,
Daniele in testa, erano caduti già preda di violentissime febbri e si erano
risollevati a fatica. Uno di essi morì già in quel primo mese, a trentatré
anni. Poi morì anche il collaboratore laico che li aveva accompagnati in quella
santa avventura. Poi un altro missionario ancora.
Le lettere ai famigliari lasciano presto
trapelare la sofferenza raccontando di malattie e di morte. Dal papà riceve la
notizia che la mamma non c'è più, e al papà racconta dei suoi confratelli
missionari spirati tra le sue braccia.
Racconta che anch'egli è stato malato fino a
ricevere l'Estrema Unzione, ma conclude: "Non vi spaventate. La vita
nostra è nelle mani di Dio. Ei faccia quel che vuole: noi l'abbiamo con
irrevocabile dono sacrificata a Lui. Sia benedetto. Dalla sera alla mattina qui
si muore...".
Ancora mezzo anno di missione e Comboni si
ritrova "indebolito all'estremo, pieno di dolori, soggetto ad affanni
penosissimi, e pieno di tutti i sintomi che annunziano vicino il termine della
vita" (Lettera 6.4.1859).
E così, mentre in Egitto stavano per
iniziare i lavori del canale di Suez, Comboni dovette tornare in patria
sfinito.
Accolto nuovamente nel collegio di don
Mazza, dovette occuparsi degli studenti di colore. Si accorse così che questi
soffrivano e deperivano per il rigido clima degli inverni veronesi, cui non
erano abituati. Sembra una considerazione banale, ma proprio da questa
osservazione prese corpo quell'idea a cui doveva dedicare poi ogni energia,
come vedremo tra breve.
Intanto nella missione abbandonata si
insediava un nuovo contingente di missionari francescani austriaci.
In poco più di un anno venne inviato quasi
un centinaio di religiosi. Ne morirono trentatré mentre quasi tutti gli altri
dovettero essere rimpatriati prima che fosse troppo tardi. A fine anno soltanto
tre resistevano in missione.
Quando tutto sembrava finito e gli uomini
stavano decidendo di abbandonare l'Africa Centrale, lo Spirito di Dio agì nel
cuore di Daniele.
Egli si trovava occasionalmente a Roma, nei
giorni in cui la Chiesa si preparava, con un solenne triduo di preghiere in San
Pietro, alla solenne beatificazione di Margherita Maria Alacoque, la santa che
aveva ricevuto e rivelato al mondo le promesse del Sacro Cuore di Gesù.
Nell'immensa Basilica anche Comboni prega.
Ripensa all'amore bruciante di Cristo per gli uomini, sa che quel Cuore divino
vorrebbe abbracciarli tutti, sa che i credenti dovrebbero ardere di quello
stesso fuoco, ed ecco che a un tratto gli balena in mente "un piano",
un progetto per l'evangelizzazione e la salvezza di tutta l'Africa.
Lavora alla sua stesura per sessanta ore,
quasi senza interruzione. Il giorno della beatificazione di Santa Margherita
Maria è pronto per consegnare il lungo scritto nelle mani del Cardinale
Prefetto di Propaganda Fide.
Il progetto; che presto assumerà il titolo
definitivo di Piano per la rigenerazione dell'Africa, si fondava su un
principio di metodo:
"l'Africa deve essere salvata per
mezzo dell'Africa".
Comboni partiva realisticamente da
un'esperienza che si era sedimentata nella sua coscienza: gli europei non
potevano resistere alle condizioni di vita del continente africano; gli
africani soffrivano nelle condizioni di vita del continente europeo, e quelli
che riuscivano ad integrarsi divenivano poi incapaci di riadattarsi culturalmente
alla loro terra d'origine.
Sia gli uni che gli altri invece avrebbero
potuto vivere e incontrarsi lungo le coste, "luoghi in cui l'africano
vive e non si muta, e l'europeo opera e non soccombe".
Era una constatazione di fatto, banale
perfino, e anche troppo condizionata dalle circostanze storiche e ambientali di
quegli anni.
Ma la circostanza suggeriva una revisione
della metodologia missionaria, e la metodologia nuova obbligava a ripensare la
stessa teologia.
Il piano era dunque quello di circondare
l'Africa: l'intero perimetro del continente nero doveva essere disseminato di
"fortini missionari", cioè di una catena di centri di
formazione culturale e professionale, destinati a preparare catechisti, maestri
e maestre di scuola, insegnanti di lavori domestici, artigiani ("agricoltori,
flebotomi, infermieri, falegnami, sarti, conciatori di pelli, fabbri, muratori,
calzolai, commercianti ecc.") e a promuovere la formazione di giovani
sposi cristiani, di preti e di religiosi indigeni. Convenientemente distanziate
sull'intero perimetro, dovevano poi sorgere almeno quattro università e alcuni
grandi seminari.
