Beato Faà di Bruno
Tratto
dal libro: IL BEATO FAA' DI BRUNO di VITTORIO MESSORI ed. Biblioteca Universale
Rizzoli
Lo
spirito di questa iniziativa Internet è quello di portare a conoscenza,
incuriosendo il visitatore, di alcuni dei tanti santi e beati che hanno
accompagnato questa umanità in cammino. Lo si è voluto fare attraverso una
testimonianza, il più completa possibile, ma sintetica, essenziale, leggibile
con facilità ed in breve tempo. Buona è la raccolta agiografica di Antonio
Sicari che già è stata concepita con queste caratteristiche. In altri casi,
come in questo, la vita dei nostri personaggi è raccolta in testi corposi che,
pur molto completi, debbono essere necessariamente ritagliati per venire
inseriti in questo progetto "informativo". Questo lavoro di
"ritaglio", non facile e forse necessariamente irrispettoso
dell'autore, è stato fatto con lo scopo di raccogliere alcuni spunti ed
informazioni sulla vita del beato, più che riassumere il messaggio dell'autore.
Chi vorrà leggere il testo integrale del Messori dovrà necessariamente
riferirsi alla versione originale del suo libro indicato all'inizio.
Una
delle tante testimonianze del passaggio tra noi di Faà di Bruno è la chiesa di
S. Zita in via S. Donato da lui progettata e costruita. Riportiamo alcuni
passaggi dove il Messori racconta il suo "incontro" con Faà di Bruno,
avvenuto, appunto, attraverso le prime visite alla chiesa di S. Zita.
***
Dal buio, la vista era
spinta a guardare al fondo, verso l'abside dove - sempre illuminata da fari
invisibili - stava (e sta) una Madonna in marmo bianco con gli occhi al cielo e
le mani stese verso il basso, verso anime sofferenti e insieme fiduciose che
implorano liberazione dalle fiamme in cui sono immerse.
Su di me, giovane,
solitario pedone urbano, non avvezzo ad ambienti ecclesiali, neppure
frequentatore di oratorii, su di me, quell'ambiente misterioso esercitava
fascino e, insieme, produceva una vaga inquietudine. Nei miei vagabondaggi per
il quartiere, spingevo spesso quella porta: ne ricordo battenti foderati, sui
bordi, di panno e cuoio, le targhette così ottocentesche, in metallo smaltato
di bianco con, in blu, Spingere (o Tirare?).
Obbedito a quell'ordine, si
era in una bussola, con un'altra porta da varcare: chiusa la quale, sparivano i
rumori della via commerciale, non si avvertiva nemmeno più lo sferragliare del
tram che, nei due sensi, la percorreva. Era il 13, il vecchio 13, con i colori
di allora per tutti i mezzi pubblici: verde chiaro, verde scuro, una linea
continua nera e, sulle fiancate, il toro rampante giallo e blu della città dei
Taurini. L'indispensabile 13, che per chilometri e chilometri tagliava da ovest
a est la città attraversando tutto il centro, passando davanti alla stazione
ferroviaria di Porta Nuova, collegando noi, abitanti di San Donato, con il
cuore urbano. Il nostro 13, di noi del Borgo, dallo sferragliare casalingo e
tranquillizzante, ucciso dissennatamente per far posto a estranei autobus giallastri:
traballanti, rumorosi, avvolti da una nuvola di gas di nafta. E, per giunta,
con un percorso dimezzato, così da costringere a un inutile trasbordo per
giungere in quel centro che gli amministratori a un certo punto decisero di
punire, rendendolo accessibile con fatica.
Se mi attardo su questo, un
motivo c'è: come scoprii molto più tardi, l'uomo, i cui resti stavano nella
tomba della misteriosa chiesa, secondo la sua abitudine si sarebbe di certo
mobilitato, avrebbe raccolto (in civile, pacifica quanto ferma protesta) gli
abitanti del "suo" Borgo. Lo avrebbe fatto di sicuro: sempre si era
battuto contro ogni piccolo e grande sopruso sulla pelle della gente; sempre a
favore dell'uomo concreto, dei suoi bisogni, di un progresso "vero".
Lui che, come si scoprì dopo la morte, tra le pagine del breviario, accanto
alle immaginette dei santi, conservava ritagli di articoli su progetti e
realizzazioni di nuove vie ferrate.
Ma di tutto questo, io
proprio nulla sapevo allora; io, allievo di laicissime scuole, nutrito di
sospetti, magari di sarcasmi, verso il mondo dei preti, immerso in una totale
ignoranza della realtà religiosa. L'istinto anticlericale del sangue emiliano
era rafforzato e come razionalizzato dal duro laicismo di una cultura subalpina
che ha in Gramsci e Gobetti i suoi santi protettori.
Ciò che avvertivo in quella
chiesa era solo che, dietro quelle due porte in legno pesante, spariva la città
col suo affannarsi fragoroso, e si entrava in una dimensione altra, il cui
sfondo obbligato era il chiaroscuro e il silenzio.
Esitante, come in punta di
piedi, percorrevo le navate laterali, in qualche modo illuminate (se l'ora, la
nebbia, la pioggia lo consentivano) da vetrate con soggetti sacri il cui
significato il più delle volte mi sfuggiva. Così come non riuscivo a dare un
nome a molti dei santi il cui ritratto stava sopra gli altari. Avvertivo,
tuttavia, che l'insieme non era casuale, che doveva rispondere a una sorta di
piano: probabilmente (lo deducevo da certi quadri) quello di spingere a meditare
sulla morte e sull'Aldilà, di celebrare il ricordo dei defunti.
Forse, mi avrebbe aiutato a
capire il significato del complesso architettonico il titolo ufficiale (che
ignoravo) di quella chiesa: Nostra Signora del Suffragio. Forse, dico; perché
non sono sicuro che allora sapessi il senso religioso di suffragio (dal
dizionario: "Preghiera od opera di carità i cui meriti sono applicati a
favore dei morti"). Credo che avrei pensato al significato politico,
di voto (il suffragio universale) confondendomi ancor più le idee: una Madonna
per le elezioni, una Nostra Signora per i votanti? Qualcosa da rendere ancor
più sospettoso, allergico a chi - e io ero tra quelli - nella religione vedeva
un'illusione per gli ingenui ma anche un instrumentum regni per i furbi e i
potenti. Ma quel nome ufficiale nessuno lo usava nel quartiere; tutti indicando
la chiesa come quella di Santa Zita. E chi mai poteva essere costei?
Non sapevo, non capivo.
Qualcosa, però, dentro si muoveva. Come una nostalgia di un mondo sconosciuto
dove dovevano pure affondare le mie radici di discendente da contadini padani
di stirpe celtica mista all'etrusca, poi latinizzata e infine, da almeno
quindici secoli, cristianizzata. E non dovevano affondarvi in modo così
superficiale da non agire ancora - lo volessi o no - sul giovanissimo che ero,
scalzato dalla sua terra e dalla sua gente e gettato a crescere, in balia di
ogni maestro, nella grande città secolarizzata.
Anche qui, non sapevo che
le mie reazioni - quell'insieme di inquietudine e di attrazione, di desiderio
di conoscere meglio e al contempo di girare alla larga, nel timore indistinto
delle conseguenze da trarre - non sapevo, dunque, che quelle mie reazioni erano
la prova che non aveva mancato il bersaglio colui che quella chiesa aveva
voluto. E che così aveva voluto: con quella facciata scura e mesta a
settentrione, quella penombra, quel senso di mistero, quelle immagini, quel
costringere il visitatore a raccogliersi, a pensare alla morte per indurre
così, per istintiva reazione, a volgere lo sguardo alla Madonna illuminata
sopra l'altare maggiore, cercando in lei aiuto allo smarrimento, un antidoto a
un oscuro timore, magari una via di scampo dal buio di una vita drammaticamente
simboleggiata da quelle navate.
Sentimenti inquietanti.
Temperati però da un particolare curioso: avveniva, cioè, che entrando in certe
ore - l'odore di cera e di incenso si mescolasse a un sentore di minestrone che
doveva giungere da cucine collettive in qualche modo collegate all'edificio. Un
sentore che, pur allentando la tensione del visitatore, costituiva un ulteriore
monito: da quel luogo di preghiera, dunque, traeva stimolo una qualche attività
caritativa, lì viveva una qualche comunità di assistiti.
Passarono molti anni. Quel
mondo che mi sembrava tanto estraneo e remoto, così scostante, anacronistico,
per un giovane che volesse vivere modernamente il suo tempo; quel mondo
"religioso", dunque, divenne anche il mio. In modo inaspettato,
traumatico, con sorpresa innanzitutto dell'interessato.
Nel frattempo, i miei nuovi
interessi religiosi mi avevano fatto scoprire qualcosa di ciò che stava dietro
quella chiesa di via San Donato, dietro quell'altissimo campanile, quegli
edifici, quel giardino al di là del muro. Si trattava delle "opere"
costruite da un cattolico nato nel 1825 e morto nel 1888, meno di due mesi dopo
il suo grande amico don Bosco, tal Francesco Faà di Bruno, dichiarato dalla
Chiesa "servo di Dio", poi, nel 197l, "venerabile";
e, nel 1988, nel centenario della morte, "beato", ultimo gradino
prima della vetta suprema: l'inserimento nel canone (la
"canonizzazione"), l'elenco cioè dei santi.
Personaggio singolare,
appresi, fattosi sacerdote a quasi 52 anni, dopo aver già avviato le sue molte
opere, compresa una comunità religiosa femminile. Uno che non veniva da un
seminario ma dall'esercito, addirittura dallo Stato maggiore del regno di
Sardegna. E che, più che la teologia, sembrava aver praticato le scienze
naturali - dall'astronomia alla fisica alla geometria per l'insegnamento delle
quali sino all'ultimo aveva tenuto cattedra all'Università di Torino e alle
quali aveva dedicato studi ponderosi.
La chiesa era sì quella del
Suffragio ma nel senso dell'aiuto - in preghiera e opere di carità - ai morti.
Quanto a santa Zita, era chiamata in causa, qui, perché il Francesco Faà di
Bruno si era occupato di assistenza sociale e religiosa alle serve, come allora
brutalmente si chiamavano, che costituivano buona parte del proletariato
torinese dell'Ottocento. E delle serve, delle donne di servizio, protettrice
celeste è appunto, una loro straordinaria collega della Lucca del XIII secolo,
santa Zita.
