Vita dei santi

S. Gaetano Thiene

Tratto dal libro: “San Gaetano Thiene”  di Michele Gianpietro

Felice età

delle grandi promesse

 

Il   futuro gigante della fede nasce, nell’ottobre 1480, a Vicenza, città ove fiorivano i traffici lanieri e setaioli e che era soddisfatta di appartenere al dominio di Venezia.

I   genitori di Gaetano erano il conte Gasparo Thie­ne e Maria Porto (o da Porto), appartenenti alle mag­giori famiglie della città.

Il   fanciullo, secondogenito, fu chiamato Gaetano, in onore di uno zio, uomo molto dotto, che a sua vol­ta era stato chiamato così per essere nato a Gaeta.

Tutto spirava solidità e floridezza nella famiglia Thiene, allorquando il conte Gasparo morì in una del­le tante guerre, che insanguinavano la penisola. Così tre bambini rimasero orfani; ma, per loro buona ven­tura, la madre, donna ammirevole, seppe degnamente sostituire il marito. Infatti il giudice competente, ri­conoscendo in Maria da Porto « integrità, pietà, reli­gione, carità, prudenza, vigilanza e zelo », le concesse la tutela dei tre figli, che ben presto si ridussero a due, il terzo essendo morto bambino.

Le notizie sul fanciullo e sul giovinetto Gaetano sono estremamente scarse: studiava con i precettori in casa, secondo l’uso delle famiglie nobili ed era assiduo alla bella chiesa di Santa Corona, duecentesca, tuttora esistente. La pietà del fanciullo prima e del giovinetto dopo era esemplare, così come fuori dal comune era la generosità verso i poveri. Per sé, non osava chiedere la più piccola cosa; ma per i bisognosi, dopo aver dato tutto ciò che era suo, sollecitava parenti e amici a es­sere larghi di donativi di ogni specie. Il comportamen­to di Gaetano in casa e fuori era tale da non prestarsi al minimo rimprovero. Solo il suo slancio di carità fu giudicato eccessivo, per cui fu ammonito a mitigano.

E’ storica la risposta data a certi parenti che gli rimproveravano l’estrema modestia nel vestire e nei rapporti con l’umile gente: « vero che noi siamo cavalieri di nascita; ma siamo poi ri­nati cristiani per grazia. E’ pur vero che la nostra na­scita ci obbliga alle pompe del mondo; ma l’esser sta­ti rigenerati in Cristo esige che non dimentichiamo le umiliazioni del Calvario ».

Sapevamo che il giovane Gaetano Thiene era umi­le, obbediente e sottomesso; ma queste parole ci di­cono che, al momento opportuno, sapeva anche es­sere fiero delle sue credenze e risoluto nell’affermarle. Tale si manterrà nelle mille traversie della sua vita.

Compiuti tutti gli studi che potevano farsi a Vi­cenza, per Gaetano viene il momento (d’obbligo per i componenti di una famiglia qual era la Thiene, non solo nobile e ricca, ma con alte tradizioni culturali) di portarsi a Padova, la cui Università, la più antica della penisola, era illustrata dalla presenza, in ogni campo dello scibile, di rinomati docenti.

Il passaggio dall’ambiente pio, raccolto e quasi familiare di Vicenza in quello assai più libero e vivace di Padova (con gli studenti, che vi affluivano da tutta Europa) avrebbe potuto rappresentare (come per tanti altri giovani) una svolta culturale, nonché un’inver­sione nelle abitudini e nel comportamento di Gae­tano. Succedeva allora e succede oggi: nel repentino passaggio dal piccolo al grande centro, lontani dalla vigile famiglia, liberi di muoversi come e dove vo­gliono, padroni di se stessi, ricettivi per natura e non ancora tanto maturi da discernere il grano dal loglio, tanti giovani finiscono (per fortuna solo mo­mentaneamente) con lo sbandarsi.

Non ci saremmo quindi meravigliati se la cosa fosse accaduta anche al Nostro. Invece la meraviglia è che Gaetano, mentre si sprofondò nello studio (più di quanto avesse fatto a Vicenza) rafforzò il costume religioso con preghiere e mortificazioni. In più, inten­sificò le opere di carità, prendendo a visitare negli ospedali gli ammalati più poveri e soli, portando loro doni e integrando (talvolta addirittura sostituendo) la deficitaria opera degl’infermieri.

Con la messa e comunione tutte le mattine, le lezioni da ascoltare all’Università, lo studio da fare a casa e le visite prolungate all’ospedale, la giornata era troppo breve per Gaetano. Eppure, trovava qual­che ritaglio di tempo per entrare nei conventi, con­versare con i monaci, unirsi alle loro preghiere e pe­nitenze. Insomma, gli anni dello studentato di Pa­dova, anziché affievolire il sentimento religioso, lo raf­forzano, fino a cambiare in ferma determinazione di divenire sacerdote.

In verità, era questo un pensiero accarezzato fin dall’adolescenza, quando mostrava apertamente di non pregiare né l’avito casato, né il palazzo paterno, né gli agi propri delle persone del suo grado. Tutti quelli, che guardavano dall’esterno, dissentivano da tale atteg­giamento. I più benevoli lo consideravano niente altro che una manifestazione dei propositi di ogni adole­scente: santi, ingenui o addirittura eroici, ma pas­seggeri. Guardando invece a quello, che avvenne do­po, dobbiamo dedurne che erano tutti uomini dalla veduta corta, mentre il giovane guardava lontano e, quel che più conta, si fortificava nel progetto, che per lui significava mettersi in tutto e per tutto a servizio di Dio, diffondendone e praticandone i comandamenti in mezzo ai più poveri e perciò più bisognosi.

Padova dunque non intiepidisce, anzi rafforza il suo anelito al sacerdozio e lo fortifica. I compagni di Università, chi più chi meno, studiano di buona lena; ma, quanto a gioie mondane, non si rintanano certo in casa. Anche il Thiene, fra l’applicazione intensa all’Uni­versità e a casa e le visite ai poveri nei tuguri e negli ospedali, si concede attimi di gioia e li affida a un diario intimo. Eccone un brano:

« So bene che io non merito, o Signore, d’essere ammesso al consorzio di questi angeli terreni (sotto tale luce egli vedeva i sacerdoti); desidero, però, di me­ritarlo. Voi vedete le mie brame ardenti di legarmi in­dissolubilmente a Voi col vincolo dei santi voti. Per­ché dunque non mi consolate, o amato Bene? Ad ogni modo, il mio volere è di non volere il mio, ma il vostro volere. Accettate almeno questi desideri del mio cuore, che, appresso di Voi, vanno al pari con l’opera, quando non possono eseguirsi ».

