Le martiri di Compiègne
Tratto dal libro: RITRATTI
DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Le martiri di Compiègne sono sedici monache
carmelitane uccise durante la Rivoluzione francese.
Di questa Rivoluzione oggi si ricordano
soprattutto quelle tre grandi parole su cui tutti gli uomini sembrano essere
d'accordo: Libertà, Uguaglianza, Fraternità.
Perfino Giovanni Paolo II disse al Bourget
ai giovani francesi:
"È risaputa la posizione che occupa
nella vostra cultura e nella vostra storia l'idea di libertà, uguaglianza e
fraternità. In fondo queste sono idee cristiane. Lo dico consapevole del fatto
che coloro che hanno formulato per primi questi ideali non si riferivano alla
Saggezza Eterna. Ma essi volevano operare a favore dell'uomo".
Ancora si discute se il trinomio abbia
origini cristiane o massoniche; si sa però che la Rivoluzione preferì
all'inizio insistere più sul binomio Liberté-Egalilé che sul termine Fraternité,
giudicato comunque troppo sentimentale e troppo "cristiano".
Di fatto la lotta più dura venne scatenata
in nome di quei due primi "valori" ed emerse così l'opposta maniera con
cui illuministi e credenti concepiscono la "ragione".
Per la cosiddetta "ragione
illuminista", proclamare che "gli uomini sono liberi e uguali nei diritti"
(articolo 1° della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, del 1789)
significava non ammettere nulla prima di questa formulazione, non darle nessun
fondamento oltre la ragione stessa che la produce e la riconosce. Venne
unicamente mantenuto un generico ed estrinseco appello alla
"presenza" e agli "auspici" dell'Essere Supremo, che scomparirà
nelle Dichiarazioni dei secoli successivi.
Invece per la "ragione illuminata dalla
fede" gli uomini sono liberi e uguali nei diritti perché godono tutti di
una prima e inalienabile dignità: quella di essere figli di Dio, da Lui amati,
creati, salvati.
L'abissale distanza tra le due impostazioni
potrebbe essere colta da una opportuna e profonda riflessione, ma risalta ancor
meglio quando quei conclamati diritti di "libertà" e
"uguaglianza" devono essere concretamente riconosciuti, difesi e
applicati.
La storia delle nostre martiri offre un
esempio "luminoso", nel senso che vi risalta con ogni chiarezza la
differente "luce" di cui la ragione si serve.
La famosa Dichiarazione dei diritti
dell'uomo fu promulgata il 26 agosto 1789; pochi mesi dopo giunse
puntualmente la proibizione di emettere i voti religiosi (in nome della libertà
individuale), e la soppressione degli Ordini religiosi, a cominciare da quelli
contemplativi.
Il teorema era semplice: non può essere
libero chi si rinchiude in un convento e si vincola con dei voti; se qualcuno
lo fa è segno che è stato costretto. Compito della ragione (e della Nazione) è
restituirgli la Libertà.
Fu allora che le priore di tre monasteri
carmelitani, a nome di tutti gli altri, inviarono all'Assemblea Nazionale un
"indirizzo" in cui si legge:
"Alla base dei nostri voti c'è la
libertà più grande; nelle nostre case regna la più perfetta uguaglianza; noi
qui non conosciamo né ricchi, né nobili. Nel mondo si ama dire che i monasteri
rinchiudono vittime consumate lentamente dai rimorsi; ma noi confessiamo
davanti a Dio che, se c'è sulla terra la felicità, noi siamo felici".
Quei rivoluzionari, a riguardo di voti e
monasteri, avevano la ragione illuminata da ciò che avevan letto o sentito dire
da letterati, teatranti, gazzettisti e filosofi, che avevano dato vita a idee
morbose e romantiche, simili a quelle che ancor oggi si trovano in certi
romanzi d'appendice o in certe "telenovele".