Quanto allo smisurato
campanile, era un monito religioso (ricordare alla città, così spesso immemore,
la fine della storia che la fede attende, il giudizio universale a cui tutti
dovranno comparire), ma anche una sorta di virtuosismo, di prova delle
conoscenze matematiche e delle valentie tecniche di Faà di Bruno, un grande
credente che era al contempo un grande studioso, un famoso scienziato.
LA VITA
Nasce nel 1825 il 29 marzo,
in Alessandria. Sarà battezzato con nomi di Francesco da Paola, Virginio,
Secondo, Maria. E' il dodicesimo e ultimo figlio (sette femmine, cinque maschi)
di Luigi, marchese di Bruno, nonché conte di Carentino, signore di Fontanile e
patrizio di Alessandria. La madre è la nobildonna Carolina Sappa de' Milanesi.
Un'unione felice, una famiglia tra le più benestanti (e tra le più generose per
i bisognosi) della nobiltà terriera piemontese Forte e autentica in casa, anche
la dimensione di fede: delle due figlie e dei tre figli che sceglieranno la
vita religiosa, una monaca della Visitazione, morirà in fama di santità; uno
diverrà superiore generale della Società dell'apostolato cattolico (i
"Pallottini"). Questi, di nome Giuseppe Maria, ha anch'egli (come il
fratello beato) un suo posto nella storia ecclesiastica: dimorando molti anni,
da religioso, a Londra, vi costruì (con elemosine da lui stesso raccolte
pellegrinando in tutta Europa, Polonia compresa), il Tempio nazionale italiano,
con funzioni non soltanto di assistenza religiosa ma anche di aiuto concreto
alla numerosa, spesso poverissima, colonia di nostri immigrati. A lui si devono
anche innumerevoli conversioni di americani al cattolicesimo: il suo libro Catholic
Belief (Fede cattolica) fu diffuso negli Stati Uniti in milioni di
esemplari.
Nel 1836, Francesco entra
nel collegio di Novi Ligure dei Padri Somaschi e nel 1840 è ammesso alla Regia
accademia militare di Torino. Nel 1846, terminanti i corsi, è nominato
luogotenente nel corpo di stato maggiore generale. Inizia il biennio di
specializzazione (in topografia) e si perfeziona nelle lingue straniere.
Nel 1848 partecipa alla
prima guerra d'indipendenza nella Brigata Guardie comandata dallo stesso principe
ereditario, Vittorio Emanuele, di cui è aiutante di campo. Dopo il battesimo
del fuoco a Peschiera, approfitta del ristagno delle operazioni per disegnare
la Gran carta del Mincio, che si rivelerà decisiva nel 1859, quando sarà
impiegata nella grande battaglia di Solferino e di San Martino. Quel suo lavoro
fu da lui tenacemente voluto: il ventitreenne tenente, formato a serietà
estrema nell'affrontare il dovere, qualunque fosse, era rimasto sbalordito e
umiliato scoprendo che i suoi generali non possedevano carte esatte e recenti
di quel Lombardo-Veneto che pur da decenni si ripromettevano di invadere. Nel
1849 viene promosso capitano di Stato maggiore. Combatte valorosamente nella
luttuosa giornata di Novara, perdendo almeno due cavalli sotto la fucileria
austriaca e restando ferito a una gamba. Sulla scorta di alcuni forti scrupoli
morali, chiede di lasciare l'esercito per continuare gli studi universitari.
Nel 1850 frequenta le lezioni universitarie in scienze astronomiche e
matematiche alla Sorbona a Parigi. Prende intanto contatto con gli ambienti del
cattolicesimo sociale francese e aderisce alle prime Conferenze di San Vincenzo
De' Paoli fondate da Federico Ozanam (che conoscerà personalmente) e alla
diffusione delle quali si dedicherà al suo ritorno nel regno di Sardegna.
Pietro Palazzinì: "Il
suo tempo parigino trascorre tra quel centro di spiritualità e di assistenza
sociale che era la grande parrocchia di St. Sulpice, l'università, l'attività
caritativa vincenziana con le visite a domicilio per i poveri. Come svago, le
visite ai librai e ai negozi di strumenti scientifici" Sin da questi anni
dà alla sua vita un ordine e una precisione - da scienziato e da soldato - che
non abbandonerà più e che gli permetterà di utilizzare per il bene ogni minuto
della giornata. Nel 1851, ottenuto il diploma di Licencié-ès-Sciences, rientra
a Torino, ma la casta politica anticlericale e settaria che si sta formando al
governo impedisce la nomina a precettore dei principi di un credente così
esplicito. "Gli uomini di stato piemontesi che avevano creato un clima
ostile alla Chiesa non erano disposti a tollerare vicino al re in carica e come
precettore del re in fieri un cattolico militante del tipo di Faà di Bruno che
già a Parigi aveva elogiato la spedizione francese contro la Repubblica romana
di Mazzini e Garibaldi" (P.Palazzini).
Tra i drammi maggiori della
sua vita, vi sarà sempre il contrasto tra le sue aspirazioni, da sincero
patriota, all'unità italiana e il rifiuto, come cattolico fedelissimo al papa,
dei metodi e dei modi inaccettabili con cui quell'unità era perseguita, con la
persecuzione e il sopruso verso la Chiesa. Malgrado questo suo leale rifiuto (e
alla pari, anche qui, di don Bosco), non cessò mai di offrire collaborazione
alle autorità, pur anticlericali, quando sì trattasse di unirsi per il
vantaggio dei bisognosi o per la gloria di Dio, com'egli l'intendeva.
Nel 1854 ha inizio il suo
apostolato verso le donne in generate e le domestiche in particolare: presso la
sua parrocchia torinese, quella di San Massimo, in Borgo Nuovo, avvia una Scuola
di canto domenicale cui partecipano, soprattutto, donne di servizio e
popolane. Egli stesso vi suona l'organo. E il primo coro femminile italiano
oltre che il solo diretto da un giovane laico.
Fidando in una promessa
governativa (essa pure sarà disattesa, alla pari di quella dì farlo precettore
dei principi reali o di pagare le spese per la carta del Mincio), la promessa,
questa volta, di essere addetto all'Osservatorio di Torino, nel maggio ritorna
a sue spese alla Sorbona di Parigi per ottenervi la laurea in matematica e
astronomia. Nel 1855 studia e lavora all'Osservatorio nazionale francese,
accoltovi dal celeberrimo Urbain Le Verrier lo scopritore, col solo calcolo,
del pianeta Nettuno. In contatto con la cultura francese, decide di dedicarsi
alla dimostrazione dell'armonia tra scienza e fede.
Nel 1856, stimolato anche
dalla infermità agli occhi della sorella Maria Luigia, inventa e fabbrica uno scrittoio
per ciechi che sarà elogiato da molte accademie, premiato a numerose
esposizioni e che darà grande aiuto a numerosi infelici, in Europa e in
America. Nell'autunno, si laurea brillantemente in matematica e astronomia col
famoso barone Augustin Cauchy, uno dei maggiori scienziati del secolo e tra gli
esponenti più in vista del cattolicesimo sociale. Prima di rientrare scrive a
Maria Luigia:
"Per me, ora,
l'unico affare, se Dio mi sostiene, è di viverre da santo e di meritare di fare
una morte santa. Tutto il resto e' veramente inutile e non sono che giochi da
ragazzi".
Nel 1857 pubblicò su una
rivista scientifica americana la "formula Di Bruno", nota ancor oggi
sui manuali d'informatica internazionali, in quanto impiegata per certi
complessi calcoli al computer. Si tratta, dicono gli esperti, di una formula ancora
insuperata, che fornisce direttamente la derivata ennesima di una funzione
composta.
Nel 1858, a contatto con la
miseria del popolo torinese, che visita quotidianamente con i confratelli della
San Vincenzo, si prodiga per impiantare, almeno durante l'inverno, dei Fornelli
economici per lavoratori, da lui visti e studiati a Parigi. Si tratta di
cucine dove preparare e vendere vivande calde, a prezzo bassissimo; ma non
gratuitamente. Perché, come scrive per esporre il progetto al ministro degli
interni, "la popolazione povera componsi di gente che soffre, sebbene
lavori, e non osa da approfittare delle distribuzioni gratuite, per sentimento
di dignità e di amor proprio. L'operaio più suscettibile potrà venire con la
fronte alta a comperare e non a mandare ciò che è necessario a' suoi bisogni e
a' suoi gusti, non già regalato ma posto in vendita. Costa meno alla modesta
sua borsa e nulla costa alla sua dignità". Per aprire un primo
Fornello, scrive il Faà, occorrono 4000 lire, 1000 delle quali aveva già raccolto
da benefattori, donandone egli stesso altrettante. Con un sussidio pubblico di
2000 lire si impegnava a distribuire per i 5 mesi invernali 600 porzioni
giornaliere di minestra e carne al prezzo di vendita di 5 centesimi l'una.
E così assicurava al ministro,
in una lettera che è tra i primissimi documenti del cattolicesimo sociale
italiano:
"Son pronto ad
assumere qualunque responsabilità, a rassegnare qualunque conto. Se tutto io
potessi, il farei; ma ciò non essendomi dato, mi sia almeno concesso di confidare
in Vostra Eccellenza. Dal sussidio ministeriale dipende l'intraprendere o no
l'opera. Tutte le misure son prese; non manca più che un ordine onde tutto si
muova. Degnisi pertanto V.E. di non defraudare il povero di tanto bene".
A questo grido di aiuto,
non corrispose alcuna risposta dalle autorità, sia governative sia municipali,
malgrado il piano preciso di costi e ricavi presentato dal Faà. Il quale, così,
avvia da solo l'iniziativa che oltre dieci anni dopo sarà assunta dal Comune -
costrettovi dalla carestia e da una ennesima epidemia di colera - funzionando
per alcuni decenni, seppure a costi più alti e a condizioni ben peggiori di
quelle proposte dal Beato.
Il 2 febbraio 1859
istituisce la Pia opera di Santa Zita in un terreno dell'allora malfamato
Borgo San Donato, comprato grazie al suo patrimonio personale e ai fondi da lui
raccolti con circolari ed elemosinando alla porta delle chiese. Il luogo è
scelto innanzitutto perché abitato da una popolazione poverissima e
abbandonata, ma anche perché attiguo a un canale che permette l'istituzione di
una lavanderia modello (con macchine a vapore progettate dallo stesso Faà)
dalla quale si ricavano utili per il mantenimento dell'istituto. Cura del Faà
(polemico contro la scandalosa incuria degli industriali per le condizioni
igieniche cui costringono i lavoratori) è corredare l'impianto "d'ogni
comodità per lavare ad ogni stagione senza inconvenienti, avendo tutti i
riguardi richiesti dalla salute delle giovani".