Non mi si venga a dire che queste parole sono sì belle e alate, ammirevoli testimoni di slancio e afflato religioso; ma che, sgorgate da un cuore giovanile, rien­treranno nell’ombra col passare degli anni, per cedere il posto a parole, pensieri e pratiche più conformi alla natura umana, ai tempi e alle necessità terrene. No, la differenza fra Gaetano Thiene e la miriade di suoi coe­tanei sta in questo: quelli promettono e, a modo loro, sono sinceri; poi, magari rammaricandosene, scendono a ogni sorta di transazioni. Il Nostro quel che promette in gioventù, manterrà negli anni maturi. Diverrà una roccia di fede, di ardore caritativo e a tale roccia, negli anni durissimi per la Chiesa, che stanno per scoccare, molti si aggrapperanno saldamente.

 

Operosa sosta

nel paesino di Ramazzo

 

Il soggiorno padovano è notevole per un’altra cosa: il distacco del Nostro dalla famiglia (non sul piano affet­tivo, sia ben chiaro, ma su quello degl’interessi). A Vi­cenza, i Thiene tenevano un palazzo, il che comportava una vita di agiatezza e di conformi relazioni sociali. Gae­tano ha a noia le une e le altre, per sottrarsi alle quali non trova di meglio che non tornare, per tutti gli anni d’Università, se non per una volta sola e per soli tre giorni, in famiglia. Amava la madre, come vanno ama­te tutte le mamme e anche col maggior fratello Giam­battista era in eccellenti rapporti affettivi. Tuttavia, fa forza al sentimento e resta sempre a Padova, perché ivi la maggior comunicazione con Dio (per il tramite dei poveri e degli ammalati degli ospedali) non è appan­nata dalle cure e dai traffici, che ogni famiglia (tanto più se è di alto rango) impone.

Anche quando, terminati brillantemente gli studi con la doppia laurea in diritto canonico e civile (per la quale gli fu conferita la « corona d’alloro », sogno di tutti i laureandi del tempo), il non ancora ventiquattrenne Gaetano deve rientrare in famiglia, preferisce alla ric­ca residenza vicentina quella più umile di Rampazzo, ove gli stessi Thiene avevano un castello.

L’ammirevole giovane nota, con rammaricato stu­pore, che i rampazzesi (allora in numero esiguo e tut­ti contadini) avevano un’istruzione religiosa assai de­ficitaria. Non mancava loro la chiesina di san Fermo; ma il parroco stava lontano e a Rampazzo compariva di rado.

Constatare l’incoltura religiosa di quella pur buo­na gente e proporsi di eliminarla, fu tutta una cosa per Gaetano, che, con animo lieto, si trasformò, da giurista quale ormai era, in catechista. I frutti dell’in­segnamento non tardarono a palesarsi; ma sarebbero stati più copiosi se la cappellina di san Fermo fosse stata sostituita da una più ampia e decorosa chiesa.

Gaetano disponeva di qualche rendita; ma non dimentichiamo che, essendo figlio cadetto, il grosso del patrimonio Thiene, secondo l’uso del tempo, spet­tava al figlio maggiore. Questi, conosciuto l’intendi­mento di Gaetano di costruire una vera chiesa a Rampazzo, l’approvò e fu largo di donativi. Sorse così la chiesa dedicata a Dio ottimo e a Maria Maddalena, che, ingrandita nei secoli successivi, esiste ancora.

 

Un più grande teatro d’azione:

Roma

 

In tutti i tempi, Roma ha esercitato un grande fa­scino sugli uomini, siano essi di cultura, di fede, di arte, di azione sociale ed economica, per non parlare degli avventurieri e degli arrampicatori.

Gaetano Thiene ha profonda cultura e radicata fede religiosa, ma soprattutto è giovane di venticinque anni e con l’animo ancor pieno di santi ideali: ce n’è ab­bastanza per capire la decisione di lasciar Rampazzo e Vicenza e di trasferirsi a Roma.

Il rigore di vita, at­tuato negli anni di Padova e nel più breve periodo di Rampazzo, continua a Roma: tra lo studio, la pre­ghiera, le visite agli ospedali e ai ricoveri di mendi­cità, la giornata gli vola. Se ha un rammarico è per la brevità di tale giornata: se fosse più lunga, potreb­be servire meglio il Signore in altre opere di carità.

Non si cura di entrare in dimestichezza con i po­tenti: se rivelasse il suo casato, molte porte si apri­rebbero. Ma lo attirano di più le porte dei tuguri, ove c’è tanta miseria fisica e morale: per la prima, il gio­vane ha sempre un pane; per la seconda il dono del­la parola, che allevia la desolazione e incita alla spe­ranza.

Poiché il problema della sussistenza si presenta anche a Gaetano, egli lo risolve comperando (secondo il non mai abbastanza deprecato uso del tempo) la carica di prelato domestico di Sua Santità. Il denaro gli è giun­to dalla famiglia, quasi come una liquidazione del poco che, quale cadetto, pur gli competeva.

In quel tempo era papa Giulio Il, che prese a ben volere il suo nuovo prelato domestico, venendone così a conoscere il nobilissimo animo. Quando, di lì a poco, si rese vacante un posto di protonotario apostolico (ca­rica molto ambita), Giulio Il non tenne conto di vari aspiranti più anziani e nominò Gaetano Thiene.

 

La benevolenza di Giulio Il verso il « diletto figlio maestro Gaetano Thiene, scrittore e nostro (cioè del papa) familiare » si manifestò ancora con la conces­sione « gratis » della parrocchia di Malo (in provin­cia di Vicenza) e della promessa di altri tre « benefici », che gli sarebbero stati automaticamente conferiti, man mano e appena si fossero resi vacanti.