Lungo le coste, dunque, in una zona
climatica sostenibile per tutte le razze, i missionari europei sarebbero venuti
a contatto con gli africani e li avrebbero preparati a diventare essi stessi
evangelizzatoti delle proprie tribù dell'interno.
Si sarebbe così creato un doppio movimento:
nei paesi europei sarebbero stati preparati i missionari, preti, religiosi e
laici, che dovevano anzitutto apprendere le lingue e studiare i costumi
africani, i quali poi sarebbero stati inviati a dirigere quella cintura di
"scuole"; da questa cintura sarebbero poi partiti verso
l'interno dell'Africa misteriosa i missionari indigeni: preti, religiosi, ma
soprattutto laici.
Detto così, può sembrare un piano generico;
possiamo però intuire la portata rivoluzionaria che aveva sulla mentalità e sui
metodi in vigore nel secolo scorso.
In un'epoca in cui l'evangelizzazione
sembrava compito esclusivo dei missionari europei, Comboni non solo proponeva
di affidarla agli indigeni mentre numerose persone li ritenevano
costituzionalmente incapaci, ma la immaginava come opera soprattutto dei laici
africani uomini e donne. Questa marcata valorizzazione dell'elemento femminile
era allora una novità pressoché assoluta: "Nell'apostolato dell'Africa
Centrale io, il primo, ho fatto concorrere l'onnipotente ministero della donna
del Vangelo!", scriverà egli con comprensibile orgoglio nel 1878.
Inoltre, in un'epoca in cui gli obiettivi dell'evangelizzazione
erano in gran parte di carattere spirituale, Comboni proponeva un progetto che
comprendeva la rigenerazione dell'intero tessuto sociale.
A questo scopo egli chiedeva che tutti gli
istituti missionari del tempo, destinati a sostenere l'impresa "dalle
retrovie", cioè dai loro paesi d'origine, si collegassero per far
convergere in un unico progetto tutte le forze in uomini, mezzi, istituzioni.
Desiderava che tutta la Chiesa si protendesse maternamente ad abbracciare
"tutta intera la stirpe dei negri", la parte più diseredata
dell'umanità. Il coordinamento avrebbe dovuto mettere in movimento, a favore
dell'Africa, "tutti gli elementi del cattolicesimo",
garantendo che "l'opera fosse cattolica, non già spagnola, francese,
tedesca o italiana".
Val la pena di sottolineare che, secondo il
Piano, doveva essere l'Africa stessa a mantenere i suoi missionari, proprio
attraverso la rigenerazione dell'intero tessuto sociale anche dal punto di
vista economico!
I primi lettori del Piano lo
giudicarono subito "gigantesco" e quindi difficile proprio a
causa della sua pretesa "sì universale e abbracciante".
Comboni stesso lo considerava "un
affare grandioso e difficile", ma anche così certo e necessario che
non temeva di dire: "Mi pare di essere già padrone dell'Africa!".
Il biografo fa notare che Daniele si
esprimeva più o meno come qualche decennio prima si era espresso, per ben altri
scopi, Napoleone Bonaparte.
Il Piano finì quasi subito nelle mani
di Pio ix, il quale ne restò Impressionato; il Papa ricevette Comboni in
udienza, lo ascoltò a lungo, lo esortò a prendere i primi contatti per saggiare
la possibilità di creare quel difficile coordinamento che avrebbe dovuto
compattare tutte le forze. Poi gli promise che la Santa Sede avrebbe dato
l'appoggio necessario e concluse beneangurante: "Sono lieto che tu
voglia occuparti dell'Africa…Lavora come un buon soldato di Gesù Cristo!".
Comboni raccontò poi che aveva parlato con
tanta foga, incalzando il pontefice fino al punto che, a forza di
indietreggiare, quasi si era trovato con le spalle contro la parete della
camera. A quel punto Pio ix, con le spalle letteralmente al muro, aveva
sorriso, e Daniele era arrossito dalla confusione.
Ma non era passato un mese che aveva già
discusso del suo progetto con una ventina di cardinali e vescovi e col
Superiore Generale dei Gesuiti.
Intanto però era rimasto solo. L'istituto di
don Mazza, al quale Daniele apparteneva, non intendeva assumersi la
responsabilità di quel piano per il quale si prevedevano "grandissime
ed enormi difficoltà".