Nella Torino che stava
secolarizzandosi, il giovane Faà Di Bruno ebbe l'amara sorpresa di vedere
giungere donne (alcune erano bambine di 12-13 anni) lacere, denutrite,
maltrattate, schiacciate per pochi sodi da pretese disumane e spesso anche
immorali. Fu quello choc che svegliò in lui il cristiano radicale e gli
indicò la sua strada.
L'Opera di Santa Zita è
eretta per il ricovero, l'istruzione professionale, il collocamento delle donne
di servizio disoccupate, licenziate, malate, anziane o appena inurbate. Nella
città capitale del regno di Sardegna (e, presto, del regno d'Italia) il
personale femminile di servizio rappresentava la parte più numerosa e più
abbandonata ancor più che le operaie - del proletariato urbano.
Una delle costanti
preoccupazioni del Beato divenne il formare le donne di servizio non solo
professionalmente, ma anche moralmente perché fossero (sono sue parole) "strumento
di pace e di concordia all'interno delle famiglie in cui lavorano".
Al rancore tra le classi,
all'odio sociale che cominciavano a essere predicati, voleva sostituire sì una
difesa dei diritti dei più deboli, ma al contempo affidare a questi una
preziosa funzione di operatori di pace, di portatori di serenità in quei nidi
di vipere che rischiavano di essere - e spesso erano - gli interni
aristocratici e borghesi delle grandi città.
In effetti, la classe
servile costituiva uno di quei problemi umani e sociali fatti esplodere dalla
società borghese, senza alcun pensiero di rimediarvi.
A queste ultime tra gli
ultimi, il potere ufficiale provvedeva unicamente in modo repressivo,
poliziesco, carcerario, con case di correzione, internamenti coatti, fogli di
via per rimandarle ai luoghi d'origine.
Era la stessa repressione
che don Bosco constatò tra i ragazzi e ai quali, dunque, applicò il suo celebre
"metodo preventivo". Così anche, per quanto riguardava le ragazze, il
Faà. Il quale, lo disse più volte, non voleva occuparsi di "già
traviate", ma tutto mise in opera per evitare il traviamento, con un
metodo che definiva "insieme positivo e negativo: formare al bene,
allontanare dal male"
Alle Figlie non si stancava
di ricordare i doveri; ma li ricordava anche ai padroni e, poco fidandosi delle
promesse, quando possibile voleva che fossero messi nero su bianco in quei
contratti che la legge dello stato, scandalosamente, ancora non prevedeva.
(Come non ne prevedeva per quell'altra categoria del tutto indifesa costituita
dai giovani apprendisti: i primissimi contratti che li riguardino sono firmati
(da un maggiorenne, come loro tutore. E' un prete, un certo don Bosco...).
Coloro che si ostinano a
leggere la storia secondo lo schema della reazione e del progresso, devono
rovesciare le parti che abitualmente, per l'Ottocento, attribuiscono ai
cattolici (visti come reazionari) e ai liberali (spacciati per progressisti). I
fatti mostrano assai spesso che la verità stava nel contrario.
Sempre nel 1859, per sua
iniziativa (don Bosco accetta la vicepresidenza), sorge, ed è la prima in
Italia, l'Opera per la santificazione delle feste per difendere i
lavoratori dal lavoro domenicale cui sono costretti dallo spietato capitalismo
della prima industrializzazione.
Nel 1860 fonda, all'interno
dell'Opera di Santa Zita, la Classe delle Clarine (dalla protettrice
santa Chiara): ragazze di umile condizione e affette da menomazioni fisiche
anche rilevanti e, dunque, destinate a una vita di stenti o dì abbandono. La
Classe delle Clarine è ancora esistente: in 130 anni ha dato mezzi di
sussistenza, e uno scopo alla vita, a migliaia di abbandonate e di
handicappate.
Nello stesso anno fonda l'infermeria
di San Giuseppe per donne povere inferme e, soprattutto, convalescenti. Se
già esisteva qualche ospedale e ricovero per le malate, mancava del tutto una
struttura di assistenza intermedia tra la fase acuta del morbo e la guarigione
completa. Molte lavoratrici, rigettate subito nella piena attività, avevano
così pericolose ricadute.
Nel 1862 fonda "un
pensionato-ospizio per donne anziane e invalide".
Dà vita a un liceo (don
Bosco vi invia i suoi primi cinque giovani che devono conseguire titoli
riconosciuti dallo Stato). Questo istituto è il suo con tributo alla lotta dei
cattolici per una scuola libera, contro il monopolio statale dell'istruzione
imposto da un liberalismo che, anche qui, fa ben poco onore al suo nome.
Propone al Municipio di
Torino un piano dettagliato per la costruzione di una rete di bagni e lavatoi
pubblici economici, anche per contrastare, con l'aumento dell'igiene, le
ricorrenti epidemie, soprattutto di tifo e di colera, e per soccorrere le
povere massaie, costrette a lavare i panni sulle rive dei fossi, esposte alle
intemperie, e poi ad asciugarli in casa, con conseguente umidità che favoriva
le malattie. Malgrado l'offerta di costituire una impresa mista, pubblica e
privata (c'è, anche qui, una intuizione precorritrice), il Comune massonico
anche questa volta, come già per i Fornelli, decide di non farne nulla. Il
progetto del Faà prevedeva un primo stabilimento in Borgo San Donato con 40
vasche per i panni e 15 posti bagno: da parte sua assicurava terreni e denaro
per 45.000 lire (più la direzione gratuita) e chiedeva al Municipio un
contributo di sole 20.000 lire. Già aveva costituito una società, raccogliendo
quote azionarie, scrivendo di voler mostrare che "si può far molto,
bene e a buon mercato". Poiché non si volle aiutarlo, il primo bagno
pubblico (creato però anch'esso da una iniziativa filantropica) fu aperto a
Torino solo nel 1880.
Quanto agli istituti di
Borgo San Donato, dopo il colera del 1865 la Giunta comunale invia al Faà una
lettera di congratulazioni per l'ottima situazione igienica riscontrata
dall'apposita commissione sanitaria dopo un'ispezione. Nel vasto complesso
"tutto", scrive lo stesso Fondatore ai fratello con l'orgoglio di
quel militare che era stato, "tutto è in ordine e muove come un
orologio". All'Opera di Santa Zita aggiunge un Pensionato per
sacerdoti anziani o ridotti in miseria dalle leggi statali di confisca,
senza indennizzo, dei beni ecclesiastici.
Nel 1863, istituisce, per
la prima volta a Torino, una Biblioteca mutua circolante, con invio dei libri
al domicilio degli associati. Tra gli scopi, non soltanto preoccupazioni
religiose ma pure l'intento di "moltiplicare la lettura di buoni libri
scientifici", anche in lingua straniera.
Nel 1864 Fonda la Classe
delle educande per la formazione professionale di giovani povere con
corsi triennali di economia domestica.
Nel 1866 - Dà vita alla Classe
delle allieve maestre e istitutrici, per la formazione di insegnanti
elementari seriamente preparate sia a livello professionale che religioso. Egli
stesso tiene i corsi di discipline scientifiche e redige i libri di testo.
Questa iniziativa è per lui importantissima: assunte e pagate direttamente dai
Comuni (molti dei quali, a differenza del governo centrale, sono restati in
mano a cattolici), le maestre costituiscono una valida testa di ponte per la
resistenza e la riconquista religiosa. I corsi (già rivoluzionari per scuole
femminili, con la grande importanza data all'insegnamento delle scienze
naturali) prevedono - e sono novità assolute per l'Italia - lezioni di
meteorologia per consigliare i contadini sul tempo previsto e persino di
telegrafia, per coadiuvare in caso di bisogno gli addetti al telegrafo, unico
legame dei villaggi col resto del mondo
Nel 1868 - inizia la
costruzione della chiesa di Nostra Signora del Suffragio a servizio della sua
Opera, del quartiere di San Donato e dei morti dimenticati, soprattutto i
caduti in tutte le guerre e sotto qualunque bandiera.
Poiché, come scrive, "una
Casa non può andare bene materialmente, moralmente e religiosamente senza una
corporazione religiosa", decide di fondare una congregazione di suore:
"Chi mira a Dio, a lasciare per secoli una successione di bene, non può
far senza di religiose".
Nel 1869 "Consegna
della mantellina" alle prime postulanti delle Minime di Nostra Signora del
Suffragio. Tuttavia, le prime professioni solenni avverranno solo ventidue anni
dopo, nel 1891, tre anni dopo la morte del Fondatore. Il quale, pur tutto
mettendo in opera per affrettare i tempi, accetterà serenamente il ritardo (dovuto
anche alle diffidenze dell'arcivescovo di Torino per tutto ciò che sembrava
sottrarsi alla sua autorità diretta: e ne saprà qualcosa pure don Bosco con i
suoi salesiani). Ripeterà spesso, per calmare le impazienti, la parola della
Scrittura per la quale, nella Chiesa, "c'è chi semina e c'è chi miete".
Il nucleo iniziale di candidate, tuttavia, non si scoraggerà e sino alla fine
resterà fedele al Fondatore, a conferma della forza di un carisma singolare.
Le Otto Classi ciascuna
dedicata a un preciso e diverso bisogno del mondo femminile sono unite sotto il
nome comune di Conservatorio del Suffragio (ma il popolo, sino ai nostri
giorni, preferirà usare la dizione originaria di Opera di Santa Zita).
Per venire incontro alle
necessità dei parroci poveri, sulla via San Donato apre un Emporio
cattolico, magazzino di vendita ove e possibile procurarsi a prezzi modici
arredi per il culto, paramenti liturgici, pubblicazioni religiose.
Nel 1881 è nominato
professore, ma solo incaricato, di analisi matematica e di geometria analitica
all'Università di Torino. Malgrado ogni suo diritto; malgrado la fama europea
come scienziato; malgrado il suo zelo pedagogico e l'intervento di autorevoli
colleghi, scandalizzati per le umiliazioni cui è sottoposto (per ben sette volte
sia il rettore dell'ateneo torinese sia preside e insegnanti della Facoltà di
scienze chiesero inutilmente per lui la cattedra); malgrado tutto questo, la
casta settaria che dominava anche le università della Nuova Italia fu
irremovibile nel non concedergli la dignità di professore ordinario.