Ho messo fra virgolette la parola gratis, perché, normalmente, in quell’epoca, i benefici ecclesiastici, grossi o piccoli che fossero, si comperavano a suon di quattrini, pochi o molti a seconda di ciò che i bene­fici stessi, una volta in godimento; avrebbero reso al beneficiano. Duole di dover dire queste cose, tanto gravi che, oggi, sembrano impossibili. A voce, le si deplorava; ma erano tanto nell’uso che non si faceva più caso al male che arrecavano alla religione. Questo male diveniva ancor più grave per il fatto che chi ave­va comperato una parrocchia, non era tenuto ad an­darci: poteva restarne lontano per poco o per molto tempo, e anche per sempre, purché ci avesse destinato un sostituto. Tolta dalla rendita la poca paga del parroco supplente, tutto il grosso, che ne restava, an­dava al titolare. Quest’ultimo (ed è il caso di Gaetano Thiene) poteva non essere neppure prete; il che non gl’impediva d’occupare un posto così delicato e di alta responsabilità come quello di parroco.

Il quadro è fosco, ma qualche luce pure lo rischia­ra. Non tutti questi preti (che, con parola entrata nel­l’uso, potremmo dire « assenteisti ») erano sempre e solo profittatori. C’erano anche quelli che, per farsi perdonare l’assenza dalla sede del beneficio (chiesa, parrocchia o vescovato) facevano allo stesso qualche dono importante.

 

Nei riguardi del Thiene, il triste quadro della deca­denza del costume religioso si risolve a tutto vantaggio della di lui grandezza, perché se è vero che fece solo visite saltuarie a Malo, è altrettanto vero che non per­cepì mai un soldo della rendita della parrocchia: la­sciava tutto al parroco sostituto e dava ancor del suo ai bisognosi. In conseguenza di tale comportamento, nel processo di canonizzazione, i parrocchiani di Malo, chiamati a testimoniare, non dicevano Gaetano Thiene, ma il pre’ santo.

C’è di più: il Nostro era sì un puro di cuore; era sì un generoso, pronto a scusare le debolezze altrui (ma non mai le proprie); credeva fermamente che la Chiesa, essendo un’istituzione divina, non poteva crol­lare per certe usanze peccaminose, che in essa alligna­vano; ma gli occhi li teneva ben aperti e il male (che alla comunione dei fedeli derivava dalle istituzioni sba­gliate e dai ministri del culto, che di quelle approfittavano, per tralignare impunemente) lo vedeva e ne sof­friva assai.

Da tale dolorosa constatazione e dal profondo do­lore che gliene derivava, nasce il proposito, vago e in­certo all’inizio, fermo, operoso (e perciò fruttifero in seguito) di riformare le usanze della Chiesa, e, in con­seguenza, di ridare ai suoi ministri la dignità, che deri­va dalla vita irreprensibile, non solo dentro, ma anche fuori le mura del tempio.

E’ ancora presto per parlare dell’Ordine, che egli fonderà (i Chierici Regolari); ma fin da questo momento si può definirlo una pietra fondamentale nell’edificio della Chiesa rinnovata.

Comunemente si dice « Riforma » quella iniziata da Lutero e « Controriforma » quella operata in seno alla Chiesa, per tornare all’osservanza degli antichi principi. Sarebbe più giusto dire Scisma Protestante e Riforma della Chiesa (che da allora si chiamò catto­lica). In detta Riforma, Gaetano Thiene ha un suo posto: preciso, autorevole, nobilissimo. Per esso, dopo cinquecento anni, è degno di ricordo, di amore, di ve­nerazione.

 

Inattesa,

ma meritata ricompensa

 

E’ risaputo, da quando mondo è mondo, che il ma­le fa notizia assai più del bene. Così i romani lin­gue lunghe, intenti a biasimare i preti dal compor­tamento disdicevole, ignoravano i tanti altri, che i dieci comandamenti, oltre che predicarli, li attua­vano.

A Roma esisteva un ristretto cenacolo di sacer­doti e di laici impegnati alla messa e comunione fre­quente, alla preghiera in comune in certi giorni e al­l’esercizio della carità verso il prossimo. Si chiama­va Confraternita del Divin Amore e accomunava no­mi oscuri ad altri illustri, come Jacopo Sadoleto, se­gretario di Papi, Gian Piero Carafa, vescovo di Chieti e futuro papa Paolo IV.

La Confraternita del Divino Amore non era ori­ginaria di Roma, ma ricalcata su quella voluta a Ge­nova dalla nobile Caterina Fieschi-Adorno, futura santa.

Gaetano Thiene comincia a frequentare il cena­colo e si appassiona alla sua attività (che del resto concordava in pieno con quella singola, da lui svolta sin da giovinetto) a tal punto da diventarne inces­sante propagatore. In appresso, egli dovrà viaggiare molto; ebbene, giunto in una città, s’informava del­l’esistenza della « Divino Amore »; se c’era, andava a visitarla e a infervorarla ancor più nell’opera di ca­rità; se mancava, si metteva all’opera per fondarla.

Era necessario ricordare l’ingresso di Gaetano al « Divino Amore» di Roma, perché da quel contatto nacque il proposito di realizzare l’antica aspirazione di farsi prete: di fronte ai laici, che conducevano vita esemplare per zelo religioso e per pratica della carità evangelica, lui era rimasto all’impiego di curia; di fronte allo sconquasso, che si preannunciava dal Nord Europa, bisognava armarsi al completo e assumersi tutte le responsabilità, connesse alla funzione di in­termediario tra gli uomini e Dio.

Dal contatto con i sodali del « Divino Amore », Gaetano si convinse che l’umiltà, pregevole in ogni cristiano, risplende ancor più nel sacerdote, perché i fedeli (che doverosamente hanno di lui un alto con­cetto) lo ammirano di più, vedendolo, oltre che dotto, pio e caritatevole, anche umile.

Il novello sacerdote aveva allora trentasei anni e, come rinnovata manifestazione di umiltà, non ce­lebrò la prima messa se non dopo tre mesi di conti­nua preghiera. Però, dopo la prima, non passò giorno che non rinnovasse il divino sacrificio (il che non era nel costume di tanti preti).

