Vita dei santi

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Beato Faà di Bruno

Tratto dal libro: IL BEATO FAA' DI BRUNO di VITTORIO MESSORI ed. Biblioteca Universale Rizzoli

Lo spirito di questa iniziativa Internet è quello di portare a conoscenza, incuriosendo il visitatore, di alcuni dei tanti santi e beati che hanno accompagnato questa umanità in cammino. Lo si è voluto fare attraverso una testimonianza, il più completa possibile, ma sintetica, essenziale, leggibile con facilità ed in breve tempo. Buona è la raccolta agiografica di Antonio Sicari che già è stata concepita con queste caratteristiche. In altri casi, come in questo, la vita dei nostri personaggi è raccolta in testi corposi che, pur molto completi, debbono essere necessariamente ritagliati per venire inseriti in questo progetto "informativo". Questo lavoro di "ritaglio", non facile e forse necessariamente irrispettoso dell'autore, è stato fatto con lo scopo di raccogliere alcuni spunti ed informazioni sulla vita del beato, più che riassumere il messaggio dell'autore. Chi vorrà leggere il testo integrale del Messori dovrà necessariamente riferirsi alla versione originale del suo libro indicato all'inizio.

Una delle tante testimonianze del passaggio tra noi di Faà di Bruno è la chiesa di S. Zita in via S. Donato da lui progettata e costruita. Riportiamo alcuni passaggi dove il Messori racconta il suo "incontro" con Faà di Bruno, avvenuto, appunto, attraverso le prime visite alla chiesa di S. Zita.

***

Dal buio, la vista era spinta a guardare al fondo, verso l'abside dove - sempre illuminata da fari invisibili - stava (e sta) una Madonna in marmo bianco con gli occhi al cielo e le mani stese verso il basso, verso anime sofferenti e insieme fiduciose che implorano liberazione dalle fiamme in cui sono immerse.

Su di me, giovane, solitario pedone urbano, non avvezzo ad ambienti ecclesiali, neppure frequentatore di oratorii, su di me, quell'ambiente misterioso esercitava fascino e, insieme, produceva una vaga inquietudine. Nei miei vagabondaggi per il quartiere, spingevo spesso quella porta: ne ricordo battenti foderati, sui bordi, di panno e cuoio, le targhette così ottocentesche, in metallo smaltato di bianco con, in blu, Spingere (o Tirare?).

Obbedito a quell'ordine, si era in una bussola, con un'altra porta da varcare: chiusa la quale, sparivano i rumori della via commerciale, non si avvertiva nemmeno più lo sferragliare del tram che, nei due sensi, la percorreva. Era il 13, il vecchio 13, con i colori di allora per tutti i mezzi pubblici: verde chiaro, verde scuro, una linea continua nera e, sulle fiancate, il toro rampante giallo e blu della città dei Taurini. L'indispensabile 13, che per chilometri e chilometri tagliava da ovest a est la città attraversando tutto il centro, passando davanti alla stazione ferroviaria di Porta Nuova, collegando noi, abitanti di San Donato, con il cuore urbano. Il nostro 13, di noi del Borgo, dallo sferragliare casalingo e tranquillizzante, ucciso dissennatamente per far posto a estranei autobus giallastri: traballanti, rumorosi, avvolti da una nuvola di gas di nafta. E, per giunta, con un percorso dimezzato, così da costringere a un inutile trasbordo per giungere in quel centro che gli amministratori a un certo punto decisero di punire, rendendolo accessibile con fatica.

Se mi attardo su questo, un motivo c'è: come scoprii molto più tardi, l'uomo, i cui resti stavano nella tomba della misteriosa chiesa, secondo la sua abitudine si sarebbe di certo mobilitato, avrebbe raccolto (in civile, pacifica quanto ferma protesta) gli abitanti del "suo" Borgo. Lo avrebbe fatto di sicuro: sempre si era battuto contro ogni piccolo e grande sopruso sulla pelle della gente; sempre a favore dell'uomo concreto, dei suoi bisogni, di un progresso "vero". Lui che, come si scoprì dopo la morte, tra le pagine del breviario, accanto alle immaginette dei santi, conservava ritagli di articoli su progetti e realizzazioni di nuove vie ferrate.

Ma di tutto questo, io proprio nulla sapevo allora; io, allievo di laicissime scuole, nutrito di sospetti, magari di sarcasmi, verso il mondo dei preti, immerso in una totale ignoranza della realtà religiosa. L'istinto anticlericale del sangue emiliano era rafforzato e come razionalizzato dal duro laicismo di una cultura subalpina che ha in Gramsci e Gobetti i suoi santi protettori.

Ciò che avvertivo in quella chiesa era solo che, dietro quelle due porte in legno pesante, spariva la città col suo affannarsi fragoroso, e si entrava in una dimensione altra, il cui sfondo obbligato era il chiaroscuro e il silenzio.

Esitante, come in punta di piedi, percorrevo le navate laterali, in qualche modo illuminate (se l'ora, la nebbia, la pioggia lo consentivano) da vetrate con soggetti sacri il cui significato il più delle volte mi sfuggiva. Così come non riuscivo a dare un nome a molti dei santi il cui ritratto stava sopra gli altari. Avvertivo, tuttavia, che l'insieme non era casuale, che doveva rispondere a una sorta di piano: probabilmente (lo deducevo da certi quadri) quello di spingere a meditare sulla morte e sull'Aldilà, di celebrare il ricordo dei defunti.

Forse, mi avrebbe aiutato a capire il significato del complesso architettonico il titolo ufficiale (che ignoravo) di quella chiesa: Nostra Signora del Suffragio. Forse, dico; perché non sono sicuro che allora sapessi il senso religioso di suffragio (dal dizionario: "Preghiera od opera di carità i cui meriti sono applicati a favore dei morti"). Credo che avrei pensato al significato politico, di voto (il suffragio universale) confondendomi ancor più le idee: una Madonna per le elezioni, una Nostra Signora per i votanti? Qualcosa da rendere ancor più sospettoso, allergico a chi - e io ero tra quelli - nella religione vedeva un'illusione per gli ingenui ma anche un instrumentum regni per i furbi e i potenti. Ma quel nome ufficiale nessuno lo usava nel quartiere; tutti indicando la chiesa come quella di Santa Zita. E chi mai poteva essere costei?

Non sapevo, non capivo. Qualcosa, però, dentro si muoveva. Come una nostalgia di un mondo sconosciuto dove dovevano pure affondare le mie radici di discendente da contadini padani di stirpe celtica mista all'etrusca, poi latinizzata e infine, da almeno quindici secoli, cristianizzata. E non dovevano affondarvi in modo così superficiale da non agire ancora - lo volessi o no - sul giovanissimo che ero, scalzato dalla sua terra e dalla sua gente e gettato a crescere, in balia di ogni maestro, nella grande città secolarizzata.

Anche qui, non sapevo che le mie reazioni - quell'insieme di inquietudine e di attrazione, di desiderio di conoscere meglio e al contempo di girare alla larga, nel timore indistinto delle conseguenze da trarre - non sapevo, dunque, che quelle mie reazioni erano la prova che non aveva mancato il bersaglio colui che quella chiesa aveva voluto. E che così aveva voluto: con quella facciata scura e mesta a settentrione, quella penombra, quel senso di mistero, quelle immagini, quel costringere il visitatore a raccogliersi, a pensare alla morte per indurre così, per istintiva reazione, a volgere lo sguardo alla Madonna illuminata sopra l'altare maggiore, cercando in lei aiuto allo smarrimento, un antidoto a un oscuro timore, magari una via di scampo dal buio di una vita drammaticamente simboleggiata da quelle navate.

Sentimenti inquietanti. Temperati però da un particolare curioso: avveniva, cioè, che entrando in certe ore - l'odore di cera e di incenso si mescolasse a un sentore di minestrone che doveva giungere da cucine collettive in qualche modo collegate all'edificio. Un sentore che, pur allentando la tensione del visitatore, costituiva un ulteriore monito: da quel luogo di preghiera, dunque, traeva stimolo una qualche attività caritativa, lì viveva una qualche comunità di assistiti.

Passarono molti anni. Quel mondo che mi sembrava tanto estraneo e remoto, così scostante, anacronistico, per un giovane che volesse vivere modernamente il suo tempo; quel mondo "religioso", dunque, divenne anche il mio. In modo inaspettato, traumatico, con sorpresa innanzitutto dell'interessato.

Nel frattempo, i miei nuovi interessi religiosi mi avevano fatto scoprire qualcosa di ciò che stava dietro quella chiesa di via San Donato, dietro quell'altissimo campanile, quegli edifici, quel giardino al di là del muro. Si trattava delle "opere" costruite da un cattolico nato nel 1825 e morto nel 1888, meno di due mesi dopo il suo grande amico don Bosco, tal Francesco Faà di Bruno, dichiarato dalla Chiesa "servo di Dio", poi, nel 197l, "venerabile"; e, nel 1988, nel centenario della morte, "beato", ultimo gradino prima della vetta suprema: l'inserimento nel canone (la "canonizzazione"), l'elenco cioè dei santi.

Personaggio singolare, appresi, fattosi sacerdote a quasi 52 anni, dopo aver già avviato le sue molte opere, compresa una comunità religiosa femminile. Uno che non veniva da un seminario ma dall'esercito, addirittura dallo Stato maggiore del regno di Sardegna. E che, più che la teologia, sembrava aver praticato le scienze naturali - dall'astronomia alla fisica alla geometria per l'insegnamento delle quali sino all'ultimo aveva tenuto cattedra all'Università di Torino e alle quali aveva dedicato studi ponderosi.

La chiesa era sì quella del Suffragio ma nel senso dell'aiuto - in preghiera e opere di carità - ai morti. Quanto a santa Zita, era chiamata in causa, qui, perché il Francesco Faà di Bruno si era occupato di assistenza sociale e religiosa alle serve, come allora brutalmente si chiamavano, che costituivano buona parte del proletariato torinese dell'Ottocento. E delle serve, delle donne di servizio, protettrice celeste è appunto, una loro straordinaria collega della Lucca del XIII secolo, santa Zita.