Così a trentatré anni Comboni cominciò la
sua "vita pubblica" incontrando i responsabili delle principali
istituzioni missionarie operanti allora in Europa. Dopo aver trovato sostegno a
Vienna e Colonia, decise di recarsi in Francia. Di passaggio a Torino, incontrò
don Giovanni Bosco, il santo fondatore dei salesiani, e Alessandro Manzoni. Con
ambedue discusse del progetto che tanto gli stava a cuore.
Attraversò le Alpi in pieno inverno su una
slitta trainata da quattordici cavalli diretto a Lione, uno dei centri più
importanti per il sostegno delle missioni africane.
Il suo piano, tuttavia, non piacque ai capi
della "Società delle missioni estere", la più importante e
accreditata istituzione del tempo.
Ritenevano allarmistici i toni del Comboni
(perché, a dire che i missionari europei non resistevano in Africa, si
sarebbero scoraggiate le vocazioni!), ed eccessiva la fiducia che egli
accordava agli indigeni, i quali non potevano diventare buoni maestri e buoni catechisti;
inoltre, il progetto di coordinamento sembrava loro "imbarazzante e
complicato".
Insomma, "per fini santissimi, il
mio piano fu gettato a terra", raccontò Daniele con amarezza e ironia.
Passo allora a Parigi, poi si recò in
Germania, in Belgio, in Inghilterra, in Spagna, in Svizzera. Riscuoteva molto
interesse; riceveva molte promesse e qualche aiuto economico per aprire una
missione, ma era e restava solo, anche se andava intrecciando numerosissime e
utili relazioni.
La forza e la decisione però gli crescevano
dentro.
Da Londra scriveva a un amico prete: "Mi
sento tanto forte che ormai non cedo più. Se il Papa, la Propaganda (Fide) e
tutti i vescovi del mondo mi fossero contrari, abbasserei la testa per un anno,
e poi presenterei un nuovo Piano: ma desistere dal pensare all'Africa, mai,
mai. Non mi scoraggiano né il "cum quibus" (il bisogno di denaro), né
il "santo amor proprio" delle Congregazioni (religiose) cui sono
affidate le missioni dell'Africa…A suo tempo batterò fuori certo (Cioè:
mendicherò) il denaro... Le qualità di un buon battitore e mendicante sono tre:
prudenza, pazienza, impudenza. La prima mi manca, ma perbacco la supplisco a
meraviglia con le altre due, e soprattutto con la terza!" (Lettera
23.5.1865).
Sapeva che, con l'aiuto di Dio, non avrebbe
ceduto davanti a nessun ostacolo e a nessuna sconfessione: "Ho i nervi
troppo duri, ho sette anime come le donne. Dirò sempre col cuore: sia benedetto
il Signore!" (ivi).
Ma più ancora sapeva che le opere di Dio
maturano tutte e solo nella sofferenza e nella contraddizione: "garanzia
infallibile della buona riuscita e di un felice avvenire".
Dopo un nuovo viaggio esplorativo in Africa,
nel 1866 torna a Verona, ormai divenuta italiana, proprio mentre il nuovo Regno
emana, anche per i territori recentemente annessi, le leggi di soppressione
delle congregazioni religiose.
Nonostante la difficile congiuntura, con un
vago incoraggiamento da Roma riesce ad aprire in città un piccolo "Seminario
per la rigenerazione dell'Africa" sotto la responsabilità del vescovo
diocesano. Per sostenerlo fonda una "pia Opera" che raccoglie
qualche centinaio di amici, alcuni dei quali nobili e prelati.
Nella mente di Comboni è la prima cellula di
quelle molteplici istituzioni europee che dovrebbero raccogliere gli elementi
adatti a realizzare la cintura di opere sulle coste dell'Africa.
Le leggi di soppressione furono
paradossalmente provvidenziali, favorendo l'ingresso nel nuovo istituto di
alcuni religiosi cacciati dai propri conventi.
Comboni può così organizzare la sua prima
spedizione missionaria, mettendosi alla testa di quattro religiosi camilliani,
due suore francesi e una armena, sedici ragazze africane, schiave riscattate ed
educate in Italia.
Al Cairo danno inizio alla prima stazione
"intermedia". Intanto alloggiano in un vecchio convento
maronita e sopravvivono con le offerte che vengono dall'Europa. Pian piano
nascono le prime scuole. Le necessità economiche si fanno subito impellenti e
Comboni deve allontanarsi per una nuova lunga tournée europea.
Qui lo raggiungono in eguale misura onori,
riconoscimenti prestigiosi e aiuti da un lato, e innumerevoli "croci",
sospetti e defezioni dall'altro, spesso per colpa dei più vicini collaboratori.