Ora che è sacerdote di Cristo, don Gaetano sen­te che, sia per i fedeli in genere che per i poveri e gli ammalati in ispecie, ha nuovi doveri, allo svolgi­mento dei quali però è d’ostacolo il lungo impegno quotidiano all’ufficio di protonotario apostolico. Papa non è più Giulio Il, ma Leone X, tutto inteso a dare magnificenza (forse più esterna che interiore) alla Chiesa. Don Gaetano gli chiede di essere esonerato dalla carica e il papa (ma a malincuore, perché sape­va che la Curia avrebbe perduto un elemento pre­zioso) glielo concesse.

Sacerdote e non più tenuto agli impegni dell’uf­ficio in Vaticano, don Gaetano continua e anzi inten­sifica la sua azione caritativa. Come vivesse, ce lo dice un testimone oculare, certo don Enrico Danese:

« Era irreprensibile, casto, mansueto, misericordioso e pieno di ogni pietà verso gli infermi. Con le sue pro­prie mani li cibava e custodiva e serviva. In quanto alla sua camera era povera: c’era un povero saccone di paglia, dove riposava, con un cuscino, un tavolino con uno sgabello per sedere, con alcuni libretti e una figura di carta. Lo vestire suo era di panno grosso, con calzette di cordicella bianca, con calzoni alla ve­neziana ...

Don Gaetano svolgeva l’ammirevole azione di assi­stenza spirituale e materiale nell’ospedale di San Gia­como. Ma egli e i confratelli della « Divino Amore » sapevano e vedevano quanti ammalati, tanto gravi da essere ritenuti incurabili, vagavano, schivati da tutti, per la città.

Pungolati da don Gaetano, i confratelli, che, per le cariche civili e religiose occupate, avevano voce pres­so le autorità, riuscivano, superando mille ostacoli, largamente sovvenzionati dal ceto nobile, a trasforma­re il San Giacomo da ospedale generico in ospedale per gli incurabili. Il ricovero offerto ai derelitti, che, miseri, stracciati e ripudiati, avevano, fino allora, va­gato per la città, fu una non reclamizzata, ma certo tan­to apprezzata affermazione della confraternita del Di­vino Amore.

I limiti di questo scritto vietano di dire tutto quan­to andrebbe pur detto sul « fuoco bruciante e illumi­nante », che caratterizzò il primo anno di sacerdozio di don Gaetano. Ma del premio che egli ricevette nella notte di Natale di tale anno (1516) non si può tacere.

Stava pregando in Santa Maria Maggiore, e preci­samente nella cappella del Presepio (dove si conser­vano, inseriti in una magnifica culla di materiali pre­ziosi, alcuni legni della culla di Gesù), allorquando mosse, con gesto apparentemente, illogico, le braccia verso l’immagine di Maria col Figlio. Successe allora l’incredibile: la Vergine Madre posò, sulle braccia te­se di don Gaetano, « quel tenero fanciullo, carne e ve­stimento dell’eterno Verbo ».

Questo fatto straordinario lo apprendiamo da una lettera, che lo stesso protagonista scrisse, un mese do­po, alla suora bresciana Lauta Mignani, donna di altis­simi meriti, tanto che don Gaetano e altri sacerdoti, senza conoscerla di persona, se ne erano fatti figli spi­rituali.

Raccontata la visione, don Gaetano la commenta così: « ... Duro era il cuor mio, ben lo crederete, per­ché certo non essendosi in quel punto liquefatto, se­gno è che è di diamante ». E sospirava: « Pazienza! ».

La visione, sempre su testimonianza del protago­nista, si ripeté nelle due feste della Circoncisione e dell’Epifania. Don Gaetano ne fu tanto grato che si confermò e si corazzò nella « immortal guerra contro i tre pestiferi nemici: la carne, il mondo e il demonio, da superare con l’aiuto della croce ».

 

Un nullatenente dona a quattro città
il prezioso ospedale per gl’incurabili

 

La mamma di don Gaetano, ammalata, chiese il dono di una visita al figlio. Questi non si sottrasse al dovere di tornare a Vicenza, dopo tredici anni da quan­do ne era partito. Già sappiamo che per tutti gli anni dello studentato a Padova, una sola volta e per soli tre giorni, era rientrato a casa.

Nel secondo ritorno a Vicenza, don Gaetano si prodigò nell’assistere la madre malata, finché gli morì fra le braccia a metà agosto 1518.

Di ripartire dopo le lacrimate esequie, non si po­té parlare: lui era capo della famiglia e doveva siste­mare mille cose, tanto più che, dopo la morte del fra­tello Giambattista, il patrimonio Thiene aveva subito un tracollo.

Ci volle del tempo, ma alla fine sistemò le cose per bene: pagati i debiti e assicurata una onorevole dote alla nipote giovinetta, donò quel che restava ai cugini. Per sé, don Gaetano tenne alcune briciole di ter­ra, e vedremo presto cosa ne farà.

Credete che durante il soggiorno vicentino (che si protrasse per tre anni) egli abbia abitato nel palaz­zo Thiene? No. Poiché da tempo si era autoprecluso ogni agio, prese stanza nell’ospedale, onde essere a im­mediato contatto con gli infermi e soccorrerli così pron­tamente nelle necessità fisiche e spirituali.

C’era a Vicenza un’associazione assai simile a quel­la del « Divino Amore » ed era la compagnia di S. Gi­rolamo della Carità. Composta solo di popolani (per la qual cosa pareva ancor più bella e meritoria a don Gae­tano) si proponeva di soccorrere i poveri e gli ammalati sia a domicilio che all’ospedale.

Appena il Nostro seppe della sua esistenza, vi si ascrisse e le fece dono delle briciole terriere, delle quali ho or ora parlato. I sodali gradirono quei doni concreti; ma, pur essendo popolani, apprezzarono an­cor più il dono dell’insegnamento religioso e del gran­de esempio di dedizione a tutti i sofferenti, che don Gaetano porgeva loro.

Lo slancio di carità del Nostro, in quel periodo e tra quei buoni popolani, è testimoniato dalla dichiara­zione (fatta al capo della compagnia) « ... di non voler cessare di donare il suo ai bisognosi, fintantoché non si vedesse ridotto a tale povertà da non restargli nep­pure quattro palmi di terra dove essere sepolto, né un soldo con cui fargli le esequie ».