Quanto allo smisurato campanile, era un monito religioso (ricordare alla città, così spesso immemore, la fine della storia che la fede attende, il giudizio universale a cui tutti dovranno comparire), ma anche una sorta di virtuosismo, di prova delle conoscenze matematiche e delle valentie tecniche di Faà di Bruno, un grande credente che era al contempo un grande studioso, un famoso scienziato.

 

 

LA VITA

Nasce nel 1825 il 29 marzo, in Alessandria. Sarà battezzato con nomi di Francesco da Paola, Virginio, Secondo, Maria. E' il dodicesimo e ultimo figlio (sette femmine, cinque maschi) di Luigi, marchese di Bruno, nonché conte di Carentino, signore di Fontanile e patrizio di Alessandria. La madre è la nobildonna Carolina Sappa de' Milanesi. Un'unione felice, una famiglia tra le più benestanti (e tra le più generose per i bisognosi) della nobiltà terriera piemontese Forte e autentica in casa, anche la dimensione di fede: delle due figlie e dei tre figli che sceglieranno la vita religiosa, una monaca della Visitazione, morirà in fama di santità; uno diverrà superiore generale della Società dell'apostolato cattolico (i "Pallottini"). Questi, di nome Giuseppe Maria, ha anch'egli (come il fratello beato) un suo posto nella storia ecclesiastica: dimorando molti anni, da religioso, a Londra, vi costruì (con elemosine da lui stesso raccolte pellegrinando in tutta Europa, Polonia compresa), il Tempio nazionale italiano, con funzioni non soltanto di assistenza religiosa ma anche di aiuto concreto alla numerosa, spesso poverissima, colonia di nostri immigrati. A lui si devono anche innumerevoli conversioni di americani al cattolicesimo: il suo libro Catholic Belief (Fede cattolica) fu diffuso negli Stati Uniti in milioni di esemplari.

Nel 1836, Francesco entra nel collegio di Novi Ligure dei Padri Somaschi e nel 1840 è ammesso alla Regia accademia militare di Torino. Nel 1846, terminanti i corsi, è nominato luogotenente nel corpo di stato maggiore generale. Inizia il biennio di specializzazione (in topografia) e si perfeziona nelle lingue straniere.

Nel 1848 partecipa alla prima guerra d'indipendenza nella Brigata Guardie comandata dallo stesso principe ereditario, Vittorio Emanuele, di cui è aiutante di campo. Dopo il battesimo del fuoco a Peschiera, approfitta del ristagno delle operazioni per disegnare la Gran carta del Mincio, che si rivelerà decisiva nel 1859, quando sarà impiegata nella grande battaglia di Solferino e di San Martino. Quel suo lavoro fu da lui tenacemente voluto: il ventitreenne tenente, formato a serietà estrema nell'affrontare il dovere, qualunque fosse, era rimasto sbalordito e umiliato scoprendo che i suoi generali non possedevano carte esatte e recenti di quel Lombardo-Veneto che pur da decenni si ripromettevano di invadere. Nel 1849 viene promosso capitano di Stato maggiore. Combatte valorosamente nella luttuosa giornata di Novara, perdendo almeno due cavalli sotto la fucileria austriaca e restando ferito a una gamba. Sulla scorta di alcuni forti scrupoli morali, chiede di lasciare l'esercito per continuare gli studi universitari. Nel 1850 frequenta le lezioni universitarie in scienze astronomiche e matematiche alla Sorbona a Parigi. Prende intanto contatto con gli ambienti del cattolicesimo sociale francese e aderisce alle prime Conferenze di San Vincenzo De' Paoli fondate da Federico Ozanam (che conoscerà personalmente) e alla diffusione delle quali si dedicherà al suo ritorno nel regno di Sardegna.

Pietro Palazzinì: "Il suo tempo parigino trascorre tra quel centro di spiritualità e di assistenza sociale che era la grande parrocchia di St. Sulpice, l'università, l'attività caritativa vincenziana con le visite a domicilio per i poveri. Come svago, le visite ai librai e ai negozi di strumenti scientifici" Sin da questi anni dà alla sua vita un ordine e una precisione - da scienziato e da soldato - che non abbandonerà più e che gli permetterà di utilizzare per il bene ogni minuto della giornata. Nel 1851, ottenuto il diploma di Licencié-ès-Sciences, rientra a Torino, ma la casta politica anticlericale e settaria che si sta formando al governo impedisce la nomina a precettore dei principi di un credente così esplicito. "Gli uomini di stato piemontesi che avevano creato un clima ostile alla Chiesa non erano disposti a tollerare vicino al re in carica e come precettore del re in fieri un cattolico militante del tipo di Faà di Bruno che già a Parigi aveva elogiato la spedizione francese contro la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi" (P.Palazzini).

Tra i drammi maggiori della sua vita, vi sarà sempre il contrasto tra le sue aspirazioni, da sincero patriota, all'unità italiana e il rifiuto, come cattolico fedelissimo al papa, dei metodi e dei modi inaccettabili con cui quell'unità era perseguita, con la persecuzione e il sopruso verso la Chiesa. Malgrado questo suo leale rifiuto (e alla pari, anche qui, di don Bosco), non cessò mai di offrire collaborazione alle autorità, pur anticlericali, quando sì trattasse di unirsi per il vantaggio dei bisognosi o per la gloria di Dio, com'egli l'intendeva.

Nel 1854 ha inizio il suo apostolato verso le donne in generate e le domestiche in particolare: presso la sua parrocchia torinese, quella di San Massimo, in Borgo Nuovo, avvia una Scuola di canto domenicale cui partecipano, soprattutto, donne di servizio e popolane. Egli stesso vi suona l'organo. E il primo coro femminile italiano oltre che il solo diretto da un giovane laico.

Fidando in una promessa governativa (essa pure sarà disattesa, alla pari di quella dì farlo precettore dei principi reali o di pagare le spese per la carta del Mincio), la promessa, questa volta, di essere addetto all'Osservatorio di Torino, nel maggio ritorna a sue spese alla Sorbona di Parigi per ottenervi la laurea in matematica e astronomia. Nel 1855 studia e lavora all'Osservatorio nazionale francese, accoltovi dal celeberrimo Urbain Le Verrier lo scopritore, col solo calcolo, del pianeta Nettuno. In contatto con la cultura francese, decide di dedicarsi alla dimostrazione dell'armonia tra scienza e fede.

Nel 1856, stimolato anche dalla infermità agli occhi della sorella Maria Luigia, inventa e fabbrica uno scrittoio per ciechi che sarà elogiato da molte accademie, premiato a numerose esposizioni e che darà grande aiuto a numerosi infelici, in Europa e in America. Nell'autunno, si laurea brillantemente in matematica e astronomia col famoso barone Augustin Cauchy, uno dei maggiori scienziati del secolo e tra gli esponenti più in vista del cattolicesimo sociale. Prima di rientrare scrive a Maria Luigia:

"Per me, ora, l'unico affare, se Dio mi sostiene, è di viverre da santo e di meritare di fare una morte santa. Tutto il resto e' veramente inutile e non sono che giochi da ragazzi".

Nel 1857 pubblicò su una rivista scientifica americana la "formula Di Bruno", nota ancor oggi sui manuali d'informatica internazionali, in quanto impiegata per certi complessi calcoli al computer. Si tratta, dicono gli esperti, di una formula ancora insuperata, che fornisce direttamente la derivata ennesima di una funzione composta.

Nel 1858, a contatto con la miseria del popolo torinese, che visita quotidianamente con i confratelli della San Vincenzo, si prodiga per impiantare, almeno durante l'inverno, dei Fornelli economici per lavoratori, da lui visti e studiati a Parigi. Si tratta di cucine dove preparare e vendere vivande calde, a prezzo bassissimo; ma non gratuitamente. Perché, come scrive per esporre il progetto al ministro degli interni, "la popolazione povera componsi di gente che soffre, sebbene lavori, e non osa da approfittare delle distribuzioni gratuite, per sentimento di dignità e di amor proprio. L'operaio più suscettibile potrà venire con la fronte alta a comperare e non a mandare ciò che è necessario a' suoi bisogni e a' suoi gusti, non già regalato ma posto in vendita. Costa meno alla modesta sua borsa e nulla costa alla sua dignità". Per aprire un primo Fornello, scrive il Faà, occorrono 4000 lire, 1000 delle quali aveva già raccolto da benefattori, donandone egli stesso altrettante. Con un sussidio pubblico di 2000 lire si impegnava a distribuire per i 5 mesi invernali 600 porzioni giornaliere di minestra e carne al prezzo di vendita di 5 centesimi l'una.

E così assicurava al ministro, in una lettera che è tra i primissimi documenti del cattolicesimo sociale italiano:

"Son pronto ad assumere qualunque responsabilità, a rassegnare qualunque conto. Se tutto io potessi, il farei; ma ciò non essendomi dato, mi sia almeno concesso di confidare in Vostra Eccellenza. Dal sussidio ministeriale dipende l'intraprendere o no l'opera. Tutte le misure son prese; non manca più che un ordine onde tutto si muova. Degnisi pertanto V.E. di non defraudare il povero di tanto bene".

A questo grido di aiuto, non corrispose alcuna risposta dalle autorità, sia governative sia municipali, malgrado il piano preciso di costi e ricavi presentato dal Faà. Il quale, così, avvia da solo l'iniziativa che oltre dieci anni dopo sarà assunta dal Comune - costrettovi dalla carestia e da una ennesima epidemia di colera - funzionando per alcuni decenni, seppure a costi più alti e a condizioni ben peggiori di quelle proposte dal Beato.