Perciò la persecuzione cominciò con la
cavalleresca e ridicola sollecitudine di uno stuolo di ufficiali municipali che
si presentarono alle porte dei monasteri per offrirsi come paladini e
liberatori.
Siamo in grado di descrivere esattamente ciò
che accadde nel monastero di Compiègne, dove allora si trovavano 16 religiose
professe. C'era anche una giovane novizia che all'ultimo momento era stata
impedita dal prendere i voti, proprio da quel decreto che "non riconosceva
più ne voti religiosi né alcun altro arruolamento che sia contrario ai diritti
naturali".
Giunsero dunque gli ufficiali municipali,
violarono la clausura e si insediarono nella grande sala capitolare. Alle due
porte furono messe quattro guardie. Altre guardie furono schierate, una alla
porta di ogni cella, per impedire che le suore potessero comunicare fra loro e
soprattutto che avessero contatti con la Priora; anche le altre porte dei
chiostri furono presidiate.
L'idea che altrimenti le monache sarebbero
state soggiogate e costrette a mentire dalla presenza della loro superiora (o
da qualche consorella più dispotica) era data per assolutamente certa.
Ogni monaca venne dunque convocata
singolarmente; a ognuna il presidente "annunciava (testualmente!) di
essere apportatore di libertà, e l'invitava a parlare senza timore e a
dichiarare se voleva uscire di clausura e tornarsene in famiglia...". Un
segretario intanto prendeva accuratamente nota delle risposte (la cui
veridicità è perciò garantita dagli stessi "oppositori").
Questa sconfinata presunzione di sapere bene
cos'è libertà e di giungere come attesi liberatori è più illuminante dei
dibattiti filosofici e teologici, soprattutto se la si confronta con la libertà
sperimentata proprio da coloro che si pretendeva liberare.
La priora, convocata per prima, dichiarò
"di voler vivere e morire in quella santa casa".
Un'anziana disse "che era suora da 36 anni
e ne avrebbe desiderati ancora altrettanti per consacrarli tutti al
Signore".
Una suora disse d'essersi fatta religiosa
"di suo pieno gradimento e di propria volontà" e di essere
"fermamente risoluta a conservare il proprio abito, anche a prezzo del proprio
sangue".
Un'altra spiegò che "non c'era felicità
così grande come quella di vivere da carmelitana" e che "il suo più
ardente desiderio era di vivere e di morire tale".
Un'altra ancora insisté che "se avesse
avuto mille vite, tutte le avrebbe consacrate allo stato che aveva scelto, e
che nulla poteva convincerla ad abbandonare la casa dove abitava e dove aveva
trovato la sua felicità".
Un'altra consorella aggiunse che
"approfittava di quella occasione per rinnovare i suoi voti religiosi, e
anzi ne approfittava anche per regalare ai magistrati una poesia che aveva
appena finito di scrivere, sull'argomento della sua vocazione" (ma quelli,
andandosene, lasciarono il foglio sul tavolo, con disprezzo).
E un'altra ancora precisò che "se
avesse potuto raddoppiare i vincoli che la legavano a Dio, lo avrebbe fatto con
tutte le forze e con immensa gioia".
La più giovane professa, che aveva emesso i
voti proprio in quell'anno, osservò che "una sposa ben nata resta col suo
Sposo, e che perciò niente la poteva indurre ad abbandonare il suo Sposo
divino, Nostro Signore Gesù Cristo".
Insomma, la risposta di tutte era, a dirla
nel modo più semplice, che volevano "vivere e morire nel loro
monastero".
Certamente molte di loro neppure se ne ricordavano,
o non lo avevano mai sentito raccontare, ma le loro risposte erano proprio
simili a quella che, nei primi secoli cristiani, il Santo vescovo Policarpo
aveva dato al procuratore romano: "Da ottantasei anni servo Cristo, e non
mi ha fatto alcun torto: come posso rinnegare il mio re e il mio
salvatore?".