Il soggiorno vicentino fu interrotto dal viaggio e dalla permanenza (che durò qualche mese) a Verona, dove c’era la compagnia di San Siro, ricalcata su quella del « Divino Amore ». Ma mentre a Vicenza i sodali erano tutti popolani, qui erano persone di molto ri­guardo, sia ecclesiastiche che laiche. Eppure fece tanto onore al Thiene, del quale ascoltarono, deferentissimi, i suggerimenti, frutto della lunga esperienza romana e vicentina. L’umiltà di don Gaetano, sincera, natura­le, spontanea, era la chiave che apriva tutte le porte, anche quelle ostili in partenza.

Accettato a braccia aperte fra i sodali della San Siro, sapete come firmò l’atto di ammissione? « Gaetano Thiene, indegnissimo sacerdote, accettato in minimo fratello di questi santi compagni ».

In particolare egli aveva suggerito ai veronesi di farsi promotori della nascita di un ospedale degli incurabili. Tanto seppe infervorare, consigliare e operare, che quando giunse il momento del rientro a Vicenza, l’ospedale suddetto a Verona era una realtà.

Ma era scritto che don Gaetano non potesse star fermo per troppo tempo anche in un luogo caro, come gli era Vicenza: cominciarono a giungergli inviti, da persone autorevoli, perché si portasse a Venezia, ove era giunta la fama delle sue virtù e della sua capacità aggregatrice e organizzativa. Egli daprima si schernì, ritenendosi inadatto a operare in una città cosmopo­lita e tutta presa dai traffici. Ma quando (si era nel marzo del 1521) gli si disse: « Cristo aspetta: niun si muove », superò dubbi, incertezze e timori e partì.

 

A Venezia don Gaetano starà solo due anni, baste­voli però a dar vita a due istituzioni: quella del « Di­vino Amore » e l’altra più grande (dichiarata dal go­verno della Repubblica di interesse pubblico) dell’Ospedale Nuovo degli Incurabili. L’opera fu subito apprezzata a tal punto che i nobili privati e quelli del governo fecero quasi a gara nell’aiutarla. Le fu accor­dato il permesso della questua in Città e nel dominio e fu ordinato a tutti gli ammalati incurabili o almeno gravi di entrare nell’ospedale. Ma poiché molti erano dubbiosi e preferivano sottrarsi all’ordine, don Gaeta­no, girando per calli e campielli, li individuava e poi, con la parola infiammata di carità e ispirante fiducia, li convinceva a seguirlo nell’ospedale.

In esso egli non aveva una carica definita: secon­do l’occorrenza, era direttore, ma pure infermiere e uomo di fatica. In cambio, aveva la grande gioia di vedere che gli ammalati e le ammalate erano serviti da gentiluomini e gentildonne, che portavano i nomi più altisonanti della Repubblica: per tutti dirò la moglie e il figlio del Doge Grimani, nonché quello di Venier, procuratore della Repubblica. Potenza della virtù ed efficacia dell’esempio!

Anche Padova, cara al Nostro per il ricordo degli anni universitari, si sarebbe tanto avvantaggiata da un ospedale per gli incurabili. Se non che l’istituzione di Venezia era troppo giovane per poter essere lascia­ta. Ma don Gaetano, maestro ineguagliabile, pur senza il proposito di insegnare alcunché a chichessia, aveva fatto scuola, per cui lo spagnuolo Girolamo da Solana fu in grado di andare a Padova e fondarvi sia il « Di­vino Amore » che l’ospedale per gli incurabili. Coordinando e dirigendo la volontà, l’azione, e l’impegno anche economico di tanti generosi, riuscì a dotare quattro città dell’ospedale per gli ammalati incurabili.

 

 

Nascono

i nuovi operai della vigna

 

 Vicenza, Venezia, Padova, quale magnifico cam­po per quell’aratura in profondità, che era lo spirito caritativo e la capacità organizzatrice del Thiene. Ma presto si rivelò troppo piccolo per lui. Un campo più vasto lo aspettava, ed era di nuovo Roma, da dove giungevano notizie confortanti di risveglio religioso. Già di per se stessa, l’elezione di Adriano VI, straniero e conosciuto per la vita semplice e la rigidità dei costu­mi, faceva capire che era sentita in alto loco la neces­sità di cambiamenti e di riforme. Il fasto della corte; la grandiosità dei templi; le feste, nelle quali gli elementi profani finivano col mettere in second’ordine quelli religiosi; le musiche e i poemi, composti in onore del­la Chiesa trionfante; la stessa munificenza, che scorre­va a rivoli dalla borsa del pontefice o dei cardinali, era­no tutte cose che, senza dubbio, piacevano al popolo e lo facevano accorrere, festoso, nelle chiese. Era però assai dubbia la loro efficacia, nel rafforzamento del sen­timento religioso dello stesso popolo.

Con Adriano VI tutto cominciò a cambiare e la sua azione (ahimé! troppo breve) si compendi ava in que­sto proposito: « dare un prete ad ogni beneficio (nel senso di parrocchia o altra istituzione religiosa prov­vista di rendita) e non un beneficio ad ogni prete ». Grandi e utilissime cose egli avrebbe operato nel raddrizzare regole, usanze e costumi claudicanti, se non fosse morto assai presto. Ma pochi lo avevano ca­pito, tanto è vero che, invece di piangere la sua repen­tina dipartita, il popolo si abbandonò a indecorose ma­nifestazioni di gioia. Esse dimostrano che il gregge era stato fuorviato dalle mollezze, dalle tolleranze e dalle indulgenze durate troppo a lungo.

 

Col cavallo di san Francesco don Gaetano sul finire del 1523, sacca in spalla e bastone da pellegrino fra le mani, la­sciare la laguna e puntare a Roma. Giuntovi, riab­braccia i fratelli del « Divino Amore », nel frattem­po cresciuti di numero. Fra i nuovi iscritti, il Nostro prese particolarmente in istima il giovane sacerdote Bonifacio de’ Colli, dottore in legge, di sentimenti elevati e di costumi esemplari.