Il 2 febbraio 1859 istituisce la Pia opera di Santa Zita in un terreno dell'allora malfamato Borgo San Donato, comprato grazie al suo patrimonio personale e ai fondi da lui raccolti con circolari ed elemosinando alla porta delle chiese. Il luogo è scelto innanzitutto perché abitato da una popolazione poverissima e abbandonata, ma anche perché attiguo a un canale che permette l'istituzione di una lavanderia modello (con macchine a vapore progettate dallo stesso Faà) dalla quale si ricavano utili per il mantenimento dell'istituto. Cura del Faà (polemico contro la scandalosa incuria degli industriali per le condizioni igieniche cui costringono i lavoratori) è corredare l'impianto "d'ogni comodità per lavare ad ogni stagione senza inconvenienti, avendo tutti i riguardi richiesti dalla salute delle giovani".

Nella Torino che stava secolarizzandosi, il giovane Faà Di Bruno ebbe l'amara sorpresa di vedere giungere donne (alcune erano bambine di 12-13 anni) lacere, denutrite, maltrattate, schiacciate per pochi sodi da pretese disumane e spesso anche immorali. Fu quello choc che svegliò in lui il cristiano radicale e gli indicò la sua strada.

L'Opera di Santa Zita è eretta per il ricovero, l'istruzione professionale, il collocamento delle donne di servizio disoccupate, licenziate, malate, anziane o appena inurbate. Nella città capitale del regno di Sardegna (e, presto, del regno d'Italia) il personale femminile di servizio rappresentava la parte più numerosa e più abbandonata ancor più che le operaie - del proletariato urbano.

Una delle costanti preoccupazioni del Beato divenne il formare le donne di servizio non solo professionalmente, ma anche moralmente perché fossero (sono sue parole) "strumento di pace e di concordia all'interno delle famiglie in cui lavorano".

Al rancore tra le classi, all'odio sociale che cominciavano a essere predicati, voleva sostituire sì una difesa dei diritti dei più deboli, ma al contempo affidare a questi una preziosa funzione di operatori di pace, di portatori di serenità in quei nidi di vipere che rischiavano di essere - e spesso erano - gli interni aristocratici e borghesi delle grandi città.

In effetti, la classe servile costituiva uno di quei problemi umani e sociali fatti esplodere dalla società borghese, senza alcun pensiero di rimediarvi.

A queste ultime tra gli ultimi, il potere ufficiale provvedeva unicamente in modo repressivo, poliziesco, carcerario, con case di correzione, internamenti coatti, fogli di via per rimandarle ai luoghi d'origine.

Era la stessa repressione che don Bosco constatò tra i ragazzi e ai quali, dunque, applicò il suo celebre "metodo preventivo". Così anche, per quanto riguardava le ragazze, il Faà. Il quale, lo disse più volte, non voleva occuparsi di "già traviate", ma tutto mise in opera per evitare il traviamento, con un metodo che definiva "insieme positivo e negativo: formare al bene, allontanare dal male"

Alle Figlie non si stancava di ricordare i doveri; ma li ricordava anche ai padroni e, poco fidandosi delle promesse, quando possibile voleva che fossero messi nero su bianco in quei contratti che la legge dello stato, scandalosamente, ancora non prevedeva. (Come non ne prevedeva per quell'altra categoria del tutto indifesa costituita dai giovani apprendisti: i primissimi contratti che li riguardino sono firmati (da un maggiorenne, come loro tutore. E' un prete, un certo don Bosco...).

Coloro che si ostinano a leggere la storia secondo lo schema della reazione e del progresso, devono rovesciare le parti che abitualmente, per l'Ottocento, attribuiscono ai cattolici (visti come reazionari) e ai liberali (spacciati per progressisti). I fatti mostrano assai spesso che la verità stava nel contrario.

Sempre nel 1859, per sua iniziativa (don Bosco accetta la vicepresidenza), sorge, ed è la prima in Italia, l'Opera per la santificazione delle feste per difendere i lavoratori dal lavoro domenicale cui sono costretti dallo spietato capitalismo della prima industrializzazione.

Nel 1860 fonda, all'interno dell'Opera di Santa Zita, la Classe delle Clarine (dalla protettrice santa Chiara): ragazze di umile condizione e affette da menomazioni fisiche anche rilevanti e, dunque, destinate a una vita di stenti o dì abbandono. La Classe delle Clarine è ancora esistente: in 130 anni ha dato mezzi di sussistenza, e uno scopo alla vita, a migliaia di abbandonate e di handicappate.

Nello stesso anno fonda l'infermeria di San Giuseppe per donne povere inferme e, soprattutto, convalescenti. Se già esisteva qualche ospedale e ricovero per le malate, mancava del tutto una struttura di assistenza intermedia tra la fase acuta del morbo e la guarigione completa. Molte lavoratrici, rigettate subito nella piena attività, avevano così pericolose ricadute.

Nel 1862 fonda "un pensionato-ospizio per donne anziane e invalide".

Dà vita a un liceo (don Bosco vi invia i suoi primi cinque giovani che devono conseguire titoli riconosciuti dallo Stato). Questo istituto è il suo con tributo alla lotta dei cattolici per una scuola libera, contro il monopolio statale dell'istruzione imposto da un liberalismo che, anche qui, fa ben poco onore al suo nome.

Propone al Municipio di Torino un piano dettagliato per la costruzione di una rete di bagni e lavatoi pubblici economici, anche per contrastare, con l'aumento dell'igiene, le ricorrenti epidemie, soprattutto di tifo e di colera, e per soccorrere le povere massaie, costrette a lavare i panni sulle rive dei fossi, esposte alle intemperie, e poi ad asciugarli in casa, con conseguente umidità che favoriva le malattie. Malgrado l'offerta di costituire una impresa mista, pubblica e privata (c'è, anche qui, una intuizione precorritrice), il Comune massonico anche questa volta, come già per i Fornelli, decide di non farne nulla. Il progetto del Faà prevedeva un primo stabilimento in Borgo San Donato con 40 vasche per i panni e 15 posti bagno: da parte sua assicurava terreni e denaro per 45.000 lire (più la direzione gratuita) e chiedeva al Municipio un contributo di sole 20.000 lire. Già aveva costituito una società, raccogliendo quote azionarie, scrivendo di voler mostrare che "si può far molto, bene e a buon mercato". Poiché non si volle aiutarlo, il primo bagno pubblico (creato però anch'esso da una iniziativa filantropica) fu aperto a Torino solo nel 1880.

Quanto agli istituti di Borgo San Donato, dopo il colera del 1865 la Giunta comunale invia al Faà una lettera di congratulazioni per l'ottima situazione igienica riscontrata dall'apposita commissione sanitaria dopo un'ispezione. Nel vasto complesso "tutto", scrive lo stesso Fondatore ai fratello con l'orgoglio di quel militare che era stato, "tutto è in ordine e muove come un orologio". All'Opera di Santa Zita aggiunge un Pensionato per sacerdoti anziani o ridotti in miseria dalle leggi statali di confisca, senza indennizzo, dei beni ecclesiastici.

Nel 1863, istituisce, per la prima volta a Torino, una Biblioteca mutua circolante, con invio dei libri al domicilio degli associati. Tra gli scopi, non soltanto preoccupazioni religiose ma pure l'intento di "moltiplicare la lettura di buoni libri scientifici", anche in lingua straniera.

Nel 1864 Fonda la Classe delle educande per la formazione professionale di giovani povere con corsi triennali di economia domestica.

Nel 1866 - Dà vita alla Classe delle allieve maestre e istitutrici, per la formazione di insegnanti elementari seriamente preparate sia a livello professionale che religioso. Egli stesso tiene i corsi di discipline scientifiche e redige i libri di testo. Questa iniziativa è per lui importantissima: assunte e pagate direttamente dai Comuni (molti dei quali, a differenza del governo centrale, sono restati in mano a cattolici), le maestre costituiscono una valida testa di ponte per la resistenza e la riconquista religiosa. I corsi (già rivoluzionari per scuole femminili, con la grande importanza data all'insegnamento delle scienze naturali) prevedono - e sono novità assolute per l'Italia - lezioni di meteorologia per consigliare i contadini sul tempo previsto e persino di telegrafia, per coadiuvare in caso di bisogno gli addetti al telegrafo, unico legame dei villaggi col resto del mondo

Nel 1868 - inizia la costruzione della chiesa di Nostra Signora del Suffragio a servizio della sua Opera, del quartiere di San Donato e dei morti dimenticati, soprattutto i caduti in tutte le guerre e sotto qualunque bandiera.

Poiché, come scrive, "una Casa non può andare bene materialmente, moralmente e religiosamente senza una corporazione religiosa", decide di fondare una congregazione di suore: "Chi mira a Dio, a lasciare per secoli una successione di bene, non può far senza di religiose".

Nel 1869 "Consegna della mantellina" alle prime postulanti delle Minime di Nostra Signora del Suffragio. Tuttavia, le prime professioni solenni avverranno solo ventidue anni dopo, nel 1891, tre anni dopo la morte del Fondatore. Il quale, pur tutto mettendo in opera per affrettare i tempi, accetterà serenamente il ritardo (dovuto anche alle diffidenze dell'arcivescovo di Torino per tutto ciò che sembrava sottrarsi alla sua autorità diretta: e ne saprà qualcosa pure don Bosco con i suoi salesiani). Ripeterà spesso, per calmare le impazienti, la parola della Scrittura per la quale, nella Chiesa, "c'è chi semina e c'è chi miete". Il nucleo iniziale di candidate, tuttavia, non si scoraggerà e sino alla fine resterà fedele al Fondatore, a conferma della forza di un carisma singolare.

Le Otto Classi ciascuna dedicata a un preciso e diverso bisogno del mondo femminile sono unite sotto il nome comune di Conservatorio del Suffragio (ma il popolo, sino ai nostri giorni, preferirà usare la dizione originaria di Opera di Santa Zita).

Per venire incontro alle necessità dei parroci poveri, sulla via San Donato apre un Emporio cattolico, magazzino di vendita ove e possibile procurarsi a prezzi modici arredi per il culto, paramenti liturgici, pubblicazioni religiose.