Le monache di Compiègne divennero martiri,
quando, senza nemmeno rendersene conto, cominciarono a usare il linguaggio dei
martiri; il linguaggio di chi, messo alla prova definitiva, afferma con tutto
il cuore che "niente lo potrà mai separare da Cristo".
E poiché la minaccia della morte è ormai
sullo sfondo, ciò equivale a dare la grande testimonianza, ad affermare cioè
che Cristo fa parte della definizione del proprio io, della propria vita, al
punto che morire per Lui non è una sventura, ma un guadagno.
Non si può in questa vita pronunciare la
parola "Io" in forma più piena e più definitiva di quando ci si
consegna nelle mani di chi, a causa di Cristo, ci vuoi togliere l'esistenza.
Perché è proprio allora che Gesù si
immedesima totalmente col nostro "Io" fragile e pauroso, per
sostenerlo e dargli forza e gioia.
Non venne interrogata la novizia perché non
aveva voti e quindi, prima o poi, doveva tornarsene a casa per forza.
Anzi i parenti erano venuti per
riprendersela, ma si erano sentiti rispondere che "niente e nessuno poteva
separarla dalla comunione con la madre e con le sorelle di quel
monastero". Se ne erano ritornati dichiarando "di non voler più
sentir parlare di lei, e nemmeno ricevere sue lettere": dando così
paradossale conferma alla scelta delle ragazza.
Il testo delle risposte, sia nella unanimità
che nei tratti caratteristici, rivela il profilo delle martiri di cui stiamo
narrando la storia.
Ed è giusto avvertire subito che dal punto
di vista del diritto canonico solo impropriamente si parla delle "sedici
carmelitane di Compiègne". In realtà le monache uccise furono quattordici,
le altre due vittime furono le inservienti laiche delle monache, così
affezionate che vollero condividere la sorte delle loro suore fino a condividere
anche la stessa passione e la stessa gloria. Nella realtà, perciò, dopo quella
"professione solenne" del martirio, non possiamo più fare distinzioni
tra loro: sono, per decisione di Dio, "sedici monache carmelitane".
Possiamo anche aggiungere con fierezza che
in tutti i monasteri di Francia, che contavano allora circa millenovecento
religiose, le defezioni furono soltanto cinque o sei.
Intanto l'Assemblea Nazionale continuava a
dare dimostrazione traumatica di come la cosiddetta "ragione illuminata"
non riuscisse i comprendere quel "fatto nuovo" (anche se vecchio di
secoli, e appesantito) che è la Chiesa. Parole come Rivelazione, Tradizione,
Autorità, Appartenenza erano ostinatamente percepite come opposte
alla Libertà.
Si negava ad ogni costo quella evidenza che
le monache si intestardivano invece a testimoniare: che si è perfettamente
liberi solo nella più stretta e devota consegna di sé; che una libertà amante
non teme di legarsi e di dipendere; che alla libertà non si oppone
l'appartenenza, ma la costrizione.
Allo stesso modo, in nome di una Uguaglianza
razionalisticamente intesa si cominciò a volere ridisegnare la struttura
stessa della Chiesa.
Anzitutto si pensò di dare una Costituzione
civile al clero con la quale obbligare i preti a prestare un giuramento di
fedeltà alla Nazione; demandare alle Assemblee dipartimentali le elezioni dei
preti e dei vescovi; ridurre le diocesi a strutture amministrative; rinunciare
ai segni distintivi (ad es. l'abito religioso).
Chi non accettava queste disposizioni poteva
essere condannato alla deportazione o alla morte come "refrattario":
non volendo lasciarsi rendere uguale in un campo in cui Cristo aveva previsto
qualche "diseguaglianza".
Nemmeno il Papa doveva emergere da quella
palude di egualitarismo: cristiani, preti e vescovi lo potavano al massimo
venerare e informare, ma il legame con lui doveva restare
inincidente e superfluo.