Avendo don Gaetano ripreso, come se non ci fos­se stata un’interruzione di cinque anni, a frequentare l’ospedale degl’incurabili, il de’ Colli lo imitò, gareg­giando in zelo e generosità. Così i due ebbero modo di conoscersi meglio, scoprendo di avere le stesse idee circa la necessità di riportare il clero a vita più semplice e quindi conforme agli antichi insegnamènti evangelici. Da queste riflessioni all’idea di fondare un nuovo Ordine, basato sugli obblighi tradizionali della povertà, dell’obbedienza e della castità, da ri­spettare rigorosamente, il passo è breve.

Il Thiene e il de’ Colli non pensavano, data la loro umiltà, di avere la forza di contrapporsi alla pre­dicazione protestante. Volevano essere solo un cam­panello d’allarme, un richiamo a chi ostentava di sco­noscere il pericolo incombente, una pattuglia d’avan­scoperta, insomma, per il grosso dell’esercito, che sa­rebbe venuto dopo. — Potremo dissodare lo spazio inaridito bastevole a un orticello (avranno pensato il maestro Thiene e l’allievo de’ Colli); ma facen­dovi attecchire e prosperare i tre alberi della povertà, dell’obbedienza e della carità, essi scacceranno le er­bacce, che da troppo tempo inviliscono il terreno del­la Chiesa.

Il proposito dovett’essere palesato a qualcun’al­tro, se giunse agli orecchi di Gian Pietro Carafa, in quel momento vescovo di Chieti e arcivescovo di Brin­disi, ma con incarico in Curia e quindi residente a Roma (conferma di una delle usanze deleterie, che af­fliggevano la Chiesa). Ma egli non abusava di questa situazione irregolare, anzi ne soffriva, ritenendola in netto contrasto con il bene delle anime.

Il Carafa, futuro cardinale e poi papa, sarà il braccio destro del Thiene e avrà tanta parte nello sviluppo dell’Ordine che nascerà (dei Chierici Rego­lari, che si chiamarono Teatini proprio perché lui era vescovo di Chieti, l’antica Theate). Napoletano esuberante e facondo, oratore appas­sionato e convincente, impetuoso e autorevole nei rap­porti umani, racchiudeva nelle belle sembianze e nella robusta corporatura un’anima tutta slanci di carità e di ardore religioso. Obbedendo a un desiderio di perfezione religiosa, che covava nell’inti­mo da tempo, avrebbe rinunciato a ogni carica e anche al patrimonio avito, conformandosi in tutto e per tutto alla regola che don Gaetano avrebbe dettato.

Così i pionieri della compagnia dei Chierici Rego­lari sono tre: Thiene, de’ Colli e Carafa. Ad essi se ne aggiunse un altro, il sacerdote Paolo Consiglieri, ro­mano, anch’esso uscito dalla scuola del « Divino Amo­re » e quindi avvezzo alla vita semplice e all’esercizio della carità.

 

Fu stesa una Regola, a base della quale c’erano i tre voti ben conosciuti, con l’aggravante che la povertà doveva essere assoluta, nel senso che i chierici avreb­bero accettato ciò che fosse stato dato loro per il so­stentamento, ma che non avrebbero mai chiesto niente a nessuno.

Il voto della povertà totale si basava sull’insegna­mento evangelico degli uccelli dell’aria che non semi­nano, non mietono e non raccolgono nei granai, ma che il Padre Celeste nutre e dei gigli dei campi, che non lavorano e non filano e che tuttavia hanno una veste più bella di quella di Salomone.

Fu proprio questo concetto che incontrò le mag­giori opposizioni nella Curia, cui fu sottoposta la Re­gola. Pareva, a quei dabbenuomini, che i nascenti chie­rici regolari volessero forzare la Provvidenza a rinno­vare i miracoli. Alla fine, pur con molte modifiche, il « breve » d’approvazione della Regola giunse: con­sentiva ai quattro compagni di emettere i voti pub­blicamente, di vivere in comune in abito clericale con la denominazione di Chierici Regolari, sotto la protezio­ne apostolica, di eleggersi un superiore e di ammettere altri, di qualunque dignità, alla « professione », dopo il noviziato di un anno.

Con un altro breve dello stesso giorno, indirizza­to al Carafa, il papa ne accettava la rinunzia alle due diocesi, stabiliva che continuasse a chiamarsi vescovo teatino (da Chieti, l’antica Theate) e ad esercitare le funzioni pontificali, mentre lo scioglieva dagli altri obblighi, non conformi al suo nuovo stato e al voto di povertà, che stava per fare.

Fatta rinunzia, innanzi al notaio, a tutti i beni pos­seduti e accettata una casa di Bonifacio de’ Colli, co­me loro residenza, i Chierici Regolari, un mattino, as­sai per tempo, si portarono in San Pietro, per fare la pubblica professione nelle mani del vescovo Bonciani, deputato dal papa a riceverla. Ma poiché detto vescovo giunse con molto ritardo, il tempio si era via via empi­to di gente, la quale, saputo di che si trattava, era an­siosa di vedere i quattro coraggiosi, che rinunciavano a una vita, che sarebbe potuta essere comodissima, per iniziarne un’altra piena di stenti.

 

I Teatini «lume e odore buono»

 

La minuscola comunità dei chierici regolari si sta­bilì a Via Leonina (nel rione Campo Marzio, centro di Roma) nella casa offerta dal de’ Colli (ma con impe­gno di venderla dopo tre anni, onde tener fede al prin­cipio che la congregazione non dovesse posseder nul­la). Il sistema di vita messo in opera era duplice: con­templativo (studio e preghiera) e attivo (assistenza a tutti i bisognosi, a cominciare dagli incurabili accolti nell’ospedale di San Giacomo). Il Carafa, benché ve­scovo, si prodigava nel fare l’infermiere come e più degli altri tre.

Accanto alla casa c’era (ed esiste tuttora) la chie­setta di San Nicola in Campo Marzio, poco o niente ufficiata. Presala in cura, i teatini ne fecero un gioiello di ordine e di pulizia (ed era proprio don Gaetano che, più degli altri tre, impugnava scopa e strofinaccio). Sempre disponibili alla confessione e attentissimi allo svolgimento delle funzioni, ebbero la gioia di veder accorrere nella chiesetta (prima pressoché ignorata) molta gente, non solo del rione, ma di altre parti di Roma.