Nel 1881 è nominato professore, ma solo incaricato, di analisi matematica e di geometria analitica all'Università di Torino. Malgrado ogni suo diritto; malgrado la fama europea come scienziato; malgrado il suo zelo pedagogico e l'intervento di autorevoli colleghi, scandalizzati per le umiliazioni cui è sottoposto (per ben sette volte sia il rettore dell'ateneo torinese sia preside e insegnanti della Facoltà di scienze chiesero inutilmente per lui la cattedra); malgrado tutto questo, la casta settaria che dominava anche le università della Nuova Italia fu irremovibile nel non concedergli la dignità di professore ordinario.

Nel 1874 acquista proprietà e direzione di un periodico - "II Cuor di Maria" - cui dà grande diffusione a livello nazionale. Quando ancora la sua congregazione non è formata, già progetta di inviare in Africa un gruppo delle future religiose. Dopo la sua morte, le sue suore andranno in America Latina, dove tuttora lavorano.

Negli istituti di via San Donato attrezza una moderna tipografia, gestita (novità anch'essa scandalosa) da sole donne, direzione tecnica compresa. Vi stampa libri di devozione e di catechesi che raggiungeranno alte tirature, diretti soprattutto al popolo. Egli stesso curerà traduzioni di opere spirituali dal tedesco e dall'inglese.

Nel 1875 Decide di farsi prete, anche per poter meglio dirigere la congregazione di suore in formazione e in vista del compimento della chiesa per la quale occorre un rettore sacerdote.

Nel 1877 realizza la Pia casa di preservazione per le ragazze madri.

Nel 1878 inventa e brevetta uno svegliarino elettrico, ponendo ancora una volta la scienza a servizio della carità: è infatti apostolo dell'arte di "ben impiegare il tempo", di far fruttificare a ogni momento i talenti in vista del giudizio divino e della vita eterna.

Nel 1881, nelle Langhe a Benevallo d'Alba, acquista un piccolo castello per farne una scuola comunale e un educandato per l'istruzione professionale delle giovani di una zona tra le più povere e isolate del Piemonte. Vi invia alcune sue suore, ma deve misurarsi anche con la diffidenza dei contadini che non vogliono che le figlie, braccia utili in campagna, sin da piccole perdano tempo a studiare. Nel castello tiene anche esercizi spirituali e ritiri per signore.

II 27 marzo 1888 muore, pare per una infezione all'intestino, due giorni prima del suo sessantatreesimo compleanno. Il testimone Mario Cecchetto dichiarò: "Fu magnanimo anche nella morte. Alle pezzenterie, alle faziosità dei reggitori della Pubblica Istruzione rispose al suo solito, disponendo nel testamento la donazione alla Facoltà di scienze di quell'Università di Torino, dalla quale era stato sempre escluso a pieno titolo, della preziosa collezione di libri e periodici scientifici nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private d'Italia, raccolta in 38 anni di studio e di lavoro".

Alla direzione delle sue opere, succede il canonico Agostino Berteu.

In ogni biografia normale, quello sulla morte è, né può non esserlo, l'ultimo capitolo. Al massimo, qualche pagina finale sarà dedicata al ricordo che lo scomparso ha lasciato, all'influsso postumo, sociale e culturale, della sua opera o del suo pensiero.

Non così per la vita di un santo, dove quello sulla morte non è mai l'ultimo ma sempre il penultimo capitolo. Lo è perché la sua presenza tra i vivi continua al di là del sepolcro: e non è solo spirituale, immateriale, ma concreta e tangibile, occorrendo, per salire i gradini degli altari, prove (vagliate da apposite, prudentissime commissioni che la sua intercessione in Cielo ha inciso sulla vita dei fratelli che ancora penano sulla Terra. Le grazie ottenute, per mezzo della sua intercessione, dal Signore della Vita - e che gli riconoscono i vivi, riuniti ancora, in attesa di raggiungerlo, nella Chiesa militante - sono parte del necessario capitolo che segue quello sulla sua morte

Ma se il santo (come nel caso nostro) fu anche fondatore di una famiglia religiosa, ecco un'altra parte del capitolo, e anch'essa concreta e viva, di quella vita che si è fatta strumento docile e che, nel volgere delle generazioni, coinvolge creature venute magari secoli dopo di lui e che pure, con Lui, hanno un rapporto intimo, una comunione ancor più stretta di quella che unisce tra loro tutti i battezzati.

C'è una misteriosa quanto evidente fecondità che è solo cristiana, quella dei fondatori, che va oltre la morte e che continua a dare, per secoli, quando non per millenni, figli e figlie proprio a coloro che nella vita terrena spesso accettarono la chiamata alla verginità.

Fecondità che sembra anch'essa inverare la parola di Gesù: "Io sono venuto perché abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10). (E va detto che anche in questo - conforme, al solito, allo stile di discrezione che ben conosciamo - la famiglia di cui Faà di Bruno fu padre spirituale non ebbe clamorosi sviluppi quantitativi, restando sempre nell'ordine di qualche centinaio di religiose. Ma, chi le conosce, sa quale sia la qualità dell'amore verso quell'uomo che, morendo, augurò loro di "non ricevere mai grosse eredità", intendendo, forse, neppure di novizie; assicurandole al contempo che "la goccia della Provvidenza non sarebbe mai mancata"; il che sembra essere avvenuto anche nelle vocazioni).

Dal Vangelo di Marco leggiamo:

"Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?. Gesù gli disse: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre. Egli allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla giovinezza". Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto poiché aveva molti beni".

Francesco Faà di Bruno fu tra coloro che accettarono integralmente la scommessa, che ne accolsero con coerenza la logica e le regole: sul tavolo gettarono tutta quanta la posta disponibile, non tenendo nulla di riserva. Alla pari degli altri cristiani coerenti, puntò tutta quanta la vita, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto.

"Santità" ha detto qualcuno "è uno spirito indomabile in un corpo sempre da domare". Sino a quale punto questo avvenisse anche in Faà di Bruno, noi non sapremo mai. Ma qualcosa possiamo intuire da una confidenza sfuggitagli un giorno con un intimo e che era ben lontano dal sospettare che decenni dopo sarebbe finita negli atti del processo dove costituì motivo di qualche difficoltà. Mentre a noi sembra aprire uno squarcio umanissimo sulla sua lotta diuturna, che fu quella di tutti i colleghi in santità: "Ah, se dovessi ricominciare da capo, non so cosa farei!".

Certo è che tutte le testimonianze ci restituiscono il contrario di uno di quegli eunuchi morali e magari anche fisici che (come vociava un Nietzsche e come sospetta da sempre - oggi, più che mai - il mondo) trovano nella religione un compenso alla loro debolezza, alla loro impotenza. Il cristianesimo come vendetta degli imbelli e dei vinti. O - marxisticamente - come proiezione nei cieli dell'ingiustizia patita in terra. Per quest'uomo, siamo all'opposto: il prestigio della nascita in un casato tra i più nobili in una società monarchica, dove l'appartenenza all'aristocrazia costituiva lo status privilegiato; la salute non solo, ma anche la prestanza fisica (era dritto e alto a tal punto che, a quanto si racconta, quando a Novara il cavallo gli cadde sotto fulminato da una palla, restò in piedi sulle lunghe gambe...); una rendita cospicua, come confermano anche le imponenti somme di denaro personale gettato nelle sue imprese benefiche; doti di coraggio come due campagne di guerra in prima linea ben testimoniano; doni di intelligenza tali da imporlo all'attenzione della comunità scientifica internazionale.

Dietro tutto questo, poi, un temperamento non certo languido, snervato, carente di ormoni, ma a proposito del quale un teste così depose al processo: "Aveva un carattere forte, imperioso, impulsivo" eppure, aggiunse lo stesso testimone, "appena aveva fatto lo scatto lo si vedeva fermarsi, divenire pallido come un cencio e generosamente chiedere scusa").

I famigliari e la nobiltà piemontese era imbarazzata per quel tipo di impegno che lo fece definire più volte "un originale", uno che "faceva stranezze", un aristocratico che rischiava di compromettere il nome onorato non solo preoccupandosi, ma addirittura abitando "tra quei serventun" (servacce, in piemontese), per dirla con il poco velato disprezzo di un suo parente stretto, pur buon cattolico ma perplesso davanti a quegli estremismi.

Come scrisse il Berteu, suo primo biografo oltre che successore: "Quando il Cavaliere iniziò la sua opera sotto il nome di santa Zita, una povera serva, alcuni dei suoi congiunti se ne adontarono: egli lasciò che la tempesta passasse e continuo umile per la sua strada. Talvolta ridendo diceva: "I miei congiunti vanno per Torino in vettura propria con due cavalli e col cocchiere in livrea; io mi contento di andare con la vettura di san Francesco, sempre a piedi"".

Onestà impone però di rilevare che, malgrado stentasse a capirlo, la sua famiglia non lo ripudiò e nemmeno lo abbandonò, assecondando anzi, non di rado, le sue richieste pressanti di aiuto economico. Il suo rapporto con Alessandro - il fratello maggiore ed erede dunque del titolo di marchese - durò cordiale e fecondo per tutta la vita: appassionato agricoltore, aperto al progresso nella coltura dei campi, Alessandro approfittò anche dei viaggi all'estero e delle conoscenze scientifiche di Francesco per introdurre migliorie che spesso erano anteprime per il Piemonte. Ma, pur nell'affetto e nella stima per quel fratello eccentrico, l'erede della casata - ce ne è traccia nelle lettere - ha spesso l'aria di sospirare manzonianamente:

"Che sant'uomo! ma che tormento!".

E così, sorridendo, ci piace immaginare il marchese Alessandro anche quando Francesco lo sollecitò a venire a visitare l'Esposizione universale di Parigi, nel 1855, per ampliare le sue conoscenze e dar consigli utili ai figli, raccomandandogli però di portare poco denaro per comprare souvenir perché, scrive, "tutto ciò che è inutile è roba rubata ai poveri".