Soprattutto, deve affrontare le gelosie di
potenti organismi missionari che si sentono minacciati dalla sua concorrenza.
Alla fine giunge la sconfessione da parte di Roma, dove il cardinale prefetto
di Propaganda Fide, prima suo amico, va ripetendo a tutti che "don
Comboni è un matto, un pazzo da quattordici catene...". L'"Opera"
di Verona rischia di essere smantellata.
Resta per fortuna la fondazione del Cairo.
Vi ha già aperto due scuole, e ora, con gli aiuti raccolti in Europa, riesce ad
aprirne una terza per ragazze di diverse razze tra cui anche tre fanciulle
tedesche. In questa, pero, le maestre sono tutte negre: per i tempi
un'incredibile conquista! Ed è una scuola dove si insegnano catechismo, ricamo,
lavori domestici, aritmetica, lingua francese, tedesca, italiana, araba e
armena.
Comboni era fiero di rispondere così, con
evidenza clamorosa, al generale disprezzo con cui musulmani e cristiani
consideravano i negri. Scriveva, narrando della sorpresa che quel collegio
suscitava al Cairo: "Molti anni di esperienza mi hanno convinto che non
solo il musulmano e l'infedele, ma anche il cristiano cattolico di carattere
buono e irreprensibile, fatte poche eccezioni, considera gli infelici neri non
come uomini, come esseri ragionevoli, ma come oggetti che recano guadagno...
Qui il nero come essere ragionevole non ha valore alcuno... E io volli mostrare
vieppiù ai popoli, provandolo con un esempio parlante, che secondo lo spirito
sublime del Vangelo tutti gli uomini, bianchi e neri, sono uguali dinanzi a Dio
e hanno diritto all'acquisizione della fede e alla civiltà cristiana"
(Relazione del 6.6.1871).
E ora gli egiziani non soltanto potevano
constatare che ragazze negre e bianche venivano formate assieme e accedevano
agli stessi livelli di cultura, ma vedevano con i propri occhi, cosa da non credersi!,
delle negre che educavano anche ragazze arabe e tedesche.
Era il 1869, l'anno in cui si inaugurava il
canale di Suez, alla presenza di re e imperatori europei. Alcuni non mancarono
di visitare la scuola. Che orgoglio per Comboni far da guida all'imperatore
Francesco Giuseppe e mostrargli le sue maestre nere capaci di intrattenerlo
correttamente in tedesco!
Dopo l'avventura del Concilio Vaticano I, di
cui abbiamo parlato all'inizio, la Santa Sede impose al missionario di
rafforzare anzitutto le basi veronesi del suo Istituto. Era viva, difatti, la
preoccupazione per quei collegi che sorgevano al Cairo, diretti da un gruppo
raccogliticcio di missionari, diversi per razza, formazione e appartenenze
giuridico-spirituali.
Perciò Comboni dovette cominciare nuovamente
le sue peregrinazioni per l'Europa per ottenere mezzi con cui aprire le
case-madri del suo istituto, una per il ramo maschile che stentava a crescere e
una per quello femminile che non esisteva ancora.
Da questo consolidamento dipendeva il permesso
di fondare una missione nell'Africa Centrale, che era il vero sogno di Comboni.
Finalmente, nel 1872, Pio IX nominò Comboni
Provicario Apostolico dell'Africa Centrale. In pratica gli veniva riconosciuta
autorità su tutti i missionari che operavano nell'immensa zona, ampia quasi
"venti volte la Francia": "la più grande missione
dell'universo", diceva lui con fierezza.
Oggi ci fanno tenerezza i suoi tentativi di
trasmettere anche solo un'idea della situazione ai propri illustri
interlocutori.
In una lettera al vescovo di Verona si
legge: "Poniamo che il moderno Regno d'Italia sia tutta l'Africa, che
la Toscana e lo Stato Pontificio da Ferrara a Frosinone siano l'Africa interna
o Nigrizia; e che il Tirolo sia l'Europa. Secondo una tale ipotesi, Verona corrisponderebbe
a Roveredo, Il Cairo a Venezia, Assuan a Ferrara, Khartum a Pistoia, la tribù
dei "dinka" a Firenze, la tribù dei "bari" a Siena, la
sorgente del Nilo a Roma... Che cosa abbiamo fatto noi finora? Un solo
piccolissimo passo. Abbiamo cominciato nella città di Roveredo un piccolo
collegio per allevare missionari per il Regno d'Italia..." (Lettera
21.5.1871). E continua descrivendogli tutta la sua opera e i suoi progetti in
"scala ridotta", a misura italiana.