Nel 1874 acquista proprietà
e direzione di un periodico - "II Cuor di Maria" - cui dà grande
diffusione a livello nazionale. Quando ancora la sua congregazione non è
formata, già progetta di inviare in Africa un gruppo delle future religiose.
Dopo la sua morte, le sue suore andranno in America Latina, dove tuttora
lavorano.
Negli istituti di via San
Donato attrezza una moderna tipografia, gestita (novità anch'essa scandalosa)
da sole donne, direzione tecnica compresa. Vi stampa libri di devozione e di
catechesi che raggiungeranno alte tirature, diretti soprattutto al popolo. Egli
stesso curerà traduzioni di opere spirituali dal tedesco e dall'inglese.
Nel 1875 Decide di farsi
prete, anche per poter meglio dirigere la congregazione di suore in formazione
e in vista del compimento della chiesa per la quale occorre un rettore
sacerdote.
Nel 1877 realizza la Pia
casa di preservazione per le ragazze madri.
Nel 1878 inventa e brevetta
uno svegliarino elettrico, ponendo ancora una volta la scienza a
servizio della carità: è infatti apostolo dell'arte di "ben impiegare il
tempo", di far fruttificare a ogni momento i talenti in vista del giudizio
divino e della vita eterna.
Nel 1881, nelle Langhe a
Benevallo d'Alba, acquista un piccolo castello per farne una scuola comunale e
un educandato per l'istruzione professionale delle giovani di una zona tra le
più povere e isolate del Piemonte. Vi invia alcune sue suore, ma deve misurarsi
anche con la diffidenza dei contadini che non vogliono che le figlie, braccia
utili in campagna, sin da piccole perdano tempo a studiare. Nel castello tiene
anche esercizi spirituali e ritiri per signore.
II 27 marzo 1888 muore,
pare per una infezione all'intestino, due giorni prima del suo sessantatreesimo
compleanno. Il testimone Mario Cecchetto dichiarò: "Fu magnanimo anche
nella morte. Alle pezzenterie, alle faziosità dei reggitori della Pubblica
Istruzione rispose al suo solito, disponendo nel testamento la donazione alla
Facoltà di scienze di quell'Università di Torino, dalla quale era stato sempre
escluso a pieno titolo, della preziosa collezione di libri e periodici
scientifici nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private
d'Italia, raccolta in 38 anni di studio e di lavoro".
Alla direzione delle sue
opere, succede il canonico Agostino Berteu.
In ogni biografia normale,
quello sulla morte è, né può non esserlo, l'ultimo capitolo. Al massimo,
qualche pagina finale sarà dedicata al ricordo che lo scomparso ha lasciato,
all'influsso postumo, sociale e culturale, della sua opera o del suo pensiero.
Non così per la vita di un
santo, dove quello sulla morte non è mai l'ultimo ma sempre il penultimo
capitolo. Lo è perché la sua presenza tra i vivi continua al di là del
sepolcro: e non è solo spirituale, immateriale, ma concreta e tangibile,
occorrendo, per salire i gradini degli altari, prove (vagliate da apposite,
prudentissime commissioni che la sua intercessione in Cielo ha inciso sulla
vita dei fratelli che ancora penano sulla Terra. Le grazie ottenute, per mezzo
della sua intercessione, dal Signore della Vita - e che gli riconoscono i vivi,
riuniti ancora, in attesa di raggiungerlo, nella Chiesa militante - sono parte
del necessario capitolo che segue quello sulla sua morte
Ma se il santo (come nel
caso nostro) fu anche fondatore di una famiglia religiosa, ecco un'altra parte
del capitolo, e anch'essa concreta e viva, di quella vita che si è fatta
strumento docile e che, nel volgere delle generazioni, coinvolge creature
venute magari secoli dopo di lui e che pure, con Lui, hanno un rapporto intimo,
una comunione ancor più stretta di quella che unisce tra loro tutti i
battezzati.
C'è una misteriosa quanto
evidente fecondità che è solo cristiana, quella dei fondatori, che va oltre la
morte e che continua a dare, per secoli, quando non per millenni, figli e
figlie proprio a coloro che nella vita terrena spesso accettarono la chiamata
alla verginità.
Fecondità che sembra
anch'essa inverare la parola di Gesù: "Io sono venuto perché abbiano la
vita, e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10). (E va detto che anche in
questo - conforme, al solito, allo stile di discrezione che ben conosciamo - la
famiglia di cui Faà di Bruno fu padre spirituale non ebbe clamorosi sviluppi
quantitativi, restando sempre nell'ordine di qualche centinaio di religiose.
Ma, chi le conosce, sa quale sia la qualità dell'amore verso quell'uomo che,
morendo, augurò loro di "non ricevere mai grosse eredità",
intendendo, forse, neppure di novizie; assicurandole al contempo che
"la goccia della Provvidenza non sarebbe mai mancata"; il che
sembra essere avvenuto anche nelle vocazioni).
Dal Vangelo di Marco
leggiamo:
"Mentre usciva per
mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio
davanti a lui, gli domandò: Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita
eterna?. Gesù gli disse: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio
solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non
rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre.
Egli allora gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin
dalla giovinezza". Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una
cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un
tesoro in cielo; poi vieni e seguimi". Ma egli rattristatosi per quelle
parole, se ne andò afflitto poiché aveva molti beni".
Francesco Faà di Bruno fu
tra coloro che accettarono integralmente la scommessa, che ne accolsero con
coerenza la logica e le regole: sul tavolo gettarono tutta quanta la posta
disponibile, non tenendo nulla di riserva. Alla pari degli altri cristiani
coerenti, puntò tutta quanta la vita, giorno per giorno, ora per ora, minuto
per minuto.
"Santità" ha
detto qualcuno "è uno spirito indomabile in un corpo sempre da domare".
Sino a quale punto questo avvenisse anche in Faà di Bruno, noi non sapremo mai.
Ma qualcosa possiamo intuire da una confidenza sfuggitagli un giorno con un
intimo e che era ben lontano dal sospettare che decenni dopo sarebbe finita
negli atti del processo dove costituì motivo di qualche difficoltà. Mentre a
noi sembra aprire uno squarcio umanissimo sulla sua lotta diuturna, che fu
quella di tutti i colleghi in santità: "Ah, se dovessi ricominciare da
capo, non so cosa farei!".
Certo è che tutte le
testimonianze ci restituiscono il contrario di uno di quegli eunuchi morali e
magari anche fisici che (come vociava un Nietzsche e come sospetta da sempre -
oggi, più che mai - il mondo) trovano nella religione un compenso alla loro
debolezza, alla loro impotenza. Il cristianesimo come vendetta degli imbelli e
dei vinti. O - marxisticamente - come proiezione nei cieli dell'ingiustizia
patita in terra. Per quest'uomo, siamo all'opposto: il prestigio della nascita
in un casato tra i più nobili in una società monarchica, dove l'appartenenza
all'aristocrazia costituiva lo status privilegiato; la salute non solo, ma
anche la prestanza fisica (era dritto e alto a tal punto che, a quanto si
racconta, quando a Novara il cavallo gli cadde sotto fulminato da una palla,
restò in piedi sulle lunghe gambe...); una rendita cospicua, come confermano
anche le imponenti somme di denaro personale gettato nelle sue imprese
benefiche; doti di coraggio come due campagne di guerra in prima linea ben
testimoniano; doni di intelligenza tali da imporlo all'attenzione della
comunità scientifica internazionale.
Dietro tutto questo, poi,
un temperamento non certo languido, snervato, carente di ormoni, ma a proposito
del quale un teste così depose al processo: "Aveva un carattere forte,
imperioso, impulsivo" eppure, aggiunse lo stesso testimone, "appena
aveva fatto lo scatto lo si vedeva fermarsi, divenire pallido come un cencio e
generosamente chiedere scusa").
I famigliari e la nobiltà
piemontese era imbarazzata per quel tipo di impegno che lo fece definire più
volte "un originale", uno che "faceva stranezze", un
aristocratico che rischiava di compromettere il nome onorato non solo
preoccupandosi, ma addirittura abitando "tra quei serventun"
(servacce, in piemontese), per dirla con il poco velato disprezzo di un suo
parente stretto, pur buon cattolico ma perplesso davanti a quegli estremismi.
Come scrisse il Berteu, suo
primo biografo oltre che successore: "Quando il Cavaliere iniziò la sua
opera sotto il nome di santa Zita, una povera serva, alcuni dei suoi congiunti
se ne adontarono: egli lasciò che la tempesta passasse e continuo umile per la
sua strada. Talvolta ridendo diceva: "I miei congiunti vanno per Torino in
vettura propria con due cavalli e col cocchiere in livrea; io mi contento di
andare con la vettura di san Francesco, sempre a piedi"".
Onestà impone però di
rilevare che, malgrado stentasse a capirlo, la sua famiglia non lo ripudiò e
nemmeno lo abbandonò, assecondando anzi, non di rado, le sue richieste
pressanti di aiuto economico. Il suo rapporto con Alessandro - il fratello
maggiore ed erede dunque del titolo di marchese - durò cordiale e fecondo per
tutta la vita: appassionato agricoltore, aperto al progresso nella coltura dei
campi, Alessandro approfittò anche dei viaggi all'estero e delle conoscenze
scientifiche di Francesco per introdurre migliorie che spesso erano anteprime
per il Piemonte. Ma, pur nell'affetto e nella stima per quel fratello
eccentrico, l'erede della casata - ce ne è traccia nelle lettere - ha spesso
l'aria di sospirare manzonianamente:
"Che sant'uomo! ma
che tormento!".
E così, sorridendo, ci
piace immaginare il marchese Alessandro anche quando Francesco lo sollecitò a
venire a visitare l'Esposizione universale di Parigi, nel 1855, per ampliare le
sue conoscenze e dar consigli utili ai figli, raccomandandogli però di portare
poco denaro per comprare souvenir perché, scrive, "tutto ciò che è
inutile è roba rubata ai poveri".