Nella famiglia dei Faà di Bruno non mancavano certo gli ecclesiastici: quel che ci si aspettava da Francesco era che, dopo le dimissioni dall'esercito, dopo l'inizio delle sue fondazioni religiose, con quelle convinzioni e con quel tipo di missione scegliesse lo stato clericale. Dove, senza dubbio, avrebbe ricalcato le orme dei suoi antenati, giunti sino alla consacrazione a vescovi; o anche di suo fratello Giuseppe Maria, uomo di grande e sincera carità ma (come quasi doveroso per un Faà) di autorità e di prestigio, divenuto in effetti Superiore generale della congregazione dove aveva scelto di entrare.

E, invece, quella sua scelta di restare laico, sino a oltre i cinquant'anni, lo teneva in uno stato ibrido, sottraendogli prestigio in quanto secolare e non concedendogli la possibilità di far "carriera" nello stato ecclesiastico.

Ma nelle sue scelte era incrollabile: a questo si sentiva chiamato, questo avrebbe fatto. E questo fece, sino all'ultimo, nella solitudine che sempre contrassegnò la sua vita: senza famiglia propria; senza possibilità di riversare, almeno visibilmente, il suo affetto sulle beneficate, colle quali doveva mantenere il più distaccato dei contegni fino al limite della rigidezza; senza l'aiuto di collaboratori stretti, che gli fossero alla pari quanto a carità e a impegno (escludendo, ma già avanti negli anni e con austere prudenze, la signorina e poi suor Gonella); senza neppure, negli anni di sacerdozio, il conforto di una comunità di confratelli o anche di un prete solo, di un consacrato come lui.

"Devo fare tutto da me, tutto grava sulle mie povere spalle", constata in certe lettere. Aveva pensato di fondare una congregazione maschile di Sacerdoti del Suffragio, da affiancare a quella femminile. Ne stese pure le regole. Ma gli mancò il successo anche perché "nel clero torinese si era creata una fama, per quanto ingiusta, di individuo poco socievole" (P. Palazzini).

In realtà, lasciò scritto il can. G. B Pallanca che fu cappellano dell'Opera, che dovette poi lasciare perché richiamato a Imperia dal suo vescovo: "Mi era stato detto che non sarei durato quindici giorni all'istituto, alludendo al carattere del sig. Abate. Il fatto dimostrò tutto il contrario: non mi scontentò in nessuna domanda, anzi mi prevenne in ciò che non avrei osato chiedere. Si disse taciturno a tavola coi sacerdoti: io lo trovai sempre pronto a dispute di teologia, di filosofia, di storia, di scienze. Sfuggiva, però, i discorsi inutili e, piuttosto che perdere tempo, leggeva giornali e libri. Non faceva né ricreazione né pigliava divertimenti; levatosi da tavola, andava immantinente al lavoro".

In realtà, è lo stesso don Pallanca che conferma che quella fama di eccessiva austerità e di scarsa socievolezza veniva dal fatto che "per evitare anche l'ombra del peccato" (e le chiacchiere della gente) aveva adottato "disposizioni assai rigide, innanzitutto verso se stesso".

Ma veniva anche dal fatto che - per quest'uomo che, oltre alle chiese, conosceva sin da giovanissimo caserme e aule scientifiche - la vita era davvero una cosa seria, da vivere con serietà in ogni aspetto, perché occasione irripetibile di guadagno dell'eternità.

Dopo la sua morte la presenza maschile nell'Opera finì per essere sostituita interamente da quella femminile: al canonico Agostino Berteu (morto nel 1913) succedette mons. Giuseppe Gilli, cappellano del re e custode della S. Sindone, morto nel 1927, "finché poi i superiori verranno sostituiti in tutto dalle Superiore generali, succedutesi nel governo pieno della congregazione" (P. Palazzini)

Avendo infatti concluso tutto il lungo e complesso percorso delle successive approvazioni ecclesiastiche, le Minime di Nostra Signora del Suffragio acquistavano piena autonomia e, con essa, responsabilità diretta sull'eredità spirituale e materiale del Fondatore.

L'opera iniziata da un giovane scapolo era - ed è - interamente assunta da menti, cuori e mani femminili: esito significativo per chi, sfidando la mentalità ottocentesca (e, di certo, non solo clericale ma anche, forse soprattutto, liberale: fu essa a creare in quei decenni la mistica dell'angelo deI focolare), aveva dato la vita per la promozione vera della donna.

E ciò non con proclami demagogici o con progetti utopici, ma nella concretezza dell'attività quotidiana, assicurando a quelle ultime nella scala sociale un ricovero, un ufficio di collocamento, un'associazione contro le incertezze della vita, un'infermeria contro le malattie; ma anche scuole e corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale, perché anche così potessero avere un'esistenza più degna e umana e meglio potessero tutelare i loro diritti.

Alla fine, quelle altre donne che erano le sue suore e alle quali aveva dato tutto quel che poteva - non riuscendo neppure, in vita, a vederle "sistemate" in modo canonicamente stabile - relegarono gli uomini a pur indispensabili compiti di assistenza spirituale e agirono (e tuttora agiscono) in prima persona, senza dover rendere conto a superiori maschili delle loro scelte.

Torniamo alla fine (quella, almeno, che tale è secondo il mondo) di quella vita. Torniamo al martedì della Settimana Santa del 1888, a quel 27 marzo, alle nove del mattino, nelle stanze di via San Donato 31, ricche solo di libri, di strumenti scientifici, di immagini sacre.

Stanze dove, anche negli inverni più crudi, non aveva mai voluto riscaldamento, con un ostinazione che qualcuno, al processo, fu tentato di rimproverargli, come fosse un eccesso di eroismo, una mancanza di discrezione, di prudenza. Dimenticando, però, che quel tipo di ascesi era molto facilitato a chi, come lui, sin da giovanissimo era stato allevato alle durezze - per noi quasi inconcepibili - della vita militare della prima metà dell'Ottocento.

Tra le sue spesso ignorate primizie c'è anche l'avere introdotto in Torino l'adorazione eucaristica notturna.

Divenuto sacerdote, rifiutava ogni elemosina per la messa quotidiana, volendo essere libero di dedicarla alle sue intenzioni: l'Opera, i benefattori, le anime dei defunti, a cominciare da quelle dei soldati caduti in guerra Negli atti dei "processi" c'è persino l'eco di qualche malumore nella comunità per la lunghezza di quelle sue messe. Al che replicava di "essere lesto in tutto il resto" ma di voler essere "lento nella celebrazione del Mistero eucaristico, per dargli l'onore dovuto"

Né la sua devozione eucaristica era solo del sentimento visto che - lo vedemmo - a quella Presenza misteriosa aveva dedicato un saggio, tentando di applicarvi, per meglio capirlo, le categorie scientifiche.

Ma che avvenne, dunque, dopo le nove di quel lontano mattino di marzo, dopo che - ricevuta l'estrema unzione e gli altri sacramenti, mentre attorno al suo letto gli intimi, inginocchiati, pregavano senza interruzione - dopo che ebbe esalato l'ultimo respiro? Su quel dopo - di lui come, prima o poi, di ogni altro - le strade radicalmente divergono: (è una via laica dove, ovviamente, del tutto si tace, limitandosi semmai a riferire che cosa i vivi abbiano fatto attorno a quel cadavere. E c'è una via devota, quella della agiografia tradizionale, che non ha esitazioni: l'anima immortale venne subito accolta dal Cristo così come il Vangelo promette: "Vieni, servo buono, sei stato fedele nel poco, io ti darò autorità sul molto".

UN AIUTO CONCRETO

Quella di Giovanni Bosco che a Valdocco raccoglieva quegli scarti della nuova società che erano i ragazzi abbandonati era la stessa prospettiva, la stessa sfida del suo grande amico, del fratello nella stessa fede che a San Donato raccoglieva quegli altri scarti che erano le serve disoccupate, malate, incinte, invalide, invecchiate.

Anche a lui (come a tutti gli altri santi "sociali") si può applicare quanto Piero Bairati, storico contemporaneo dell'economia, scrive di don Bosco: "In una società disgregata, si afferma come organizzatore. In un mondo di sbandati, insegna il valore della disciplina e instilla nei giovani il senso di appartenenza a un'istituzione. Ai miserabili e ai derelitti non predica una vaporosa religione del cuore, ma un severo ordine interiore e il culto del lavoro, della precisione, delle cose ben fatte".

In effetti, questi cattolici che affrontano di petto i drammi sociali scatenati dall'irrompere della modernità, nella diagnosi concordavano con i nascenti movimenti dei lavoratori (che verranno però dopo, molto dopo di loro: si pensi che la fondazione del Partito socialista italiano non è che del 1892, a quattro anni cioè dalla morte di don Bosco e dell'abate Faà di Bruno!).

È però nella terapia che divergevano.

Terapia che è poi tutta condensata in una convinzione che il Faà non si stancava di ripetere: i guai sociali derivavano dall'abbandono della pratica coerente di un cristianesimo solidale, autentico. E, dunque, battersi per la restaurazione religiosa non era solo uno strappare anime all'inferno, ma anche contribuire efficacemente a creare una società migliore, più giusta e più umana. Per dirla con le sue stesse parole: "Salvare il mondo con una religione vissuta profondamente".

Sapeva che la fede autentica produce anche buoni cittadini: quegli "italiani seri" di cui la caotica, improvvisata nuova nazione aveva disperato bisogno. Lui, del resto - lui, il nobile, il privilegiato, il ricco, il colto - era il primo a dimostrarlo.

Né si creda che quella sua opera fosse marginale, insignificante: già nel 1879, a vent'anni dai primi inizi dell'Opera, tra le sue mura erano passate oltre 10.000 donne. Un numero quasi pari, cioè, a tutte le domestiche di Torino. Quel passaggio produceva inoltre frutti duraturi, in quanto la maggioranza delle ricoverate temporanee aderiva poi a una associazione con scopi religiosi e di mutuo soccorso. E, ciascuna di esse, poteva essere un fermento di cristianesimo all'interno di quasi la totalità delle famiglie torinesi abbienti a sufficienza da permettersi una domestica: a questo, del resto, il Beato mirava; e questo spiega anche l'ostilità di cui era circondato dalla casta liberale. I numeri andarono moltiplicandosi negli altri nove anni della sua vita e aumentarono in modo impressionante dopo la sua morte, per giungere sino a noi, dove attorno agli istituti di via San Donato e alle sue suore si coagulano ora le nuove povertà delle domestiche africane, asiatiche, sudamericane.