Allo stesso modo fa sorridere il modo in cui
a volte spiegava agli europei le "necessità" dei suoi neri.
Non senza umorismo, scriveva: "Bisogna
pensare che su cento milioni di infedeli di cui è composto il mio Vicariato, ce
ne sono più di ottanta milioni che vanno nudi completamente, uomini e donne.
Ora, per stabilire la fede cattolica, bisogna vestire almeno le donne e un po'
gli uomini. Per vestirli è una spesa enorme, perché una pezza di tela ordinaria
costa almeno quaranta franchi... Al momento in cui le scrivo, non abbiamo
neanche la biancheria per noi..." (Lettera 31.7.1873).
Dal Cairo i missionari ricominciarono a
penetrare nell'interno. Quando raggiunse Khartum, Comboni disse con un sospiro
che "aveva finalmente recuperato il suo cuore, lasciato li sedici anni
prima".
Fece allora la sua più celebre omelia:
"lo ritorno tra voi per non cessare mai più di essere vostro... Il
vostro bene sarà il mio, e le vostre pene saranno pure le mie. Io prendo a far
causa comune con ciascuno di voi, e il più felice dei miei giorni sarà quello
in cui potrò dare la vita per voi" (11.5.1873).
E nella prima lettera pastorale, dichiarò la
sua intenzione di consacrare solennemente al Cuore di Gesù quella sua immensa
Diocesi. Ciò che fece con una solennissima liturgia, prescrivendo di ripetere
poi la consacrazione in tutte le chiese a ogni primo venerdì del mese.
Si spinse quindi,
a dorso di cammello, fino a EI Obeid, capitale del Cordofan, una città popolata
in gran parte da schiavi. Il Governatore, che aveva sentito parlare delle idee
e del carattere focoso di Comboni, si affrettò a comunicargli che "la
schiavitù era stata abolita il giorno prima de suo arrivo". Diceva
questo mostrando la copia del trattato di Parigi del 1856, sulla proibizione
della. schiavitù, che aveva tenuto nel cassetto per diciassette anni.
Si sente in
tantissime lettere l'angoscia che il missionario provava per quest'infame
commercio che era deciso a stroncare in ogni modo.
"A centinaia partono i negozianti di
schiavi armati di fucili, e vanno nelle tribù a cacciare i neri, e per rubarne
mille ne ammazzano almeno duecento. Si incontrano sulla via questi schiavi a
piedi, d'ogni età e sesso, mescolati assieme, ma il più ragazze dai quattro ai
vent'anni, vestite come la madre Eva in stato d'innocenza, legate al collo, ora
con funi attaccate a una lunga trave che poggia sulle spalle di dieci o dodici
di queste infelici in fila, altre legate con le mani di dietro o strette con
catene grosse di ferro ai piedi…, e così spinte dalle lance di quei manigoldi,
viaggiano a piedi per due o tre mesi facendo dodici o quindici ore di viaggio
al giorno... Questa non è che una languida idea degli orrori della schiavitù
che imperversa nel mio Vicariato" (Lettera 10.3.1874).
Non era raro che Comboni e le sue suore
trovassero con raccapriccio, sui sentieri che percorrevano, i corpi degli
schiavi uccisi a bastonate o abbandonati, perché non erano riusciti a reggere
il ritmo infernale della marcia.
Benché esistessero da tempo delle leggi
contro la tratta dei negri, i principali trafficanti erano proprio i
Governatori e i Pascià. Comboni cominciò ad esigere l'osservanza delle leggi, a
ripristinare una sorta di diritto d'asilo.
"Io ho dichiarato ai Pascià di
Khartum e di Kordofan che quanti schiavi trovo in città o fuori legati ecc.,
tutti li faccio condurre alla missione e non li restituisco più, tutti quelli
poi che si presentano alla missione per denunciare i maltrattamenti che
ricevono dai loro padroni... li trattengo e non li restituisco (...). Già a
quest'ora ne ho liberati più di 500. 'Le corna di Cristo, dice a don Mazza,
sono più dure di quelle del diavolo'" (Lettera 24.6.73).
E tutti comprendono che tale espressione
popolare, che suona un po' irrispettosa, vuole solo trasmettere la forza con
cui Cristo ama e difende i suoi poveri: una forza da cui Comboni si sentiva
afferrato.