C'era poi da spingere il processo di
"liberazione" fino a sciogliere la ragione da tutte le indebite
pastoie e fino a farla trionfare su tutti i "fanatismi": dogmi,
miracoli, credenze nell'al-di-là e simili.
Poiché questa "libertà" e questa
"uguaglianza" non potevano essere accettate dai cristiani che
volevano restar fedeli a Cristo e alla sua Chiesa, essi non potevano nemmeno
essere considerati "fratelli". E venne il Terrore.
Nel solo mese di settembre del 1792 vi
furono circa milleseicento vittime. Tra di essi almeno duecentocinquanta preti
massacrati nel convento dei Carmelitani di Parigi.
Nel Carmelo l'idea del martirio non era
strana e lontana. In quest'Ordine religioso era vivo il ricordo degli
insegnamenti di Teresa d'Avila che fin da bambina aveva cercato il martirio per
il desiderio di "vedere Dio" e di affrettare l'incontro con Lui, e
aveva poi profetizzato: "In avvenire quest'Ordine fiorirà e avrà molti
martiri". "Quando si vuole servire Dio sul serio, ella insegnava, il
minimo che gli si possa offrire è il sacrificio della vita".
San Giovanni della Croce aveva udito un
giorno un suo confratello dire che "con la grazia di Dio sperava di
riuscire a sopportare pazientemente anche il martirio, se fosse stato proprio
necessario" e gli aveva ribattuto con infinita meraviglia: "e lo dite
con tante tiepidezza, fra Martino? Dovreste dirlo con grandissimo desiderio!".
E ancor più le carmelitane francesi non
potavano dimenticare che Teresa d'Avila aveva riformato il Carmelo proprio
perché "scossa dalle sventure che desolavano la terra e la Chiesa di
Francia". Offrire a questo scopo la vita faceva quasi parte della loro vocazione
più originaria.
Nella Pasqua del 1792 la Priora di
Compiègne, lasciando ogni monaca libera di decidere, propose a chi lo
desiderava di offrirsi con lei "in olocausto, per placare la collera di
Dio, e in modo che questa divina pace, che il suo caro Figlio è venuto a
portare nel mondo, sia restituita alla Chiesa e allo Stato".
Le due più anziane all'inizio furono prese
dall'angoscia: le terrorizzava il pensiero della lugubre ghigliottina; ma poi
vollero offrirsi assieme a tutte le loro sorelle. Da allora la comunità
rinnoverà l'atto di offerta, ogni giorno, durante la Santa Messa, legandosi
sempre più coscientemente al Sacrificio di Cristo.
Il 12 settembre ricevettero l'ordine di
abbandonare il monastero, che venne requisito.
Subaffittarono allora delle stanze, in uno
stesso quartiere, in quattro case vicine, e si divisero in gruppetti, riuscendo
a comunicare tra loro passando tra i giardini e i cortili interni.
Non avevano più monastero, né clausura, né
grate, né chiesa. Periodicamente si riunivano nell'abitazione della Priora, per
averne sostegno e guida, e per il resto cercavano come potevano di osservare la
loro regola di preghiera, di silenzio e di lavoro, anche in quella situazione
così inattesa e precaria.
E l'intero quartiere sapeva e cercava di
vivere più sommessamente, con più silenzio e sobrietà, quando le monache
stavano pregando.
Intanto era iniziato il Grande Terrore
(ottobre 1793 - giugno 1794) favorito dalla guerra della Francia contro gli
altri stati europei all'esterno, dalla guerra civile all'interno, e da una
gravissima crisi economica.
Il Tribunale rivoluzionario varò la
"Legge dei sospetti". In giudizio non occorrevano più né prove, né
difensori; il semplice sospetto bastava per condannare alla pena capitale.
Al potere c'era ora la più rigorosa ideologia
giacobina che esigeva una completa scristianizzazione: abolizione del
calendario cristiano, della settimana e della domenica; sostituzione di nomi e
cognomi cristiani per uomini, strade, piazze, villaggi, città; chiusura e
distruzione di chiese e di reliquie; sconsacrazione di tutti gli edifici di
culto; introduzione di nuovi culti e nuove feste.