È solo un esempio, questo, della terapia messa in atto dal Beato (come dagli altri cattolici del tempo) per rispondere con fatti concreti a una situazione sulla cui diagnosi era implacabile; alla pari, anzi con ancora maggiore severità, dei nascenti socialismi e sindacalismi laici. Questi, in effetti, ai ricchi, ai privilegiati minacciavano tasse, riforme, espropri, magari la rivoluzione stessa.

Cose gravi, ma di certo infinitamente meno di quanto, Scrittura alla mano, minacciavano quei credenti: niente di meno che la sventura e la sofferenza eterne, l'ira implacabile di Dio stesso. In una parola sola e terribile: l'inferno.

Altro non praticavano, in questo modo, che la fedeltà a tutto il Vangelo, nella lettera come nello spirito. E di Gesù stesso il "guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione! guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame!" (Lc 6,24 s).

Ed è nello stesso terzo evangelo l'inquietante parabola che cosi comincia: "C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco...". E ben si ricorda il terribile seguito, con il ricco che, stando nell'inferno, tra i tormenti, chiede almeno un po' di refrigerio, avendone come risposta: "Ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora, invece, lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti..." (Lc 16).

In quella prospettiva da credenti radicali nella quale, per rendere loro giustizia, vanno sempre giudicati, non c'era per loro minaccia socialista, marxista, anarchica che si avvicinasse alla terribilità di quelle altre parole che gli evangeli attribuiscono ancora al Cristo:

Poi (il Figlio dell'uomo) dirà a quelli posti alla sua sinistra:

"Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato [...]. E se ne andranno, questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna"(Mt 25,4-44 e 46)

Da queste parole del Cristo - e da tante sue altre, esplicite e inesorabili - già i primi credenti trassero subito le conseguenze. Dalla lettera che il Nuovo Testamento attribuisce all'apostolo Giacomo:

E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida: e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage (Gc 5,1-5).

Espressioni, come si vede, assai poco carine per i ricchi destinatari; e sulla base delle quali, la Chiesa, tra i peccati più gravi - quelli "che gridano vendetta al cospetto di Dio" - pose proprio il "defraudare i lavoratori della giusta mercede". Coerenti - senza sconti né mediazioni - con le parole della Scrittura giudeo-cristiana e della millenaria Tradizione cattolica che ad essa si era uniformata, questi credenti del secolo del liberalismo capitalista e del socialismo rivoluzionario non si limitarono, nella loro predicazione, a delle vaghe esortazioni, a degli innocui auspici o alla richiesta di qualche spicciolo che illudesse i ricchi di salvare la propria coscienza (e la propria anima) e al contempo tenesse buoni i poveri.

Faà di Bruno, di solito così controllato, allergico a ogni atteggiamento demagogico, a ogni parola urlata, alza invece la voce contro i padroni che, per sete di guadagno, rendevano schiavi i dipendenti negando loro persino il riposo festivo: "Anche tra noi sono i barbari che costringono il povero operaio a rovinarsi la sanità per lavorare la domenica". E, altrove, parla di "quegli uomini che rendono schiavi altri uomini incatenandoli e degradandoli sotto il giogo del continuo lavoro".

Nutrito di cultura francese, leggeva e citava spesso, nelle sue omelie da sacerdote, ma anche nei discorsi e nelle lettere da laico, Bossuet, il predicatore della corte secentesca di Versailles che, davanti ai grandi del regno, non temeva di dire: "I pregiudizi del secolo impediscono ai ricchi di comprendere che pesante fardello sia l'abbondanza. Ma, allorché arriveranno là dove sarà di nocumento essere troppo ricchi, allorché compariranno davanti a quel tribunale dove bisognerà rendere conto non solo dei talenti impiegati ma anche dei talenti sotterrati e rispondere a quel giudice inesorabile non solo dello speso ma anche del risparmiato e messo da parte, allora, Signori, conosceranno che le ricchezze sono un gran peso e si pentiranno indarno di non essersene scaricati". E, ancora: "O grandi, o ricchi del mondo, quanto la vostra condizione mi fa paura!".

Sentiamo, al proposito, un brano del discorso pubblico che l'ormai vecchio don Bosco tenne il Sabato Santo del 1882 a Lucca dove si era recato - al solito - a sollecitare aiuti per i suoi giovani:

Uno avrà mille franchi di rendita e di ottocento può onestamente vivere; orbene, i duecento che avanzano cadono sotto le parole di Gesù: "Ciò che è di più, datelo in elemosina!".

"Ma una necessità impreveduta, una fallanza nel raccolto, una disgrazia nel commercio…".

Ma sarete ancora in vita allora? E poi Iddio: che al presente vi aiuta, non vi aiuterà specialmente se avrete dato per amor suo? Io dico che chi non dà il superfluo ruba al Signore e con san Paolo dico: regnum Dei non possidebit.

"Ma la mia casa è povera; ho bisogno di rinnovare certe suppellettili già troppo vecchie e non più secondo il gusto che corre." Se permettete, entro con voi nella vostra casa. Veggo là suppellettili molto ricercate, qui una tavola fornita di ricchi servizi, altrove un tappeto ancor buono. Non si potrebbe lasciar di cambiare questi oggetti e, invece di ornare i muri e la terra, coprire tanti poveri giovinetti che soffrono e che pure sono membra di Gesù Cristo e tempio di Dio? Veggo là risplendere argento e oro e ornamenti tempestati di brillanti.

"Ma sono una memoria..." Aspettate voi che vengano i ladri a rubarveli? Voi non li usate, né vi sono necessari. Prendete questi oggetti, vendeteli e datene il prezzo ai poveri: voi li date a Gesù Cristo e acquistate una corona in cielo. In questo modo non isquilibrate punto le vostre sostanze, né vi levate il necessario.

"E quella cassetta così ben chiusa?" "E niente!" "E niente? Lasciate vedere!"

"Ecco: è qualche migliaio di napoleoni d'oro: li conservo perché può venire una malattia; e poi c'è un vicino che mi disturba; vorrei comprare quella possessione, e così farebbe miglior vista la mia tenuta." Ma questo è superfluo, io dico; voi siete obbligato a prendere quel denaro che non giova a nessuno e a farne ciò che comanda Gesù Cristo. Volete conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate, il demonio verrà e di quel denaro farà una chiave per aprirvi l'inferno.

Se volete sfuggire a tanta sventura, imitate l'esempio dei Santi e soccorrete i poveri. Dando ai bisognosi le vostre sostanze, voi le mettete come in mano agli Angeli, i quali ne faranno una chiave per aprirvi il cielo nel giorno della vostra morte.

Si andava davvero sul pesante, dunque. Alla pari, anzi assai più, della predicazione sociale dei riformisti laici o dei rivoluzionari atei del tempo i quali (lo ricordiamo ancora) minacciavano ai ricchi sventure ma, necessariamente, limitate nel tempo, in vita. Qui, invece, le sventure sono predette nella eternità, senza limite né fine.

Ma l'aspetto che distingue un Bossuet, un don Bosco o un Faà di Bruno da un Marx, da un Engels, da un Bakunin, da tutti gli altri "apostoli della giustizia" da ottenere con mezzi politici; la chiave per capire quanto la passione per i poveri sia la medesima ma differente la terapia, diversa la prospettiva è in quel: "Volete conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate. Il demonio verrà...".

Si raccomandava, dunque, sulla scorta di Paolo che scriveva a Timoteo: "Ai ricchi in questo modo raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza nell'incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; raccomanda di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistare la vita vera" (1Tim 6,17).

Questi credenti del secolo del socialismo miravano cioè anch'essi (e con quale vigore) a una migliore giustizia, a una società più umana ma, nel loro realismo cristiano, non credevano che ciò fosse raggiungibile per via coercitiva, per via rivoluzionaria. Volevano l'esproprio di ciò che, superando il lecito, non apparteneva più ai ricchi ma toccava ai poveri: volevano però che nascesse da un'esigenza libera, dalle ragioni della coscienza, dal profondo del cuore. Se proprio non da altro, almeno dal timore di presentarsi carichi di fardelli inutili davanti al Giusto Giudice per eccellenza, quello le cui sentenze sono immodificabili e inappellabili.

Intuivano che la rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe risolto i problemi, anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come tutto ciò che nasce dalla forza.    183

E come, in effetti, presto si vide. E come, soprattutto, noi oggi vediamo, con il disastro e il crollo dei regimi costruiti in nome del socialismo scientifico e, in generale, con quelle rivoluzioni cui questi credenti si opponevano non certo per insensibilità, non per miopia, non per interessi di conservazione sociale ma, al contrario, proprio per preservare il popolo da illusioni che si sarebbero rivelate rovinose.

Seguaci di quel Gesù che "sapeva quel che c'è nel cuore dell'uomo", membri di una Chiesa millenaria "esperta in umanità", prevedevano che ogni rivoluzione solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria; anzi, alla lunga, malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata rovinosa, creando una nuova classe di ancor più scandalosi privilegiati e impoverendo ancor più i già poveri. Perché solo la rivoluzione interna (il cambiare la coscienza, l'aprire il cuore alla pietà, alla misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che alla lunga, significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione di Dio prima che agli schemi degli uomini che l'uomo può scoprirsi fratello di ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano, ripetendo sempre di "non voler fare altro che la politica del Padre Nostro"

La tradizione cristiana, quella cattolica in particolare, conosce da sempre dei tentativi per anticipare già qui il mondo e l'uomo nuovi promessici: ma si tratta di quei piccoli pezzi di umanità che sono gli ordini e le congregazioni religiose. Dove (almeno nelle intenzioni-) si tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune, in cui l'egoismo sia il più possibile vinto. E' un affrettare i tempi, un proporre un modello di ciò che é già e, insieme, non e ancora.