Ai suoi missionari egli insegnava che la
Chiesa non solo doveva riconquistare il suo antico diritto di asilo, ma doveva
anche considerarsi, in questo campo, "fonte del Diritto":
"Nel trattare... gli affari degli
schiavi, si ponga ogni studio per conquistare e crearsi di fatto il diritto di
asilo, avendo sempre in massima che la Missione Cattolica in quelle tribù è
legislatrice; e si applichino nella pratica le regole e lo spirito del Vangelo
e della Chiesa, di proteggere cioè e di difendere a tutta possa, al cospetto
dei sovrani e dei capi, la libertà e gli interessi spirituali degli schiavi,
per ammetterli poi nell'ovile di Cristo" (Lettera 29.6.1877).
E non temeva di denunciare in Europa che i
consoli generali di Francia e di Vienna, i quali avrebbero dovuto esigere in
Egitto l'applicazione dei trattati antischiavitù, "erano tutti comprati".
Intanto cercava di rafforzare in ogni modo
le postazioni conquistate e di spingersi quanto più possibile verso l'interno.
Non mancavano le soddisfazioni e gli
entusiasmi. E non mancavano le sofferenze d'ogni genere.
Non erano solo le inevitabili sventure,
malattie e morti di alcuni collaboratori, i gravi incidenti e le spedizioni
disastrose, ad affliggere Comboni, erano soprattutto le lacerazioni all'interno
del suo istituto.
Già nel 1872 scriveva: "Bisogna
patire grandi cose per amore di Cristo, combattere con i potentati, con i
turchi, con gli atei, con i frammassoni, coi barbari, con gli elementi, coi
preti, coi frati, col mondo e con l'inferno"
Ma la situazione tendeva a peggiorare perché
i missionari che accorrevano sotto la sua guida avevano provenienze e storie
personali diversissime. Accanto al giovane entusiasta e inesperto, c'erano
adulti già esperimentati e "fissati" nelle proprie idee e ne propri
metodi; c'erano frati di diverse congregazioni e diverse spiritualità, pronti a
tutto meno che ad abbandonare i propri criteri; c'era chi cercava solo di
sfuggire a difficoltà che aveva avuto in patria; chi nascondeva un passato
piuttosto oscuro; chi cercava l'avventura e perfino il proprio tornaconto; chi
cedeva alle proprie debolezze e chi si santificava eroicamente.
Così, da un lato c'era la straordinaria
personalità di Comboni con gli inevitabili limiti: era un entusiasta,
attivissimo, impetuoso, a volte anche caotico nei dettagli, soprattutto
nell'amministrazione, sempre pronto a dare fiducia a tutti, anche a chi non la
meritava, proteso a un unico scopo al punto da accorgersi troppo tardi delle
trame altrui. Si aggiunga che spessissimo doveva assentarsi dalla missione sia
per mettere ordine negli istituti-base di Verona, sia per viaggiare in lungo e
in largo attraverso l'Europa centrale ("da Madrid a Mosca")
alla ricerca di fondi. E uno dei pochi casi nella storia di un fondatore che
inizia un istituto e lo regge vivendo in frontiera, senza potersi curare
personalmente delle fondamenta. La vicenda di Comboni è per certi versi
paradossale: come quella di un generale costretto a dirigere l'esercito
restando sotto il fuoco, in prima linea.
Dall'altro lato c'era alle sue dipendenze
quel gruppo composito di missionari tra i quali era facile rinvenire sia i
santi che i mediocri. E spesso le stesse persone erano a volte sante, a volte
meschine. Nascevano malintesi, ostilità, dissensi, rancori, defezioni, gelosie,
calunnie, la cui eco giungeva fino a Roma, inducendo la Santa Sede a prendere
informazioni e a fare spiacevoli inchieste.
Comboni soffriva, ma non si lasciava
turbare: "Mi hanno combattuto santi e briganti", diceva. Si
difendeva quando glielo chiedevano, ma accettava tutto purché tutti lavorassero
a vantaggio dei suoi "poveri neri".
Non dobbiamo scandalizzarci, perché tra
tante scorie brillava anche dell'oro.
Ecco come Comboni racconterà, pochi mesi
prima di morire, lo scontro con uno dei suoi missionari più critici: "Allora
io conchiusi: 'Figlio mio, scrivi ciò che vuoi a Sua Eminenza contro di me;
scrivi anche a Roma alla Propaganda e al Papa che io sono una canaglia, degno
del capestro ecc. Ma io ti perdonerò sempre, ti vorrò sempre bene: basta che tu
resti sempre in missione e mi converta e mi salvi i miei cari Nubiani, e tu
sarai sempre mio caro figlio, e ti benedirà fino alla morte'. Allora egli mi
rispose: 'Per questo non dubiti, io morirò nella Nigrizia, e dove lei mi
destinerà a lavorare per i negri'. Allora io lo abbracciai e gli dissi:
'Moriamur pro Nigritia' " (Lettera 16.7.1881).