Nella famiglia dei Faà di
Bruno non mancavano certo gli ecclesiastici: quel che ci si aspettava da
Francesco era che, dopo le dimissioni dall'esercito, dopo l'inizio delle sue
fondazioni religiose, con quelle convinzioni e con quel tipo di missione
scegliesse lo stato clericale. Dove, senza dubbio, avrebbe ricalcato le orme
dei suoi antenati, giunti sino alla consacrazione a vescovi; o anche di suo
fratello Giuseppe Maria, uomo di grande e sincera carità ma (come quasi
doveroso per un Faà) di autorità e di prestigio, divenuto in effetti Superiore
generale della congregazione dove aveva scelto di entrare.
E, invece, quella sua
scelta di restare laico, sino a oltre i cinquant'anni, lo teneva in uno stato
ibrido, sottraendogli prestigio in quanto secolare e non concedendogli la
possibilità di far "carriera" nello stato ecclesiastico.
Ma nelle sue scelte era
incrollabile: a questo si sentiva chiamato, questo avrebbe fatto. E questo
fece, sino all'ultimo, nella solitudine che sempre contrassegnò la sua vita:
senza famiglia propria; senza possibilità di riversare, almeno visibilmente, il
suo affetto sulle beneficate, colle quali doveva mantenere il più distaccato
dei contegni fino al limite della rigidezza; senza l'aiuto di collaboratori
stretti, che gli fossero alla pari quanto a carità e a impegno (escludendo, ma
già avanti negli anni e con austere prudenze, la signorina e poi suor Gonella);
senza neppure, negli anni di sacerdozio, il conforto di una comunità di
confratelli o anche di un prete solo, di un consacrato come lui.
"Devo fare tutto da
me, tutto grava sulle mie povere spalle", constata in certe lettere.
Aveva pensato di fondare una congregazione maschile di Sacerdoti del Suffragio,
da affiancare a quella femminile. Ne stese pure le regole. Ma gli mancò il
successo anche perché "nel clero torinese si era creata una fama, per
quanto ingiusta, di individuo poco socievole" (P. Palazzini).
In realtà, lasciò scritto
il can. G. B Pallanca che fu cappellano dell'Opera, che dovette poi lasciare
perché richiamato a Imperia dal suo vescovo: "Mi era stato detto che
non sarei durato quindici giorni all'istituto, alludendo al carattere del sig.
Abate. Il fatto dimostrò tutto il contrario: non mi scontentò in nessuna
domanda, anzi mi prevenne in ciò che non avrei osato chiedere. Si disse
taciturno a tavola coi sacerdoti: io lo trovai sempre pronto a dispute di
teologia, di filosofia, di storia, di scienze. Sfuggiva, però, i discorsi
inutili e, piuttosto che perdere tempo, leggeva giornali e libri. Non faceva né
ricreazione né pigliava divertimenti; levatosi da tavola, andava immantinente
al lavoro".
In realtà, è lo stesso don
Pallanca che conferma che quella fama di eccessiva austerità e di scarsa
socievolezza veniva dal fatto che "per evitare anche l'ombra del
peccato" (e le chiacchiere della gente) aveva adottato
"disposizioni assai rigide, innanzitutto verso se stesso".
Ma veniva anche dal fatto
che - per quest'uomo che, oltre alle chiese, conosceva sin da giovanissimo
caserme e aule scientifiche - la vita era davvero una cosa seria, da vivere con
serietà in ogni aspetto, perché occasione irripetibile di guadagno
dell'eternità.
Dopo la sua morte la
presenza maschile nell'Opera finì per essere sostituita interamente da quella
femminile: al canonico Agostino Berteu (morto nel 1913) succedette mons.
Giuseppe Gilli, cappellano del re e custode della S. Sindone, morto nel 1927,
"finché poi i superiori verranno sostituiti in tutto dalle Superiore
generali, succedutesi nel governo pieno della congregazione" (P.
Palazzini)
Avendo infatti concluso
tutto il lungo e complesso percorso delle successive approvazioni
ecclesiastiche, le Minime di Nostra Signora del Suffragio acquistavano piena
autonomia e, con essa, responsabilità diretta sull'eredità spirituale e
materiale del Fondatore.
L'opera iniziata da un
giovane scapolo era - ed è - interamente assunta da menti, cuori e mani
femminili: esito significativo per chi, sfidando la mentalità ottocentesca (e,
di certo, non solo clericale ma anche, forse soprattutto, liberale: fu essa a
creare in quei decenni la mistica dell'angelo deI focolare), aveva dato la vita
per la promozione vera della donna.
E ciò non con proclami
demagogici o con progetti utopici, ma nella concretezza dell'attività
quotidiana, assicurando a quelle ultime nella scala sociale un ricovero, un
ufficio di collocamento, un'associazione contro le incertezze della vita,
un'infermeria contro le malattie; ma anche scuole e corsi di alfabetizzazione e
di formazione professionale, perché anche così potessero avere un'esistenza più
degna e umana e meglio potessero tutelare i loro diritti.
Alla fine, quelle altre
donne che erano le sue suore e alle quali aveva dato tutto quel che poteva -
non riuscendo neppure, in vita, a vederle "sistemate" in modo
canonicamente stabile - relegarono gli uomini a pur indispensabili compiti di
assistenza spirituale e agirono (e tuttora agiscono) in prima persona, senza
dover rendere conto a superiori maschili delle loro scelte.
Torniamo alla fine (quella,
almeno, che tale è secondo il mondo) di quella vita. Torniamo al martedì della
Settimana Santa del 1888, a quel 27 marzo, alle nove del mattino, nelle stanze
di via San Donato 31, ricche solo di libri, di strumenti scientifici, di
immagini sacre.
Stanze dove, anche negli
inverni più crudi, non aveva mai voluto riscaldamento, con un ostinazione che
qualcuno, al processo, fu tentato di rimproverargli, come fosse un eccesso di
eroismo, una mancanza di discrezione, di prudenza. Dimenticando, però, che quel
tipo di ascesi era molto facilitato a chi, come lui, sin da giovanissimo era stato
allevato alle durezze - per noi quasi inconcepibili - della vita militare della
prima metà dell'Ottocento.
Tra le sue spesso ignorate
primizie c'è anche l'avere introdotto in Torino l'adorazione eucaristica
notturna.
Divenuto sacerdote,
rifiutava ogni elemosina per la messa quotidiana, volendo essere libero di
dedicarla alle sue intenzioni: l'Opera, i benefattori, le anime dei defunti, a
cominciare da quelle dei soldati caduti in guerra Negli atti dei
"processi" c'è persino l'eco di qualche malumore nella comunità per
la lunghezza di quelle sue messe. Al che replicava di "essere lesto in
tutto il resto" ma di voler essere "lento nella celebrazione
del Mistero eucaristico, per dargli l'onore dovuto"
Né la sua devozione
eucaristica era solo del sentimento visto che - lo vedemmo - a quella Presenza
misteriosa aveva dedicato un saggio, tentando di applicarvi, per meglio
capirlo, le categorie scientifiche.
Ma che avvenne, dunque,
dopo le nove di quel lontano mattino di marzo, dopo che - ricevuta l'estrema
unzione e gli altri sacramenti, mentre attorno al suo letto gli intimi,
inginocchiati, pregavano senza interruzione - dopo che ebbe esalato l'ultimo
respiro? Su quel dopo - di lui come, prima o poi, di ogni altro - le strade
radicalmente divergono: (è una via laica dove, ovviamente, del tutto si tace,
limitandosi semmai a riferire che cosa i vivi abbiano fatto attorno a quel
cadavere. E c'è una via devota, quella della agiografia tradizionale, che non
ha esitazioni: l'anima immortale venne subito accolta dal Cristo così come il
Vangelo promette: "Vieni, servo buono, sei stato fedele nel poco, io ti
darò autorità sul molto".
UN AIUTO CONCRETO
Quella di Giovanni Bosco
che a Valdocco raccoglieva quegli scarti della nuova società che erano i
ragazzi abbandonati era la stessa prospettiva, la stessa sfida del suo grande
amico, del fratello nella stessa fede che a San Donato raccoglieva quegli altri
scarti che erano le serve disoccupate, malate, incinte, invalide, invecchiate.
Anche a lui (come a tutti
gli altri santi "sociali") si può applicare quanto Piero Bairati,
storico contemporaneo dell'economia, scrive di don Bosco: "In una
società disgregata, si afferma come organizzatore. In un mondo di sbandati,
insegna il valore della disciplina e instilla nei giovani il senso di
appartenenza a un'istituzione. Ai miserabili e ai derelitti non predica una
vaporosa religione del cuore, ma un severo ordine interiore e il culto del
lavoro, della precisione, delle cose ben fatte".
In effetti, questi
cattolici che affrontano di petto i drammi sociali scatenati dall'irrompere
della modernità, nella diagnosi concordavano con i nascenti movimenti dei
lavoratori (che verranno però dopo, molto dopo di loro: si pensi che la
fondazione del Partito socialista italiano non è che del 1892, a quattro anni
cioè dalla morte di don Bosco e dell'abate Faà di Bruno!).
È però nella terapia che
divergevano.
Terapia che è poi tutta
condensata in una convinzione che il Faà non si stancava di ripetere: i guai
sociali derivavano dall'abbandono della pratica coerente di un cristianesimo
solidale, autentico. E, dunque, battersi per la restaurazione religiosa non era
solo uno strappare anime all'inferno, ma anche contribuire efficacemente a
creare una società migliore, più giusta e più umana. Per dirla con le sue
stesse parole: "Salvare il mondo con una religione vissuta
profondamente".
Sapeva che la fede
autentica produce anche buoni cittadini: quegli "italiani seri" di
cui la caotica, improvvisata nuova nazione aveva disperato bisogno. Lui, del resto
- lui, il nobile, il privilegiato, il ricco, il colto - era il primo a
dimostrarlo.
Né si creda che quella sua
opera fosse marginale, insignificante: già nel 1879, a vent'anni dai primi
inizi dell'Opera, tra le sue mura erano passate oltre 10.000 donne. Un numero
quasi pari, cioè, a tutte le domestiche di Torino. Quel passaggio produceva
inoltre frutti duraturi, in quanto la maggioranza delle ricoverate temporanee
aderiva poi a una associazione con scopi religiosi e di mutuo soccorso. E,
ciascuna di esse, poteva essere un fermento di cristianesimo all'interno di
quasi la totalità delle famiglie torinesi abbienti a sufficienza da permettersi
una domestica: a questo, del resto, il Beato mirava; e questo spiega anche
l'ostilità di cui era circondato dalla casta liberale. I numeri andarono
moltiplicandosi negli altri nove anni della sua vita e aumentarono in modo
impressionante dopo la sua morte, per giungere sino a noi, dove attorno agli
istituti di via San Donato e alle sue suore si coagulano ora le nuove povertà
delle domestiche africane, asiatiche, sudamericane.