È in questa occasione che viene creato il
termine "vandalismo" per indicare la distruzione insensata del
patrimonio artistico, pur di eliminare ogni segno dell'antica fede.
Possediamo alcune lettere che il
responsabile del Distretto di Compiègne, un cerro Andrea Dumont, che aveva
cambiato il nome Andrea in quello di Pioche ("Zappa"), inviava allora
a Parigi, al Comitato di Sicurezza Nazionale:
"Cittadini colleghi, la canaglia
ecclesiastica sente che si avvicina la sua ultima ora... Le imposture di questi
animali sono ormai smascherate e gli stessi cittadini delle campagne porgono
aiuto per sgombrare le antiche chiese. I banchi sono adoperati presso le società
popolari e negli ospedali. I pezzi di legno, che si chiamavano santi o sante,
servono a riscaldare i locali delle amministrazioni. Le nicchie, che si
chiamavano confessionali, sono convertite in casotti per le sentinelle. I
teatri dei ciarlatani, che si chiamavano altari, e sui quali i preti facevano
giochi di prestigio, sono rovesciati. I pulpiti, che servivano all'impostura,
sono conservati per la pubblicazione delle leggi e per l'istruzione del popolo.
Le chiese sono convertite in mercati, cosicché il popolo va a comprare merci e
derrate la' dove da tanti secoli andava ad ingoiare veleno".
Ma poiché a Parigi non si fidavano di tanto
zelo, insisteva dopo alcune settimane:
"Il vostro timore, intorno ai preti e
ai pazzi che li ascoltano, è senza fondamento. La verità ha fatto sparire
l'impostura; le tenebre dell'una non potrebbero mai oscurare il chiarore
dell'altra, e quindi ogni sforzo di questa gente da chiesa cadrebbe nel vuoto.
Se la salvezza della patria è tanto certa quanto è indubitato che qui i preti
sono smascherati, noi possiamo dire ben a ragione che qui "la Repubblica è
salva"; o piuttosto: la salvezza della patria e lo sterminio dei preti
sono del pari assicurati".
In realtà quel Pioche si vanterà poi
d'averli imbottiti di chiacchiere: lui "si era contentato di inviare
inchiostro, quando quelli chiedevano sangue". E aveva continuato a
proclamare: "Compiègne e a infinita distanza dal fanatismo!".
"Fanatico-Fanatismo": ecco la
parola che in quegli anni riassumeva ed esprimeva i peggiori sospetti. Essa
bastava da sola per sostenere decine di condanne a morte ed è rimasta una
parola obbligata del linguaggio anticlericale fino ai nostri giorni.
Di per sé ogni uomo può essere fanatico
tranquillamente, anche nelle forme più bieche e volgari e ciò fa parte della
libertà di espressione"; ma se la Chiesa vuol accennare a ciò che per lei
e irrinunciabile, o è irrinunciabile per la stessa dignità dell'uomo, allora
l'accusa di intolleranza e di fanatismo non si fa mai attendere, e trova sempre
un coro che l'amplifica e la diffonde. Anche questa è una eredità
dell'illuminismo.
Di "fanatismo" vennero dunque
accusate le carmelitane che continuavano a vivere come se fossero in monastero:
le abitazioni furono perquisite, le suore arrestate, i loro oggetti sacri
profanati e infranti. Quando il tabernacolo fu gettato a terra e spezzato, uno
dei sanculotti ne spinse i pezzi col piede verso una ragazzina dicendole:
"Cittadina, prendi: puoi farne una
cuccia per il tuo cane".
Intanto le monache dapprima furono radunate
in un vecchio convento tramutato in prigione, poi vennero inviate a Parigi con
una denuncia che le accusava, tra l'altro, di "arrestare il progresso
dello spirito pubblico ricevendo nelle loro case persone le quali venivano poi
ammesse ad un'aggregazione detta dello Scapolare...".