Ma, non a caso, per accedere a questi spazi escatologici, la Chiesa parla di una misteriosa e gratuita chiamata, di una vocazione di Dio assolutamente necessaria. E non a caso si premunisce con regole e norme precise, con austerità e ascesi programmate, ben sapendo come anche in queste comunità di chiamati l' homo naturalis tenda sempre a rispuntare, con quella che il linguaggio religioso chiama la concupiscentia.

Invece, le ideologie che perseguono l'utopia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo, del paradiso già in terra, non vogliono proporre ma imporre l'ideale: volendo trasformare il mondo intero in un monastero, in un convento, finiscono per ridurlo a carcere e campo di concentramento, dove la virtù alla fine è imposta dalla polizia e dal terrore di uno Stato oppressivo.

Rifuggendo questi santi, da veri seguaci del Vangelo, da ogni odio, anche di classe, e da ogni guerra, anche civile, proponevano per la società e i suoi problemi la via della solidarietà, della compassione (nel senso etimologico: patire insieme), della collaborazione. In una parola, dell'amore.

Ma, questo, senza alcuna ingenuità, anzi con sano e sodo realismo. Profondamente convinti del valore della redenzione operata dal Cristo con la sua passione, morte e risurrezione, erano però altrettanto convinti, sempre sulla scorta di quella loro fede integrale, che, se il peccato d'origine era stato riparato, le sue scorie, le sue conseguenze negative resteranno sino al secondo, definitivo ritorno del Cristo per instaurare - e soltanto allora - le "terre nuove " e i "cieli nuovi".

Sapevano, come dirà un convertito alla fede cristiana, il premio Nobel per la letteratura Thomas Eliot, che e illudersi, e rovinosamente, il pensare di poter creare, per via di riforme politiche e sociali, "un mondo così perfetto, una società dalle leggi così giuste che ci dispensi dalla necessità di essere buoni".

Erano scambiati spesso per ritardatari, per difensori di una prospettiva illusoria e ormai anacronistica: ed erano invece, anche in questo, i veri profeti. Come noi, a più di cent'anni di distanza, possiamo ben constatare. Noi che abbiamo visto (e non lo ricorderemo mai abbastanza) come il bel sogno di creare il paradiso in terra non con la rivoluzione innanzitutto dei cuori, ma con quella della forza, si rovesci sempre, immancabilmente, nell'incubo concreto dell'inferno in terra. Noi che, dopo tante amare esperienze (le cui conseguenze peggiori hanno patito soprattutto quegli ultimi che si credeva di aiutare), dovremmo ormai sapere che - per dirla con Giovanni XXIII - "mai ci saranno pace e giustizia fuori, nella società, se non ci saranno prima dentro, nell'intimo di ogni uomo".

Si spingevano, quei credenti, a minacciare ai privilegiati la punizione eterna per cercare di diminuire al massimo l'ingiustizia; per alleviare al massimo le sofferenze; per sconfiggere al massimo l'individualismo. Al contempo, però, sapevano che lo spessore del peccato, dell'egoismo, dell'indifferenza mai sarà del tutto eliminato; che, malgrado ogni sforzo, la perfezione non e di questo mondo, già salvato dalla redenzione del Cristo e insieme ancora afflitto dalle conseguenze del peccato.

Diffidavano poi - anche qui da veri cristiani, in opposizione alle nuove ideologie - dei discorsi teorici, dei mirabili programmi per il futuro, dei pronunciamenti generali. Ora sappiamo (ma allora non era così evidente, al contrario) che facile è fare magnifici progetti per l'umanità, difficile è chinarsi sulle miserie dell' uomo che sta accanto a noi.

E, dunque, preferivano - più che scrivere trattati di utopie sociali o infiammare le piazze con rivendicazioni e promesse - rimboccarsi le maniche subito e agire concretamente a favore dei bisogni concreti. Le scale dei miserabili, le salivano portando pacchi di cibi e di vestiti che servissero per l'immediato e non opuscoli di propaganda politica che promettessero il benessere per un indefinito futuro; al clamore del comizio sostituivano l'aiuto, magari silenzioso, discretissimo, come nel caso del nostro Beato.

Ricordiamo tutti (ma non tutti, nemmeno tra cristiani, ne traiamo le giuste conseguenze) la parabola del decimo capitolo di Luca, raccontata da Gesù per rispondere alla domanda di un dottore della Legge che, sentendolo esortare ad "amare il nostro prossimo come noi stessi", chiese, forse capziosamente: "E chi è il mio prossimo?".

Gesù rispose: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto...". Si sa che solo un samaritano, "passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione". Ma in che modo?

Stando a tutti i rivoluzionari e ai riformisti, e poi, in seguito, stando ai cattolici che "vogliono andare a monte", che denunciano anch'essi, sdegnati, la "carità alienante", i "santi della beneficenza"), quell'"avere compassione", per essere autentico, efficace, deve necessariamente passare per le vie della politica.

Pertanto, il samaritano avrebbe dovuto battersi per:

  1. un'azione dello Stato - previa un'approfondita indagine sociologica - per rimuovere le cause di disagio e di emarginazione che spingevano alcuni diseredati al brigantaggio, creando per il loro recupero, a spese e direzione pubbliche, apposite comunità;
  2. in attesa delle misure per risolvere "a monte" il problema di una delinquenza di cui non i presunti banditi, ma la società era responsabile, occorreva un'azione, anch'essa statale, di tutela per i viaggiatori meno abbienti che, come questo, viaggiavano a piedi e senza scorta;
  3. creare una rete di posti sanitari di pronto soccorso, gratuiti e pubblici;
  4. stanziamenti per rimborsare gli aggrediti dei danni subiti e pensioni per chi ne avesse ricavato invalidità;
  5. manifestazioni di protesta per ottenere la sistemazione e l'illuminazione della via Gerusalemme-Gerico come di ogni altra arteria importante;
  6. istituzione nelle scuole di corsi di educazione civica che, certamente, avrebbero dissuaso i giovani dall'aggredire i viandanti...

Diverso il comportamento del samaritano vero, quello di Gesù. "Ebbe compassione", è detto: per manifestarla in concreto, "gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno".

Comportamento scandalosamente "poco sociale", "non risolutivo", al limite "alienante" e "diseducativo"; e che invece Gesù, inopinatamente, considera quello giusto e propone ad esempio: "Va', e anche tu fa' lo stesso".

Proprio per obbedire a questo antico e sempre attuale comando (e per restare in quella Torino di diciotto secoli dopo che quella parabola era stata raccontata), un Cottolengo, un Cafasso, un Bosco, un Murialdo, un Faà di Bruno passarono all'azione immediata prima di elaborare progetti che, in futuro, risolvessero definitivamente i problemi degli handicappati, dei carcerati, dei giovani abbandonati, degli apprendisti sfruttati, delle serve schiavizzate.

Alzarono la voce, certo; denunciarono lo scandalo dell'indifferenza; minacciarono addirittura l'inferno. Ma, più che scrivere manifesti, distribuire volantini, creare una nomenklatura di funzionari di partito e di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero con la loro vita stessa.

Puntarono sì il dito sugli altri, ma solo perché prima l'avevano puntato su se medesimi. Per avere il diritto di far pagare altri, pagarono di persona essi stessi.

Gli ideologi discorrevano di umanità, di classi; questi non si occupavano di astrazioni, di teorie, ma di persone: quei sofferenti concreti e reali in cui il Cristo stesso, accanto a loro, era ancora e sempre in agonia.

Faà di Bruno non fece troppi discorsi sul proletariato (il quale, in ogni caso, lo vedemmo, per il suo bisogno di giustizia sociale a 360 gradi, comprendeva anche "il proletariato dell'Aldilà"), preferendo battersi per far funzionare subito delle mense popolari; non rimandò le serve lacere e sporche ("tanto che niun padrone le vuole", scriverà) che bussavano alla sua porta al giorno in cui la rivoluzione avrebbe trionfato, ma creò asili e scuole e laboratori per loro; non auspicò una giustizia futura, ma le mise in grado di ottenere subito la maggior giustizia possibile; non elaborò un progetto generale di riforma sanitaria, ma si diede da fare per costruire e far costruire bagni pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro l'inquinamento, ma insegnò alle serve ad ammazzare le mosche; non aspettò una legislazione sulla tutela della salute dei lavoratori, ma costruì ambienti senza pericolo per chi vi faticava; non aizzò allo sterminio dei privilegiati ma cercò, concretamente, di convincere costoro a rispettare i loro doveri di cristiani e, se tali non erano, almeno di uomini.

I politici, i teorici, gli agitatori sociali di allora e di sempre rimandavano e rimandano a un futuro radioso, al "domani che canta" Questi cristiani, esaminato il loro presente, si mettevano al lavoro per renderlo subito e il più possibile meno disumano.

Esemplare, al proposito, la vicenda dell'orologio sulla torre. Di quel suo campanile, Faà di Bruno volle fare un segno religioso e al contempo (lo vedemmo) un segno dell'armonia tra scienza e fede, mostrata in concreto sia nell'arditezza del calcolo sia nell'osservatorio astronomico e meteorologico alla sommità.

Dunque, la sfida del laico cattolico e poi sacerdote professor Faà di Brune è il mostrare, con la pietra e il metallo organizzati dal calcolo matematico, che la fede non teme che il "Satana" della modernità "spenni" l'arcangelo; ma che proprio anche con quel presunto "Satana del progresso" si può glorificare il Dio che Michele adora e serve.

Giovanni Paolo Il stesso, in visita a Torino, volle consacrare al nuovo beato la cappella dell'Arsenale dove ha sede l'Accademia militare, indicando nell'antico capitano un protettore degli ufficiali. Ma, in questi anni, molti scienziati si sono rivolti alla Santa Sede perché questo loro collega sia dichiarato ufficialmente "patrono dei matematici": categoria, quest'ultima, priva sinora di un degno rappresentante in Cielo.