È solo un esempio, questo,
della terapia messa in atto dal Beato (come dagli altri cattolici del tempo)
per rispondere con fatti concreti a una situazione sulla cui diagnosi era
implacabile; alla pari, anzi con ancora maggiore severità, dei nascenti
socialismi e sindacalismi laici. Questi, in effetti, ai ricchi, ai privilegiati
minacciavano tasse, riforme, espropri, magari la rivoluzione stessa.
Cose gravi, ma di certo
infinitamente meno di quanto, Scrittura alla mano, minacciavano quei credenti:
niente di meno che la sventura e la sofferenza eterne, l'ira implacabile di Dio
stesso. In una parola sola e terribile: l'inferno.
Altro non praticavano, in
questo modo, che la fedeltà a tutto il Vangelo, nella lettera come nello
spirito. E di Gesù stesso il "guai a voi ricchi, perché avete già la
vostra consolazione! guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame!"
(Lc 6,24 s).
Ed è nello stesso terzo
evangelo l'inquietante parabola che cosi comincia: "C'era un uomo ricco
che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un
mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta coperto di piaghe, bramoso
di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco...". E ben si
ricorda il terribile seguito, con il ricco che, stando nell'inferno, tra i
tormenti, chiede almeno un po' di refrigerio, avendone come risposta:
"Ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro
parimenti i suoi mali; ora, invece, lui è consolato e tu sei in mezzo ai
tormenti..." (Lc 16).
In quella prospettiva da
credenti radicali nella quale, per rendere loro giustizia, vanno sempre
giudicati, non c'era per loro minaccia socialista, marxista, anarchica che si
avvicinasse alla terribilità di quelle altre parole che gli evangeli
attribuiscono ancora al Cristo:
Poi (il Figlio dell'uomo)
dirà a quelli posti alla sua sinistra:
"Via, lontano da
me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli.
Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi
avete dato da bere, ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete
vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato [...]. E se ne andranno,
questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna"(Mt 25,4-44 e
46)
Da queste parole del Cristo
- e da tante sue altre, esplicite e inesorabili - già i primi credenti trassero
subito le conseguenze. Dalla lettera che il Nuovo Testamento attribuisce
all'apostolo Giacomo:
E ora a voi, ricchi:
piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono
imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e
il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a
testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete
accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai
lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida: e le proteste dei mietitori
sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla
terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della
strage (Gc 5,1-5).
Espressioni, come si vede,
assai poco carine per i ricchi destinatari; e sulla base delle quali, la
Chiesa, tra i peccati più gravi - quelli "che gridano vendetta al cospetto
di Dio" - pose proprio il "defraudare i lavoratori della giusta
mercede". Coerenti - senza sconti né mediazioni - con le parole della
Scrittura giudeo-cristiana e della millenaria Tradizione cattolica che ad essa
si era uniformata, questi credenti del secolo del liberalismo capitalista e del
socialismo rivoluzionario non si limitarono, nella loro predicazione, a delle
vaghe esortazioni, a degli innocui auspici o alla richiesta di qualche
spicciolo che illudesse i ricchi di salvare la propria coscienza (e la propria
anima) e al contempo tenesse buoni i poveri.
Faà di Bruno, di solito
così controllato, allergico a ogni atteggiamento demagogico, a ogni parola
urlata, alza invece la voce contro i padroni che, per sete di guadagno,
rendevano schiavi i dipendenti negando loro persino il riposo festivo: "Anche
tra noi sono i barbari che costringono il povero operaio a rovinarsi la sanità
per lavorare la domenica". E, altrove, parla di "quegli uomini
che rendono schiavi altri uomini incatenandoli e degradandoli sotto il giogo
del continuo lavoro".
Nutrito di cultura
francese, leggeva e citava spesso, nelle sue omelie da sacerdote, ma anche nei
discorsi e nelle lettere da laico, Bossuet, il predicatore della corte
secentesca di Versailles che, davanti ai grandi del regno, non temeva di dire:
"I pregiudizi del secolo impediscono ai ricchi di comprendere che
pesante fardello sia l'abbondanza. Ma, allorché arriveranno là dove sarà di
nocumento essere troppo ricchi, allorché compariranno davanti a quel tribunale
dove bisognerà rendere conto non solo dei talenti impiegati ma anche dei
talenti sotterrati e rispondere a quel giudice inesorabile non solo dello speso
ma anche del risparmiato e messo da parte, allora, Signori, conosceranno che le
ricchezze sono un gran peso e si pentiranno indarno di non essersene scaricati".
E, ancora: "O grandi, o ricchi del mondo, quanto la vostra condizione
mi fa paura!".
Sentiamo, al proposito, un
brano del discorso pubblico che l'ormai vecchio don Bosco tenne il Sabato Santo
del 1882 a Lucca dove si era recato - al solito - a sollecitare aiuti per i
suoi giovani:
Uno avrà mille franchi di
rendita e di ottocento può onestamente vivere; orbene, i duecento che avanzano
cadono sotto le parole di Gesù: "Ciò che è di più, datelo in elemosina!".
"Ma una necessità
impreveduta, una fallanza nel raccolto, una disgrazia nel commercio…".
Ma sarete ancora in vita
allora? E poi Iddio: che al presente vi aiuta, non vi aiuterà specialmente se
avrete dato per amor suo? Io dico che chi non dà il superfluo ruba al Signore e
con san Paolo dico: regnum Dei non possidebit.
"Ma la mia casa è
povera; ho bisogno di rinnovare certe suppellettili già troppo vecchie e non
più secondo il gusto che corre." Se permettete, entro con voi nella vostra
casa. Veggo là suppellettili molto ricercate, qui una tavola fornita di ricchi
servizi, altrove un tappeto ancor buono. Non si potrebbe lasciar di cambiare
questi oggetti e, invece di ornare i muri e la terra, coprire tanti poveri
giovinetti che soffrono e che pure sono membra di Gesù Cristo e tempio di Dio?
Veggo là risplendere argento e oro e ornamenti tempestati di brillanti.
"Ma sono una
memoria..." Aspettate voi che vengano i ladri a rubarveli? Voi non li
usate, né vi sono necessari. Prendete questi oggetti, vendeteli e datene il
prezzo ai poveri: voi li date a Gesù Cristo e acquistate una corona in cielo.
In questo modo non isquilibrate punto le vostre sostanze, né vi levate il
necessario.
"E quella cassetta
così ben chiusa?" "E niente!" "E niente? Lasciate
vedere!"
"Ecco: è qualche
migliaio di napoleoni d'oro: li conservo perché può venire una malattia; e poi
c'è un vicino che mi disturba; vorrei comprare quella possessione, e così
farebbe miglior vista la mia tenuta." Ma questo è superfluo, io dico; voi
siete obbligato a prendere quel denaro che non giova a nessuno e a farne ciò
che comanda Gesù Cristo. Volete conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate,
il demonio verrà e di quel denaro farà una chiave per aprirvi l'inferno.
Se volete sfuggire a
tanta sventura, imitate l'esempio dei Santi e soccorrete i poveri. Dando ai
bisognosi le vostre sostanze, voi le mettete come in mano agli Angeli, i quali
ne faranno una chiave per aprirvi il cielo nel giorno della vostra morte.
Si andava davvero sul pesante,
dunque. Alla pari, anzi assai più, della predicazione sociale dei riformisti
laici o dei rivoluzionari atei del tempo i quali (lo ricordiamo ancora)
minacciavano ai ricchi sventure ma, necessariamente, limitate nel tempo, in
vita. Qui, invece, le sventure sono predette nella eternità, senza limite né
fine.
Ma l'aspetto che distingue
un Bossuet, un don Bosco o un Faà di Bruno da un Marx, da un Engels, da un
Bakunin, da tutti gli altri "apostoli della giustizia" da ottenere
con mezzi politici; la chiave per capire quanto la passione per i poveri sia la
medesima ma differente la terapia, diversa la prospettiva è in quel: "Volete
conservarlo? Conservatelo pure, ma ascoltate. Il demonio verrà...".
Si raccomandava, dunque,
sulla scorta di Paolo che scriveva a Timoteo: "Ai ricchi in questo modo
raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza nell'incertezza
delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo
godere; raccomanda di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere
pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale
per il futuro, per acquistare la vita vera" (1Tim 6,17).
Questi credenti del secolo
del socialismo miravano cioè anch'essi (e con quale vigore) a una migliore giustizia,
a una società più umana ma, nel loro realismo cristiano, non credevano che ciò
fosse raggiungibile per via coercitiva, per via rivoluzionaria. Volevano
l'esproprio di ciò che, superando il lecito, non apparteneva più ai ricchi ma
toccava ai poveri: volevano però che nascesse da un'esigenza libera, dalle
ragioni della coscienza, dal profondo del cuore. Se proprio non da altro,
almeno dal timore di presentarsi carichi di fardelli inutili davanti al Giusto
Giudice per eccellenza, quello le cui sentenze sono immodificabili e
inappellabili.
Intuivano che la
rivoluzione predicata dagli agitatori politici non avrebbe risolto i problemi,
anzi ne avrebbe creati altri, anche peggiori: come tutto ciò che nasce dalla
forza. 183
E come, in effetti, presto
si vide. E come, soprattutto, noi oggi vediamo, con il disastro e il crollo dei
regimi costruiti in nome del socialismo scientifico e, in generale, con quelle
rivoluzioni cui questi credenti si opponevano non certo per insensibilità, non
per miopia, non per interessi di conservazione sociale ma, al contrario,
proprio per preservare il popolo da illusioni che si sarebbero rivelate
rovinose.