Nonostante le calunnie e le resistenze di
molti sui collaboratori, fu nominato vescovo. Anzi, a leggere il decreto di
nomina, ci si accorge che la nomina intendeva anche riabilitarlo solennemente
dopo le accuse subite.
Tornò dunque da vescovo nella sua immensa
diocesi e dovette subito affrontare una situazione disperata. Proprio
quell'anno una spaventosa siccità aveva colpito il Sudan. Alla siccità era
seguita la carestia, quindi la fame, e le epidemie di tifo e di vaiolo. La
gente moriva senza pietà.
La popolazione di intere città e villaggi
era più che dimezzata. Si beveva la stessa poca acqua che serviva per lavarsi;
ci si sfamava con tutto ciò che sembrasse commestibile: dalle suole dei sandali
a cani, gatti, topi. Si disseppellivano le ossa di animali morti.
Anche i missionari venivano abbattuti dalla
peste uno dopo l'altro.
Comboni restava sempre più solo. In Europa,
su tanta tragedia, nessuno sprecava nemmeno una parola.
Avendo quasi tutti i confratelli ammalati,
scrive: "Di preti, mi trovo solo, e faccio da vescovo, superiore,
pretino, medico, infermiere e becchino".
Segui un'ondata di paura alla missione:
tutti coloro che erano giunti con scarse motivazioni spirituali fuggirono o
ritornarono in patria, molte suore furono richiamate in Europa dalle rispettive
Congregazioni:
"Ho sofferto di tutto... Le assicuro
che Giobbe il giusto ha navigato nelle gioie e nelle delizie in confronto a me.
Egli ha avuto più pazienza di me, ma io ho sofferto più di lui",
racconterà poi a una benefattrice.
Vi è forse un po' di esagerazione per
commuoverla, comunque prosegue non volendo certamente mentire "Sono
stato quattordici mesi senza poter dormire un'ora sola su ventiquattro".
Conclude: "Ma per quanto spezzato
dalle fatiche dalle amarezze e da tante pene, mi sento un coraggio da leone...
L'opera di Dio deve procedere nel cammino della Croce e bisogna ringraziare Dio"
(lettera 15.8.1879).
E costretto a tornare nuovamente in Europa
nel tentativo di trovare nuove forze in uomini e mezzi.
E come al solito, quando si allontana,
ricominciano a circolare le lettere di lamento per quel vescovo sempre in giro
per il mondo. Roma, da un lato, lo usa per mille incombenze, dall'altro lo rimprovera
per assenteismo. Anche il vescovo di Verona non è totalmente corretto.
C'è tanta meschinità attorno a questo
gigante buono che si agita per la sua povera gente.
Ma comincia a circolare in Italia anche
l'accusa più infamante:
Comboni avrebbe una passione morbosa per una
suora di origine siriana che lo ha molto aiutato in Africa e che ha chiesto di
passare al suo istituto.
Ora ella è nella sede di Verona dove, benché
abbia più esperienza missionaria di tutte, si pretende trattarla come una
novizia.
Comboni la difende. A chi sospetta, ribatte
con fierezza: "Ho sudato e patito per salvare bianchi, neri,
protestanti, turchi, infedeli, peccatori e prostitute. Ho questuato da Mosca a
Madrid e da Dublino all'India per salvare neri e bianchi, per favorire vocazioni
a buoni e cattivi, ho fatto bene a gente che poi mi ha sputato in faccia..., ho
questuato e sudato per alimentare poveri, infelici, preti, frati, monache e
bastarde, e non suderò e questuerò per Virginia che fu uno dei più fedeli e
valenti operai della vigna aspra e difficile dell'Africa, e che sempre mi
trattò bene?" (Lettera 19.3.1881).
Così nel difendere una sua singola figlia,
egli descrive la larghezza smisurata del suo cuore di apostolo ma per certi
individui gretti e sospettosi, questa è una prova in più.
Poté tornare in missione agli inizi del
1881. Le sofferenze causate dalla siccità non erano finite e le risorse
economiche si prosciugavano sempre più rapidamente.
In Italia, intanto, continuavano le
chiacchiere sulla sua presunta relazione, con grave danno per la suora che
veniva per tal motivo osteggiata, guardata con sospetto e trattata con palese
ingiustizia Dicevano che era "una piaga della missione".
Daniele sfida le chiacchiere e la difende a
spada tratta. "Io ho sempre salvate le anime e non ne ho perduta mai
una... Io, sapendo quanta fiducia Virginia ha posto in me, nel mio carattere di
vescovo, di fondatore e di padre non posso e non devo tradirla".