Come se non bastasse il lavoro dentro la propria chiesa, i teatini (ormai la gente li chiamava così) andavano a predicare in altre e più grandi chiese. Oltre tutto, era un esempio che davano ai curatori di chiese (parroci, cappellani, canonici, ecc.) presso i quali era invalso l’uso di lasciare la predicazione ai frati, quasi che disdicesse alla loro dignità. (Sincerità avrebbe vo­luto che si autaccusassero di incapacità e svogliatezza).

 

La predicazione alle masse fu un merito particolare dei teatini, specie quando crebbero di numero. Don Gaetano non negava il valore degli studi teologici fatti a tavolino; ma aggiungeva che essi non davano alcun impulso alla fede del popolo. Per portare lume e odore buono (era la sua espressione favorita) biso­gnava scendere in mezzo alle masse e, con linguaggio adeguato, renderle partecipi delle verità della fede. Perciò, a piedi in città e a cavallo nelle campagne (do­ve, normalmente, gli altri preti andavano ben poco, per non dire mai) i teatini, armati del Vangelo, porta­rono lume e odore buono.

 

Quanto alle necessità materiali della vita, le affron­tarono così: tutti e quattro i chierici confondatori s’erano spogliati (e s’è già detto) d’ogni bene immo­bile posseduto. Ma le sommette, che si trovavano a possedere al momento della professione religiosa, le misero in comune e così fecero fronte alle prime spese. Fedeli al principio anzidetto, né allora, né poi, chie­sero mai nulla; ma le elemosine cominciarono a giun­gere spontanee: trattenuto il necessario al bisogno giornaliero, tutto il restante veniva dato ai poveri.

Poiché la Roma di cinque secoli fa era come una cittadina di oggi, non è da stupire che il sistema di vita dei quattro chierici regolari si conoscesse da un suo capo all’altro. Non tutto il clero romano lo ammirò, è ovvio: esso frustava, in silenzio, troppi comodi, trop­pe incurie, troppi sepolcri imbiancati. Ma tanti altri preti, in alto e in basso, li guardarono con rispetto e presero a imitarli. Tutto, dunque, non era guasto: i buoni c’erano e aspettavano solo una chiamata per riprendere il retto cammino.

 

Un’altra prova della buona fama che aleggiava in­torno ai teatini è offerta dalle nuove reclute affluenti in Via Leonina. Se è vero che molti, che chiedevano di entrare, poi, messi alla prova e trovatala troppo dura, se ne andavano, è altrettanto vero che altri restavano. E non erano persone dappoco. Bernardino Scotti (tan­to per fare un nome) sacerdote di Magliano Sabina (Rieti), ricco di famiglia, avvocato concistoriale, dotto in latino, in greco e in ebraico, rinunciò ai beni aviti e visse in esemplare povertà sotto l’abito teatino. (In appresso, diventerà il primo cardinale della congrega­zione).

Dopo qualche tempo diventarono (tutti provenien­ti dall’esperienza del « Divino Amore ») dodici, e allo­ra si presentò il problema della casa, giacché quella di Via Leonina era insufficiente. Il problema lo risolse il cardinale Giberti che, quand’era vescovo di Verona, aveva conosciuto don Gaetano e lo aveva tanto apprez­zato. Ricopriva in Vaticano l’alta carica di datano ed era il consigliere privato del pontefice. Ma, uomo di costumi esemplari e anelante alla riforma interiore del­la Chiesa, avrebbe voluto lasciare tutto e farsi teatino, cosa che però il papa non gli permise. Sapendo che i chierici regolari si trovavano troppo stretti in via Leo­nina, comperò, con denaro personale, una vigna con casa colonica alle pendici del Pincio, e in essa casa, op­portunamente adattata, si trasferirono i dodici teatini.

 

Il San Giacomo, con i suoi incurabili, essendo non lontano dalla nuova residenza, rimase la palestra del­l’attività assistenziale e caritativa dei chierici regolari, ai quali, durante l’anno santo 1525, il lavoro rad­doppiò, a causa di un’epidemia di peste. Ne furono colpiti in prevalenza i pellegrini, forse perché, indebo­liti dagl’interminabili viaggi (la povera gente li fa­ceva a piedi) erano più ricettivi al morbo. Quegl’infe­lici, essendo soli, senza parenti, senza conoscere la città, senza o con pochi denari, furono i prediletti di don Gaetano e dei suoi confratelli.

Dopo alcuni anni di esperienza di vita comunita­ria, venne il momento, per i chierici regolari, di dar­si una costituzione definitiva. Essa fu stilata, material­mente, dal Carafa, ma il pensiero animatore fu di don Gaetano, che parlava assai poco, ma vedeva sempre giusto.

 

Qui è il caso di confermare che l’Ordine Teatino ebbe tanta parte nell’azione di riforma dei costumi ec­clesiastici (bisogno sentito già prima della bufera pro­testante). A tale scopo Clemente VII aveva costituito una commissione, con pieni poteri, presieduta dal cardinale Giberti e della quale, assieme a pochi altri, fe­ce parte il Carafa che, come s’è detto, aveva serbato la dignità episcopale. Di detta commissione proprio il Ca­rafa, sia per la naturale combattività, sia per l’espe­rienza acquisita nella vita comunitaria teatina, fu l’al­fiere. Risaputolo fuori della Curia, fu oggetto di scher­no e d’insulti da parte dei riottosi colpiti dallo strin­gimento di freni operato dalla suddetta commissione.

Non era da credere che la gramigna, che aveva in­festato il campo della Chiesa, potesse essere sradicata da un giorno all’altro. Tuttavia qualche cosa di buono la commissione ottenne, per esempio che chi voleva essere ordinato sacerdote doveva dimostrare di aver fatto almeno il corso di « grammatica »; che chi aspi­rava a una carica superiore doveva sottoporsi a un esa­me di più solida cultura; che forestieri, dei quali non si sapeva nulla, ma che tentavano l’avventura di Roma, non sarebbero più stati ordinati sacerdoti, come pri­ma avveniva, purché fossero disposti a largire una cer­ta somma. Infine, non fu più tollerato il vestiario sciat­to o troppo vistoso: tutti dovevano indossare la veste talare e radersi le barbacce, di cui fino allora avevano fatto sfoggio.