Viaggiarono tutto il giorno e tutta la notte
su una carretta scortata da due gendarmi, Un maresciallo e nove dragoni: al
pomeriggio del giorno dopo venivano gettate nella Conciergerie, il
carcere della morte.
Giunte a destinazione, ognuna si aiutò come
poteva; la più anziana, di settantanove anni, con le braccia legate e senza il
suo bastone, non riusciva a scendere dalla carretta, venne perciò gettata di
peso sul lastricato.
La credettero morta, ma si rialzò
sanguinante e con estrema fatica: "Non ve ne voglio", disse. "Vi
ringrazio di non avermi uccisa. Avrei perduto la felicità del martirio che
aspetto".
Il Tribunale teneva le sue sedute a ritmi
serrati, anzi teneva due sedute contemporaneamente: una nella "sala dell'Uguaglianza",
l'altra nella "sala della Libertà". E l'accusatore, il
famigerato Fonquier-Tinville, passava disinvoltamente dall'una all'altra.
Così riuscivano a giudicare dai cinquanta ai
sessanta prigionieri al giorno.
Le carmelitane giunsero il 13 luglio,
domenica, giorno in cui il Tribunale comminò quaranta condanne a morte. Il 14
furono sospese le sedute, perché si celebrava l'anniversario della presa della
Bastiglia. Il 15 vennero pronunciate trenta condanne a morte; il 16 ne vennero
inflitte trentasei.
Era la festa della Madonna del Carmine, e le
monache non vollero perdere la bella abitudine di comporre per l'occasione
qualche nuovo canto.
Riscrissero la Marsigliese: stessi
versi, stesso ritmo, qualche espressione identica, ma tutto un altro canto di
ribellione e di vittoria.
Vi si diceva tra l'altro: "… Arrivato è
il giorno della gloria, / or che in spada sanguinante è già
levata / prepariamoci tutte alla vittoria. / Sotto le insegne di un Dio
agonizzante / avanzi ognuno come vincitore. / Corriamo tutti, voliamo
alla gloria / ché i nostri corpi sono del Signore". Erano versi
poveri e imitati, ma con intuizioni piene di luce e di fierezza: "Se a Dio
noi dobbiamo la vita / per lui accettiamo la morte".
Li scrissero con un pezzetto di carbone.
Alla sera di quello stesso giorno le
avvertirono che l'indomani sarebbero comparse davanti al Tribunale
rivoluzionario.
Toccò loro la "sala della
libertà": l'accusa era sostenuta con una congerie di elementi che
pretendevano di dimostrare come quel gruppetto di suore altro non fosse che
"un assembramento di ribelli, di sediziose, che nutrono nei loro cuori la
brama criminosa di vedere il popolo francese rimesso nei ceppi dai suoi tiranni
e nella schiavitù di preti sanguinari e impostori: la brama di vedere la
libertà annegare in quei flutti di sangue che le loro infami macchinazioni
hanno sempre fatto spargere in nome del cielo".
Ci sarebbe stato da ridere, se quello non
fosse stato lo stile abituale dei documenti rivoluzionari che preludevano
infallibilmente a una condanna a morte. Non mancarono le accuse più
incredibili. Ricordiamo tra le tante quella di "aver preteso esporre il
Santo Sacramento sotto un baldacchino a forma di manto reale".
Secondo il giudice anche questo era
"indizio certo di affezione all'idea della sovranità reale, e perciò alla
famiglia deposta (di Luigi XVI)".
Ma le monache non volevano accuse confuse, o
mescolate alla politica: volevano fosse chiaro che loro offrivano la vita a
Cristo e per Cristo. E fecero in modo di dissipare ogni ambiguità.