Seguaci di quel Gesù che
"sapeva quel che c'è nel cuore dell'uomo", membri di una Chiesa
millenaria "esperta in umanità", prevedevano che ogni rivoluzione
solo esterna come quella politica sarebbe stata illusoria; anzi, alla lunga,
malgrado le buone intenzioni, si sarebbe rivelata rovinosa, creando una nuova
classe di ancor più scandalosi privilegiati e impoverendo ancor più i già
poveri. Perché solo la rivoluzione interna (il cambiare la coscienza, l'aprire
il cuore alla pietà, alla misericordia, alla solidarietà) può, sia subito che
alla lunga, significare per tutti frutti benefici. E guardando alla Rivelazione
di Dio prima che agli schemi degli uomini che l'uomo può scoprirsi fratello di
ogni altro uomo. E ciò che don Bosco e Faà di Bruno intendevano, ripetendo
sempre di "non voler fare altro che la politica del Padre Nostro"
La tradizione cristiana,
quella cattolica in particolare, conosce da sempre dei tentativi per anticipare
già qui il mondo e l'uomo nuovi promessici: ma si tratta di quei piccoli pezzi
di umanità che sono gli ordini e le congregazioni religiose. Dove (almeno nelle
intenzioni-) si tende a un regime davvero fraterno, in cui tutto sia in comune,
in cui l'egoismo sia il più possibile vinto. E' un affrettare i tempi, un
proporre un modello di ciò che é già e, insieme, non e ancora.
Ma, non a caso, per
accedere a questi spazi escatologici, la Chiesa parla di una misteriosa e
gratuita chiamata, di una vocazione di Dio assolutamente necessaria. E non a
caso si premunisce con regole e norme precise, con austerità e ascesi
programmate, ben sapendo come anche in queste comunità di chiamati l' homo
naturalis tenda sempre a rispuntare, con quella che il linguaggio religioso
chiama la concupiscentia.
Invece, le ideologie che
perseguono l'utopia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo, del paradiso già in
terra, non vogliono proporre ma imporre l'ideale: volendo trasformare il mondo
intero in un monastero, in un convento, finiscono per ridurlo a carcere e campo
di concentramento, dove la virtù alla fine è imposta dalla polizia e dal
terrore di uno Stato oppressivo.
Rifuggendo questi santi, da
veri seguaci del Vangelo, da ogni odio, anche di classe, e da ogni guerra,
anche civile, proponevano per la società e i suoi problemi la via della
solidarietà, della compassione (nel senso etimologico: patire insieme), della
collaborazione. In una parola, dell'amore.
Ma, questo, senza alcuna
ingenuità, anzi con sano e sodo realismo. Profondamente convinti del valore
della redenzione operata dal Cristo con la sua passione, morte e risurrezione,
erano però altrettanto convinti, sempre sulla scorta di quella loro fede
integrale, che, se il peccato d'origine era stato riparato, le sue scorie, le
sue conseguenze negative resteranno sino al secondo, definitivo ritorno del
Cristo per instaurare - e soltanto allora - le "terre nuove " e i
"cieli nuovi".
Sapevano, come dirà un
convertito alla fede cristiana, il premio Nobel per la letteratura Thomas
Eliot, che e illudersi, e rovinosamente, il pensare di poter creare, per via di
riforme politiche e sociali, "un mondo così perfetto, una società dalle
leggi così giuste che ci dispensi dalla necessità di essere buoni".
Erano scambiati spesso per
ritardatari, per difensori di una prospettiva illusoria e ormai anacronistica:
ed erano invece, anche in questo, i veri profeti. Come noi, a più di cent'anni
di distanza, possiamo ben constatare. Noi che abbiamo visto (e non lo
ricorderemo mai abbastanza) come il bel sogno di creare il paradiso in terra
non con la rivoluzione innanzitutto dei cuori, ma con quella della forza, si
rovesci sempre, immancabilmente, nell'incubo concreto dell'inferno in terra.
Noi che, dopo tante amare esperienze (le cui conseguenze peggiori hanno patito
soprattutto quegli ultimi che si credeva di aiutare), dovremmo ormai sapere che
- per dirla con Giovanni XXIII - "mai ci saranno pace e giustizia fuori,
nella società, se non ci saranno prima dentro, nell'intimo di ogni uomo".
Si spingevano, quei
credenti, a minacciare ai privilegiati la punizione eterna per cercare di
diminuire al massimo l'ingiustizia; per alleviare al massimo le sofferenze; per
sconfiggere al massimo l'individualismo. Al contempo, però, sapevano che lo
spessore del peccato, dell'egoismo, dell'indifferenza mai sarà del tutto
eliminato; che, malgrado ogni sforzo, la perfezione non e di questo mondo, già
salvato dalla redenzione del Cristo e insieme ancora afflitto dalle conseguenze
del peccato.
Diffidavano poi - anche qui
da veri cristiani, in opposizione alle nuove ideologie - dei discorsi teorici,
dei mirabili programmi per il futuro, dei pronunciamenti generali. Ora sappiamo
(ma allora non era così evidente, al contrario) che facile è fare magnifici
progetti per l'umanità, difficile è chinarsi sulle miserie dell' uomo che sta
accanto a noi.
E, dunque, preferivano -
più che scrivere trattati di utopie sociali o infiammare le piazze con
rivendicazioni e promesse - rimboccarsi le maniche subito e agire concretamente
a favore dei bisogni concreti. Le scale dei miserabili, le salivano portando
pacchi di cibi e di vestiti che servissero per l'immediato e non opuscoli di
propaganda politica che promettessero il benessere per un indefinito futuro; al
clamore del comizio sostituivano l'aiuto, magari silenzioso, discretissimo,
come nel caso del nostro Beato.
Ricordiamo tutti (ma non
tutti, nemmeno tra cristiani, ne traiamo le giuste conseguenze) la parabola del
decimo capitolo di Luca, raccontata da Gesù per rispondere alla domanda di un
dottore della Legge che, sentendolo esortare ad "amare il nostro prossimo
come noi stessi", chiese, forse capziosamente: "E chi è il mio
prossimo?".
Gesù rispose: "Un
uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo
spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto...".
Si sa che solo un samaritano, "passandogli accanto, lo vide e ne ebbe
compassione". Ma in che modo?
Stando a tutti i
rivoluzionari e ai riformisti, e poi, in seguito, stando ai cattolici che
"vogliono andare a monte", che denunciano anch'essi, sdegnati, la
"carità alienante", i "santi della beneficenza"),
quell'"avere compassione", per essere autentico, efficace, deve
necessariamente passare per le vie della politica.
Pertanto, il samaritano
avrebbe dovuto battersi per:
Diverso il comportamento
del samaritano vero, quello di Gesù. "Ebbe compassione", è detto: per
manifestarla in concreto, "gli si fece vicino, gli fasciò le ferite,
versandovi olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una
locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li
diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te
lo rifonderò al mio ritorno".
Comportamento
scandalosamente "poco sociale", "non risolutivo", al limite
"alienante" e "diseducativo"; e che invece Gesù,
inopinatamente, considera quello giusto e propone ad esempio: "Va', e
anche tu fa' lo stesso".
Proprio per obbedire a
questo antico e sempre attuale comando (e per restare in quella Torino di
diciotto secoli dopo che quella parabola era stata raccontata), un Cottolengo,
un Cafasso, un Bosco, un Murialdo, un Faà di Bruno passarono all'azione
immediata prima di elaborare progetti che, in futuro, risolvessero
definitivamente i problemi degli handicappati, dei carcerati, dei giovani
abbandonati, degli apprendisti sfruttati, delle serve schiavizzate.
Alzarono la voce, certo;
denunciarono lo scandalo dell'indifferenza; minacciarono addirittura l'inferno.
Ma, più che scrivere manifesti, distribuire volantini, creare una nomenklatura
di funzionari di partito e di sindacato, ai bisogni di quelle vite risposero
con la loro vita stessa.
Puntarono sì il dito sugli
altri, ma solo perché prima l'avevano puntato su se medesimi. Per avere il diritto
di far pagare altri, pagarono di persona essi stessi.
Gli ideologi discorrevano
di umanità, di classi; questi non si occupavano di astrazioni, di teorie, ma di
persone: quei sofferenti concreti e reali in cui il Cristo stesso, accanto a
loro, era ancora e sempre in agonia.
Faà di Bruno non fece
troppi discorsi sul proletariato (il quale, in ogni caso, lo vedemmo, per il
suo bisogno di giustizia sociale a 360 gradi, comprendeva anche "il
proletariato dell'Aldilà"), preferendo battersi per far funzionare subito
delle mense popolari; non rimandò le serve lacere e sporche ("tanto che
niun padrone le vuole", scriverà) che bussavano alla sua porta al giorno
in cui la rivoluzione avrebbe trionfato, ma creò asili e scuole e laboratori
per loro; non auspicò una giustizia futura, ma le mise in grado di ottenere
subito la maggior giustizia possibile; non elaborò un progetto generale di
riforma sanitaria, ma si diede da fare per costruire e far costruire bagni
pubblici; non scrisse trattati sulle misure pubbliche contro l'inquinamento, ma
insegnò alle serve ad ammazzare le mosche; non aspettò una legislazione sulla
tutela della salute dei lavoratori, ma costruì ambienti senza pericolo per chi
vi faticava; non aizzò allo sterminio dei privilegiati ma cercò, concretamente,
di convincere costoro a rispettare i loro doveri di cristiani e, se tali non
erano, almeno di uomini.
I politici, i teorici, gli
agitatori sociali di allora e di sempre rimandavano e rimandano a un futuro
radioso, al "domani che canta" Questi cristiani, esaminato il loro
presente, si mettevano al lavoro per renderlo subito e il più possibile meno
disumano.
Esemplare, al proposito, la
vicenda dell'orologio sulla torre. Di quel suo campanile, Faà di Bruno volle
fare un segno religioso e al contempo (lo vedemmo) un segno dell'armonia tra
scienza e fede, mostrata in concreto sia nell'arditezza del calcolo sia
nell'osservatorio astronomico e meteorologico alla sommità.
Dunque, la sfida del laico
cattolico e poi sacerdote professor Faà di Brune è il mostrare, con la pietra e
il metallo organizzati dal calcolo matematico, che la fede non teme che il
"Satana" della modernità "spenni" l'arcangelo; ma che
proprio anche con quel presunto "Satana del progresso" si può glorificare
il Dio che Michele adora e serve.
Giovanni Paolo Il stesso,
in visita a Torino, volle consacrare al nuovo beato la cappella dell'Arsenale
dove ha sede l'Accademia militare, indicando nell'antico capitano un protettore
degli ufficiali. Ma, in questi anni, molti scienziati si sono rivolti alla
Santa Sede perché questo loro collega sia dichiarato ufficialmente
"patrono dei matematici": categoria, quest'ultima, priva sinora di un
degno rappresentante in Cielo.