Sulla base non di auspici teorici, ma di un'esperienza cominciata sin dalla prima giovinezza, Faà di Bruno non solo non ammetteva contrasto tra progresso tecnico e religione vissuta nel modo più tradizionale, tra scienza più avanzata e fede più ortodossa, ma giudicava queste realtà necessariamente legale tra di loro.

Nel 1928, interrogata dai giudici del primo processo canonico, un'anziana suora, che era stata sua allieva, così tra l'altro testimoniava: "Mi ricordo come fosse solito dire che un vero scienziato non può non credere in Dio e nel cattolicesimo. E perché, pel desiderio di schiarire le mie idee, io insistevo che allora non si sarebbe potuto spiegare come certi uomini di scienza non avessero fede, il Servo di Dio mi diceva: "O non sono veri scienziati o non hanno studiato la religione cattolica"".

Insegnava che l'armonia scoperta dallo scienziato nel mondo fisico è "un'ombra delle perfezioni di Dio"; e che "il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose regolarità matematiche su cui si regge l'universo una provvida e onnipotente Sapienza". Si diceva convinto, per pratica personale, che "l'alta matematica conduce alla logica e questa alla filosofia e questa a sua volta alla teologia". Diceva ancora che, non la scienza è la regina del sapere, ma la teologia, di cui la scienza è I' ancella: perché le parziali verità che lo scienziato scopre non sono che frammenti dell'unica Verità che tutte le contiene.

Ma, al di là dei pur importanti simboli, a quel campanile della sua chiesa in borgo S. Donato volle anche dargli una funzione sociale.

Tra i molti drammi - grandi e piccoli, in ogni caso sino ad allora inediti - causati dalla società moderna, c'era l'aver come ingabbiato il tempo in orari precisi (sconosciuti alla cultura agricola, cui bastava il "pressappoco" del sole) senza però permettere alla massa di accedere agli strumenti di misura di quel tempo fattosi padrone esigente. Un orologio era allora un lusso per privilegiati.

In attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere subito il problema. Con il consueto rigore di scienziato, calcolò che un orologio le cui lancette avessero la lunghezza di due metri, collocato a cinquanta metri di altezza e munito di un quadrante per ciascuno dei quattro punti cardinali, poteva indicare l'ora esatta a ben ottantamila persone. Calcolò poi che la spesa superava le seimila lire e si rivolse dunque al Municipio con una richiesta di sussidio, firmata anche dagli abitanti del Borgo, per questa che era certamente un'opera a favore della città.

Forse per la prima e unica volta il Comune rispose alle sue richieste di aiuto, deliberando però soltanto un contributo di duemila lire. Al solito, tutto il resto fu pagato dal Faà che, tra l'altro, ottenne la delibera comunale nel 1878 ma incasso le duemila lire alla fine del 1882, più di quattro anni dopo, subendo visite di controllo e inquisizioni varie.

Ora, forse, nessuno si affaccia più alle finestre per vedere che ora sia al campanile di Santa Zita: ma, per decenni, centinaia di migliaia di torinesi senza altro orologio lo fecero.

Secondo lo stile di questi cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e concreta al loro bisogno, non promesse di una società in cui tutti avrebbero avuto diritto a un cronometro al polso.

Ma sia chiaro che questo pragmatismo nel beneficare non impediva loro (e, soprattutto, non impedirà ai cattolici che verranno dopo di loro) di pensare anche alle riforme sociali, oltre a quelle morali. Come testimonierà soprattutto la coraggiosa enciclica papale, la Rerurn novarum, che è del 1891 (tre anni dopo la morte del Faà e del Bosco, un anno prima della fondazione del Partito socialista), ma la cui gestazione è assai precedente, risalendo agli inizi stessi della questione sociale. Quell'enciclica di Leone XIII condannava al contempo, come si sa l'egoismo liberale e l'utopismo comunista, perfezionando, precisando e riproponendo quella terza via, quella via cristiana che credenti come questi torinesi avevano già praticato, mostrandone l'efficacia e il valore con l'esperienza concreta.

Durissimo col liberalismo borghese trionfante, ai cui guasti si sforzò fino all'ultimo di rimediare, Faà di Bruno scuoteva scettico il capo davanti alle teorie comuniste (che negano Dio), sbrigandosela con poche parole da realista piemontese e da cattolico che ben conosceva la complessità del cuore umano. Dicono, quelle parole che ci sono state conservate: "Il comunismo è una falsa teoria, condannata dalla Chiesa, ma condannata prima dal buon senso". E che così fosse, sta ora a dimostrarlo la storia disastrosa dei tentativi di tradurre in pratica quell'utopia che, essendo appunto "condannata dal buon senso", esige la forza, il sangue, li polizia per essere instaurata e mantenuta con fatiche e sacrifici inenarrabili, per non riceverne che ulteriori ingiustizie, miserie, sofferenze. E, alla fine, rivolta violenta dei presunti beneficati.

È la storia, è una tragica storia che ci ha mostrato che "quelli che vogliono rendere gli uomini felici, non esitano a massacrarli per questo". E che "fra tutte le idee, quella di rendere perfetta l'umanità è di tutte la più pericolosa"

Queste due citazioni sono di Karl Popper, il filosofo che molti considerano il maggiore del nostro secolo, un agnostico, un non-cristiano, di certo un non-credente. Il quale, però, ha scritto parole che questi nostri santi "sociali" avrebbero sottoscritto volentieri.

Sentiamo, dunque, Popper che così scrive: "Agisci per l'eliminazione dei mali concreti, piuttosto che per realizzare dei beni astratti. Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici. Tendi piuttosto a eliminare la miseria alla tua diretta portata. Non cercare di realizzare questi obiettivi concependo e cercando di attuare un ideale remoto di società perfetta. Non permettere che i sogni di questo mondo perfetto ti distolgano dai bisogni degli uomini che vivono qui e ora. I nostri simili di adesso hanno diritto a essere aiutati adesso: nessuna generazione presente deve essere sacrificata per il bene di quella futura, in vista di un'utopia di felicità".

Era composto di gente socialmente impegnata, di paladini dei lavoratori, di intellettuali militanti o almeno di fiancheggiatori del movimento operaio, lo staff che nel 1983 fu incaricato di una ricerca. La quale (come diceva il titolo, consisteva in una "indagine sul Borgo San Donato dal 1850 al 1900" ed era commissionata da quel comitato di quartiere a maggioranza comunista, con l'appoggio socialista: alla pari, del resto, e da otto anni, dell'amministrazione municipale di Torino.

Da quella ricerca lunga e ambiziosa, con pretese di completezza (vi risultarono impegnati un coordinatore, due responsabili scientifici, tre ricercatori, sei collaboratori e infine due responsabili del Consiglio di circoscrizione) vennero una mostra e un volume fitto di documenti anche rari e con grande scialo di noie erudite. Il tutto, ovviamente, pagato con il denaro pubblico.

Stando a quanto ricostruito da quegli "esperti", quasi non è esistita, nel Borgo, l'instancabile, enorme attività svolta in quei decenni e tra quelle vie dai grandi cattolici sociali: e non solo il Faà, ma altre figure straordinarie come il teologo Gaspare Saccarelli che nel suo Istituto della Sacra Famiglia giunse a mantenere 250 fanciulle orfane e 300 figli di operai; o come don Pietro Merla, morto nel 1855 per le percosse e le sassate ricevute da un gruppo di giovinastri cui aveva sottratto delle giovani prostitute, accogliendole nel suo Istituto di San Pietro. Credenti che non a caso fissarono la loro attenzione fraterna su questa zona cittadina, dove oltre la metà della popolazione risultava nullatenente e bisognosa di assistenza; e dove (come il tragico episodio di cui fu vittima don Merla conferma) la malavita imponeva la sua legge di violenza.

A quei credenti che diedero tutta la loro vita per i derelitti della zona, gli "storici" del comitato "rosso" di quartiere non dedicano che pochi, spesso sprezzanti cenni, quasi sempre per far sospettare qualche loro speculazione sulle aree, qualche inghippo per ottenere lucrose varianti urbanistiche (come se, tra l'altro, il Comune non fosse in quei decenni saldamente in mano a una consorteria faziosamente anticlericale che, lo abbiamo visto, a tutto era disponibile tranne che a favorire dei cattolici, dei preti).

Quanto a Francesco Faà di Bruno, il breve cenno che lo riguarda, lo dice, testualmente, iniziatore di "un'Opera che e una vera e propria fabbrica di serva". E, in una nota, si spiega che "questa istituzione", dietro il pretesto della "caritatevole assistenza", a questo, in realtà, mirava: "assicurarsi mano d'opera ben addestrata e a buon mercato". Dunque, il nostro Beato come uno speculatore sulla miseria, quasi un mercante di carne umana, un astuto organizzatore di traffici lucrosi a danno delle "serve" da lui "fabbricate": e, il tutto, in combutta con la classe borghese, quella stessa classe che però, curiosamente, lo minacciava di confisca, lo sbeffeggiava sui giornali, gli sabotava la carriera scientifica. E che egli ricambiava con l'epiteto di "barbara!"…).

Non occorrono di certo commenti. Al lettore di queste pagine, se è giunto a leggerle sin qui, lasciamo il giudizio su simili "storici" e sullo schematismo triviale di un'ideologia la quale, del resto, ricalca le orme di un'altra ideologia, quella della borghesia liberale: quando, nei primi mesi del 1888, morirono don Bosco e Faà di Bruno, il maggior quotidiano di Torino, La "Gazzetta del popolo", ignorò la notizia, malgrado il coinvolgimento popolare. Il periodico "Il Ficcanaso", diretto da un garibaldino, parlò della "morte di un briccone esperto nell'arte di pelare i bipedi", un "capo di gaglioffi": questo, per quei "democratici", era S. Giovanni Bosco.