Ecco quel che accadde, secondo il racconto
di un testimone:
"Suor Enrichetta Pelras, avendo udito
l'accusatore dar loro delle 'fanatiche' (parola che essa ben conosceva), finse
di non conoscere quel termine e disse: 'Vorreste voi, cittadino, spiegarci che
cosa in tendete significare col vocabolo "fanatiche"?'".
Il giudice adirato rispose con un torrente
di ingiurie contro di lei e le sue compagne. Ma la suora, per niente turbata,
con dignità e fermezza soggiunse: " Cittadino, il vostro dovere è di
soddisfare alla domanda di un condannato. Vi chiedo perciò di rispondere e di
dichiarare che cosa voi intendete dire col vocabolo 'fanatico''.
'Io intendo significare (disse
Fouquier-Tinville) quella vostra affezione a credenze puerili; quelle vostre
sciocche pratiche di religione'. Suor Enrichetta lo ringraziò, poi,
rivolta alla madre Priora, esclamò:
'Mia cara Madre e sorelle mie, voi avete
udito l'accusatore dichiarate che tutto ciò accade per l'affetto che
portiamo alla nostra santa religione'. Noi tutte desideravamo questa confessione
e l'abbiamo ottenuta. Siano rese grazie a Colui che ci ha preceduto sulla via
del Calvario! Che felicità e che consolazione poter morire per il nostro
Dio!'".
Commenta il testimone: "'fanatico' e
'cristiano' erano in quel tempo sinonimi, e questo titolo, quando era
attribuito dai giudici, equivaleva a prova scritta della morte sofferta per la
fede".
Erano le sei di sera di quello stesso giorno
quando, con le mani legate dietro la schiena, salirono su due carrette per
essere condotte verso la Barriera di Vincennes dove era innalzata la
ghigliottina.
Qualcuno dice che le suore fossero riuscite
a riavere i loro bianchi mantelli; certo è che su quella carretta,
sull'imbrunire, cantarono la loro Compieta, e poi il Miserere, il
Tedeum, la Salve Regina.
Di solito i convogli dovevano farsi largo
tra due ali di folla ubriaca e vociante. Dicono i testimoni che quella carretta
passo tra un tale silenzio di folla "di cui non si ha altro esempio
durante la Rivoluzione". Dalla folla, un prete travestito da rivoluzionario
diede loro l'ultima assoluzione.
Giunsero al patibolo, nella vecchia piazza
del Trono, verso le otto di sera.
La Priora chiese e ottenne dal boia la
grazia di morire per ultima, in modo da poter assistere e sostenere, come
Madre, tutte le sue religiose, soprattutto le più giovani.
Volevano morire assieme, anche
spiritualmente, come se compissero un unico e ultimo "atto di
comunità". Fu un gesto liturgico. La Priora chiese ancora al boia di voler
attendere un po', e ottenne anche questo: intonò allora il Veni Creator
Spiritus e lo cantarono interamente; poi tutte rinnovarono i loro voti.
Al termine la Madre si mise di lato davanti
al patibolo, tenendo nel cavo della mano una piccola statua di terracotta della
Santa Vergine, che era riuscita a nascondere fino ad allora. La prima fu la
giovane novizia. Certamente ella ricordava In quel momento come il suo
confessore l'aveva preparata, con tenerezza, a questo momento tragico e
sublime, a non temere la ghigliottina.
"Ti ordinano di salire i gradini del
patibolo. Provi dolore?
- No, Padre.
- Poi ti fanno appoggiare la testa sotto la
lama e ti dicono di piegare il capo. È una tortura?
- Non ancora.
- Il boia lascia cadere la lama, e tu senti appena
un istante che la testa si separa dal corpo, e subito entri in paradiso. Sei
felice?
- Si, Padre".
Il dialogo può sembrarci strano e di cattivo
gusto, se non fosse che allora la ghigliottina funzionava a pieno ritmo
(trenta-quaranta esecuzioni il giorno) e le teste decapitate venivano mostrate
a un pubblico urlante, mentre l'odore di sangue si diffondeva per la città.