Sulla base non di auspici
teorici, ma di un'esperienza cominciata sin dalla prima giovinezza, Faà di
Bruno non solo non ammetteva contrasto tra progresso tecnico e religione
vissuta nel modo più tradizionale, tra scienza più avanzata e fede più
ortodossa, ma giudicava queste realtà necessariamente legale tra di loro.
Nel 1928, interrogata dai
giudici del primo processo canonico, un'anziana suora, che era stata sua
allieva, così tra l'altro testimoniava: "Mi ricordo come fosse solito
dire che un vero scienziato non può non credere in Dio e nel cattolicesimo. E
perché, pel desiderio di schiarire le mie idee, io insistevo che allora non si
sarebbe potuto spiegare come certi uomini di scienza non avessero fede, il
Servo di Dio mi diceva: "O non sono veri scienziati o non hanno studiato
la religione cattolica"".
Insegnava che l'armonia
scoperta dallo scienziato nel mondo fisico è "un'ombra delle perfezioni di
Dio"; e che "il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non
riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose regolarità matematiche su
cui si regge l'universo una provvida e onnipotente Sapienza". Si diceva
convinto, per pratica personale, che "l'alta matematica conduce alla
logica e questa alla filosofia e questa a sua volta alla teologia". Diceva
ancora che, non la scienza è la regina del sapere, ma la teologia, di cui la
scienza è I' ancella: perché le parziali verità che lo scienziato scopre non
sono che frammenti dell'unica Verità che tutte le contiene.
Ma, al di là dei pur
importanti simboli, a quel campanile della sua chiesa in borgo S. Donato volle
anche dargli una funzione sociale.
Tra i molti drammi - grandi
e piccoli, in ogni caso sino ad allora inediti - causati dalla società moderna,
c'era l'aver come ingabbiato il tempo in orari precisi (sconosciuti alla
cultura agricola, cui bastava il "pressappoco" del sole) senza però
permettere alla massa di accedere agli strumenti di misura di quel tempo
fattosi padrone esigente. Un orologio era allora un lusso per privilegiati.
In attesa di una società in
cui tutti potessero permettersi di acquistarlo, Faà di Bruno pensò a risolvere
subito il problema. Con il consueto rigore di scienziato, calcolò che un
orologio le cui lancette avessero la lunghezza di due metri, collocato a
cinquanta metri di altezza e munito di un quadrante per ciascuno dei quattro
punti cardinali, poteva indicare l'ora esatta a ben ottantamila persone.
Calcolò poi che la spesa superava le seimila lire e si rivolse dunque al
Municipio con una richiesta di sussidio, firmata anche dagli abitanti del
Borgo, per questa che era certamente un'opera a favore della città.
Forse per la prima e unica
volta il Comune rispose alle sue richieste di aiuto, deliberando però soltanto
un contributo di duemila lire. Al solito, tutto il resto fu pagato dal Faà che,
tra l'altro, ottenne la delibera comunale nel 1878 ma incasso le duemila lire
alla fine del 1882, più di quattro anni dopo, subendo visite di controllo e
inquisizioni varie.
Ora, forse, nessuno si
affaccia più alle finestre per vedere che ora sia al campanile di Santa Zita:
ma, per decenni, centinaia di migliaia di torinesi senza altro orologio lo
fecero.
Secondo lo stile di questi
cristiani, i poveri ebbero una risposta pronta e concreta al loro bisogno, non
promesse di una società in cui tutti avrebbero avuto diritto a un cronometro al
polso.
Ma sia chiaro che questo
pragmatismo nel beneficare non impediva loro (e, soprattutto, non impedirà ai
cattolici che verranno dopo di loro) di pensare anche alle riforme sociali,
oltre a quelle morali. Come testimonierà soprattutto la coraggiosa enciclica
papale, la Rerurn novarum, che è del 1891 (tre anni dopo la morte del Faà e del
Bosco, un anno prima della fondazione del Partito socialista), ma la cui
gestazione è assai precedente, risalendo agli inizi stessi della questione
sociale. Quell'enciclica di Leone XIII condannava al contempo, come si sa
l'egoismo liberale e l'utopismo comunista, perfezionando, precisando e
riproponendo quella terza via, quella via cristiana che credenti come questi
torinesi avevano già praticato, mostrandone l'efficacia e il valore con
l'esperienza concreta.
Durissimo col liberalismo
borghese trionfante, ai cui guasti si sforzò fino all'ultimo di rimediare, Faà
di Bruno scuoteva scettico il capo davanti alle teorie comuniste (che negano
Dio), sbrigandosela con poche parole da realista piemontese e da cattolico che
ben conosceva la complessità del cuore umano. Dicono, quelle parole che ci sono
state conservate: "Il comunismo è una falsa teoria, condannata dalla
Chiesa, ma condannata prima dal buon senso". E che così fosse, sta ora
a dimostrarlo la storia disastrosa dei tentativi di tradurre in pratica
quell'utopia che, essendo appunto "condannata dal buon senso", esige
la forza, il sangue, li polizia per essere instaurata e mantenuta con fatiche e
sacrifici inenarrabili, per non riceverne che ulteriori ingiustizie, miserie,
sofferenze. E, alla fine, rivolta violenta dei presunti beneficati.
È la storia, è una tragica
storia che ci ha mostrato che "quelli che vogliono rendere gli uomini
felici, non esitano a massacrarli per questo". E che "fra tutte le idee,
quella di rendere perfetta l'umanità è di tutte la più pericolosa"
Queste due citazioni sono
di Karl Popper, il filosofo che molti considerano il maggiore del nostro
secolo, un agnostico, un non-cristiano, di certo un non-credente. Il quale,
però, ha scritto parole che questi nostri santi "sociali" avrebbero
sottoscritto volentieri.
Sentiamo, dunque, Popper
che così scrive: "Agisci per l'eliminazione dei mali concreti,
piuttosto che per realizzare dei beni astratti. Non mirare a realizzare la
felicità con mezzi politici. Tendi piuttosto a eliminare la miseria alla tua
diretta portata. Non cercare di realizzare questi obiettivi concependo e
cercando di attuare un ideale remoto di società perfetta. Non permettere che i
sogni di questo mondo perfetto ti distolgano dai bisogni degli uomini che
vivono qui e ora. I nostri simili di adesso hanno diritto a essere aiutati
adesso: nessuna generazione presente deve essere sacrificata per il bene di
quella futura, in vista di un'utopia di felicità".
Era composto di gente
socialmente impegnata, di paladini dei lavoratori, di intellettuali militanti o
almeno di fiancheggiatori del movimento operaio, lo staff che nel 1983 fu
incaricato di una ricerca. La quale (come diceva il titolo, consisteva in una
"indagine sul Borgo San Donato dal 1850 al 1900" ed era commissionata
da quel comitato di quartiere a maggioranza comunista, con l'appoggio
socialista: alla pari, del resto, e da otto anni, dell'amministrazione
municipale di Torino.
Da quella ricerca lunga e
ambiziosa, con pretese di completezza (vi risultarono impegnati un
coordinatore, due responsabili scientifici, tre ricercatori, sei collaboratori
e infine due responsabili del Consiglio di circoscrizione) vennero una mostra e
un volume fitto di documenti anche rari e con grande scialo di noie erudite. Il
tutto, ovviamente, pagato con il denaro pubblico.
Stando a quanto ricostruito
da quegli "esperti", quasi non è esistita, nel Borgo, l'instancabile,
enorme attività svolta in quei decenni e tra quelle vie dai grandi cattolici
sociali: e non solo il Faà, ma altre figure straordinarie come il teologo
Gaspare Saccarelli che nel suo Istituto della Sacra Famiglia giunse a mantenere
250 fanciulle orfane e 300 figli di operai; o come don Pietro Merla, morto nel
1855 per le percosse e le sassate ricevute da un gruppo di giovinastri cui
aveva sottratto delle giovani prostitute, accogliendole nel suo Istituto di San
Pietro. Credenti che non a caso fissarono la loro attenzione fraterna su questa
zona cittadina, dove oltre la metà della popolazione risultava nullatenente e
bisognosa di assistenza; e dove (come il tragico episodio di cui fu vittima don
Merla conferma) la malavita imponeva la sua legge di violenza.
A quei credenti che diedero
tutta la loro vita per i derelitti della zona, gli "storici" del
comitato "rosso" di quartiere non dedicano che pochi, spesso
sprezzanti cenni, quasi sempre per far sospettare qualche loro speculazione
sulle aree, qualche inghippo per ottenere lucrose varianti urbanistiche (come se,
tra l'altro, il Comune non fosse in quei decenni saldamente in mano a una
consorteria faziosamente anticlericale che, lo abbiamo visto, a tutto era
disponibile tranne che a favorire dei cattolici, dei preti).
Quanto a Francesco Faà di
Bruno, il breve cenno che lo riguarda, lo dice, testualmente, iniziatore di
"un'Opera che e una vera e propria fabbrica di serva". E, in una
nota, si spiega che "questa istituzione", dietro il pretesto della
"caritatevole assistenza", a questo, in realtà, mirava:
"assicurarsi mano d'opera ben addestrata e a buon mercato". Dunque,
il nostro Beato come uno speculatore sulla miseria, quasi un mercante di carne
umana, un astuto organizzatore di traffici lucrosi a danno delle
"serve" da lui "fabbricate": e, il tutto, in combutta con
la classe borghese, quella stessa classe che però, curiosamente, lo minacciava
di confisca, lo sbeffeggiava sui giornali, gli sabotava la carriera
scientifica. E che egli ricambiava con l'epiteto di "barbara!"…).
Non occorrono di certo
commenti. Al lettore di queste pagine, se è giunto a leggerle sin qui, lasciamo
il giudizio su simili "storici" e sullo schematismo triviale di
un'ideologia la quale, del resto, ricalca le orme di un'altra ideologia, quella
della borghesia liberale: quando, nei primi mesi del 1888, morirono don Bosco e
Faà di Bruno, il maggior quotidiano di Torino, La "Gazzetta del
popolo", ignorò la notizia, malgrado il coinvolgimento popolare. Il
periodico "Il Ficcanaso", diretto da un garibaldino, parlò della
"morte di un briccone esperto nell'arte di pelare i bipedi", un
"capo di gaglioffi": questo, per quei "democratici", era S.
Giovanni Bosco.