Arriverà fino a dire: "Dio mi darà
premio per quel che ho fatto per Virginia, al pari e più di quello che posso
meritare sudando per tutta la vita e morendo per salvare la Nigrizia"
(Lettera 24.9.188 1).
Ed è quasi incredibile che un uomo che ha
smosso imperatori e cardinali, nobili e intellettuali a favore dell'Africa
scriva ugualmente lettere su lettere al Cardinale prefetto di Propaganda
Fide per difendere una suora ingiustamente accusata, convinto che dalla
salvezza di una sola anima dipende la salvezza del mondo. Ed erano le ultime
lettere della sua vita.
"Spero da Gesù il Paradiso per
quello che ho fatto per questa povera infelice", grida in una lettera,
sei mesi prima di morire.
Ma grida ugualmente che nel suo cuore "non
c'è mai stata altra passione che l'Africa". "L'Africa mia
amante", scrive un giorno con una dignità che i suoi detrattori
neppure sanno immaginare.
La meschinità, tuttavia, non conosce limite,
al punto che improvvisamente Daniele Comboni, che si è sempre battuto come un
leone, sembra arrendersi. Lui, che non si è mai preso riposo, se ne sta a letto
abbattuto, senza più voglia di reagire, fingendo perfino un inesistente mal di
schiena. Qualcuno difatti ha riferito al suo vecchio padre di settantotto anni
la calunnia della sua relazione con la suora e il povero vecchio "contrastatissimo"
ha pianto come un bambino. Gli aveva poi scritto: "Capisco che devo
morire con una piaga nel cuore, che Dio ti benedica".
"Ecco il mio estremo e grande
dolore, scrive a sua volta Daniele, che si inveisca contro di me, che mi si
denunci al Papa. Sarà un danno per la missione qualche anno di mia assenza
dall'Africa per giustificarmi davanti all'infallibile 'Vicario di Cristo', che
è padre di tutti... Ma disturbare e affliggere un santo vecchio, che non solo
mi ha dato la vita materiale, ma più ancora la spirituale, questo è troppo...
Sia fatta la divina volontà. Tutto è disposto da Dio che accoglie sempre il
gemito degli afflitti e protegge l'innocenza; e mio padre morendo con una piaga
ai cuore basata sulla calunnia, sul sospetto e sulla menzogna..., acquisterà
una nuova corona in cielo, ove spero fra breve ci troveremo insieme"
(Lettera 13.8.1881).
Due mesi dopo aver scritto questa lettera
Daniele moriva prima ancora del papà, a cinquant'anni.
Proferendo fino all'ultimo parole di scusa
per i suoi detrattori, si dice convinto della loro buona fede, li accetta
ancora come collaboratori, mentre la sofferenza lo distrugge:
"Mi trovo qui sul campo di battaglia
esposto a perdere, per Gesù e per gli infedeli, ad ogni istante la vita, e
mentre sono oppresso e immerso in un oceano di tribolazioni che mi squarciano
l'anima" (Lettera 24.9.81).
Forse questo accenno a un campo di battaglia
si riferisce a una notizia dell'ultima ora, che ha trasmesso per primo in
Europa.
Corre voce che "il Sudan è in piena
ribellione, a causa di un sedicente profeta che si dice mandato da Dio a
liberare il Sudan dai Turchi e dall'influenza cristiana" (Lettera
13.8.1881).
Era l'inizio della celebre e sanguinosa
"guerra santa" del Mahdi che stava per spazzare via
dall'Africa centrale ogni traccia di presenza cristiana. Comboni ebbe
segretamente notizia dei primi scontri e dei primi massacri delle truppe
governative.
"Allegri, conclude, andremo in
Paradiso più presto! Viva Gesù".
Mori dopo due mesi, colpito da febbre nera.
Non molto tempo dopo il Mahdi distrusse tutta la sua opera e perfino la sua
tomba, tenendo prigionieri i suoi missionari superstiti per diciassette anni.
A poco più di un secolo dalla morte di
Comboni, il 10 febbraio 1993, sulla più grande piazza di Khartum messa a
disposizione dalle autorità mussulmane forse allo scopo di rendere evidente e
ridicola l'esiguità del numero dei cristiani sudanesi, Giovanni Paolo II verrà
accolto da un milione di fedeli, che ancora vivono in condizioni di
persecuzione. Proprio in quella occasione i vescovi del paese manifestarono al
pontefice il loro desiderio di veder santificato Comboni, da loro considerato
padre nella fede.
"Noi, dice oggi il vescovo del
Sudan, siamo il suo sogno divenuto realtà".