In tali condizioni di orrore permanente, un
dialogo come questo che abbiamo citato è di una purezza e di un candore
commoventi, anche da un punto di vista psicologico.
La novizia dunque si inginocchiò davanti
alla Priora, le chiese la benedizione e il permesso di morire, baciò la
statuina della Vergine e salì i gradini del patibolo, "contenta, dissero i
testimoni, come se andasse a una festa", e mentre saliva intonò il salmo Laudate
Dominum omnes gentes, ripreso dalle altre che una alla volta la seguirono
con la stessa pace e la stessa gioia, anche se bisognò aiutare a salire le più
anziane.
Ultima salì la Priora, dopo aver consegnata
la statuetta a una persona che si trovava vicino (ed è stata conservata, ed è
ancor oggi nel monastero di Compiègne).
"Il colpo della basculla, il rumore
secco del taglio, il suono sordo della testa che cade... Non un grido, niente
applausi o grida scomposte (come invece abitualmente accadeva). Anche i tamburi
sono muti. Su questa piazza, ammorbata dall'odore del sangue fetido, corrotto
dal calore estivo, un silenzio solenne scese su chi assisteva, e forse la
preghiera delle Carmelitane aveva già loro toccato il cuore" (E. Renault).
Si saprà poi che quel giorno, tra coloro che
assistevano, più di una ragazza promise a Dio, nel suo cuore, di
prendere il loro posto.
"Noi siamo le vittime del secolo",
aveva detto una di loro con umile fierezza: vittime di una "ragione
illuminata" che senza la fede era divenuta sempre più oscura e feroce.
Tutti sanno che su questa pagina di storia hanno meditato due grandi scrittori,
dandoci opere di grande valore artistico: Gertrud von Le Fort ha scritto il
romanzo L'ultima al patibolo e G. Bernanos l'ancor più celebre Dialoghi
delle carmelitane.
Nonostante la bellezza di queste opere,
bisogna però dire che esse si fondano su una intuizione artistica che non
corrisponde alla storia. Il dramma delle sedici carmelitane viene raccontato
alla luce dell'agonia di Gesù, della sua paura nel Getsemani. Diventa così il
dramma di una comunità rappresentata da un lato da una monaca fiera e intrepida
che desidera il martirio, e che pure non riuscirà ad ottenerlo, perché dovrà
"versare il sangue" del suo onore ferito, dall'altro da una giovane
monaca debole e impaurita che fugge solo all'ultimo istante, per un prodigio
della Grazia, trova la forza di offrirsi spontaneamente e di morire assieme
alle sue sorelle, continuando il loro canto di offerta.
La verità storica ci parla invece di una
comunità che vive piuttosto il mistero dell'Ultima Cena, quando Gesù offre,
liberamente e liturgicamente, il suo corpo e il suo sangue.
È giusto però ricordare almeno alcune
battute del dramma di Bernanos.
Un bruciante scambio di giudizi tra la
monaca più fiera e il commissario di polizia:
- "Il popolo non ha bisogno di
serve!".
- "Ma ha bisogno di Martiri, e
questo è un servizio che noi ci possiamo assumere!".
La riflessione dolce e abbandonata di una
delle giovini suore:
"Noi possiamo cadere soltanto in
Dio".
La conclusione (questa sì corrispondente
alla storia) della saggia
Priora:
"Sia benedetto Iddio che fa del
supplizio che stiamo per subire assieme come l'ultima cerimonia della nostra
cara comunità".
Papa Giovanni Paolo II, all'Angelus del
24 settembre 1978, ricordò l'esempio di queste Carmelitane e disse:
"Restata per ultima, Madre Teresa di sant'Agostino (la Priora) pronunciò
queste ultime parole: "L'amore sarà sempre vittorioso; l'amore può
tutto" (...). Chiediamo al Signore una nuova ondata d'amore per il
prossimo sommerso in questo povero mondo.