Ma la commissione puntò il mirino anche alle alte cariche, come le più responsabili del mancato adempi­mento dei doveri da parte del clero sottoposto. Già sappiamo del Carafa che era stato vescovo di Chieti e arcivescovo di Brindisi e residente a Roma. C’era di peggio. Tommaso Campeggio, legato del papa, da cin­que anni era vescovo di Feltre, senza aver nessuno de­gli ordini sacri. Ma, ottemperando alle ingiunzioni del­la commissione, si preparò convenientemente agli esa­mi, che sostenne innanzi al Carafa. A distanza di vari giorni l’uno dall’altro, durante i quali si mortificò con il digiuno, ricevette gli ordini minori e alla fine fu con­sacrato vescovo. C’è da credere che poi egli abbia usa­te, verso i preti sottoposti, la stessa onesta severità usata nei suoi riguardi.

 

Il    «Sacco di Roma»

 

Troppe pagine occorrerebbero per spiegare i fatti politici che portarono Roma a subire, nell’anno 1527, il più grande oltraggio della sua storia: intendo il saccheggio che durò dodici giorni e che la ridusse a teatro di ogni nefandezza, a macello umano e a lugu­bre cimitero.

Stando i chierici regolari nella casetta alla pen­dici del colle Pincio (che non era certo l’incantevole giardino odierno) erano defilati dalla febbre di strage della soldataglia straniera. Ma nessuno portava più offerte di viveri, che erano la loro quotidiana risorsa. Ci fu un giorno in cui don Gaetano divise un pane (l’unico posseduto) in quattordici parti (perché c’era­no due ospiti). Nessuno se ne lamentò, pensando che in città forse c’era qualche persona mancante anche di quel misero boccone.

Ma don Gaetano, fermamente convinto che il Si­gnore dà sempre il necessario e anche il sovrappiù, non fu deluso. Le strade di Roma erano sì insozzate e deserte, ma i carri dei militari, carichi dei frutti del­le ruberie, le attraversavano. E’ facile immaginare che qualche cosa dell’eterogenea merce, essendo caricata in fretta e in disordine, lungo il percorso cadesse dai carri sconnessi. Un popolano (spiace che sia rimasto sconosciuto) seguiva qualcuno di questi carri, racco­glieva le cose cadute e poi, salito al Pincio, ne faceva parte ai chierici regolari. Il provvidenziale soccorso si ripeté per più di un giorno.

Questa pagina fa onore all’uomo e al cristiano ed è come un fiore spuntato sopra il letamaio. Ma ora la verità storica esige che io parli proprio del letamaio (sia pure in senso figurato).

Nella passione di Gesù Cristo c’è il buon Cireneo e c’è Giuda: proprio i due personaggi che compaiono nel travaglio di don Gaetano. Abbiamo visto il cire­neo; ecco ora il giuda nelle vesti di un antico servitore di casa Thiene a Vicenza. Trapiantatosi a Roma, costui doveva aver riconosciuto il già signorino Gae­tano, doveva averlo seguito per vederne la dimora e, sempre convinto che dovesse essere ricco, ha guida­to ora al romitorio del Pincio un pugno di lanzi, esa­gitati e scostumati quanto e più degli altri.

L’ambiente estremamente povero, anche se puli­to (ma quelli notavano forse la pulizia?), avrebbe do­vuto convincerli che lì soldi non potevano esserci. Tuttavia li pretesero lo stesso. Don Gaetano si rivol­se al riconosciuto ex servitore e gli fece questo pacato discorso: — è vero che una volta ero ricco; ma, da quando sono entrato in religione, mi sono spogliato di tutto, per amore di Cristo, per darlo ai poveri. Ades­so non sono ricco, se non di Dio. Se questo vuoi ra­pirmelo, beato te, ne son contento e io bramo. Pèn­titi, e Dio sarà tutto tuo, così come è tutto mio. Sol che tu lo voglia, potremo essere ricchi insieme.

Sante parole, ma confetti agli asini! I forsen­nati, indispettiti dal viaggio a vuoto, afferrarono don Gaetano, lo denudarono, gli serrarono le gambe tra l’orlo e il coperchio di una cassa; poi, legatogli il torace con una fune, ne passarono l’altro capo so­pra un trave del soffitto e, sghignazzando, si divertirono a tirarlo su e giù. Anche gli altri chierici fu­rono svillaneggiati e sputacchiati, fino a quando gli aggressori, sazi di tanta sconcezza, se n’andarono.

A don Gaetano la sofferenza fisica parve meno grave dell’oltraggio al suo pudore. Tuttavia esortò i confratelli ad accettare quelle sofferenze per amor di Dio; fece di più: pregò lo stesso, perché perdo­nasse il gratuito insulto.

Ma non era finito: partiti i tedeschi, giunsero gli stagnoli, anch’essi assatanati dal desiderio di quattrini. — Qui non ce ne sono? Bene, starete con noi fino a quando non li troverete.

Così dicendo, li legano tutti e li portano in una improvvisata prigione a piazza di Spagna. Che fanno colà i dodici chierici? Immaginano di stare in con­vento e pregano sempre. I carcerieri se ne seccano; ma, invece di rimandarli a casa, li trasferiscono in un locale del Vaticano (dunque erano giunti anche lì), presso la dimora del loro capitano.

Costui, convinto che i soldi, presto o tardi, sa­rebbero dovuti comparire, teneva i prigionieri a di­giuno; ma quelli, sempre pieni di santo fervore, in­gannavano i morsi della fame cantando le lodi d’iddio.

I carcerieri, nei locali adiacenti, li sentivano e ne ridevano. Non rise invece, udendoli, un colonnello, invitato a pranzo dal capitano: volle vederli; se ne com­mosse e, fiore fra i cardi, li fece rifocillare e li man­dò liberi.

Liberi sì, ma di fare che cosa, in una città semi­desertica e senza un soldo in tasca? Si consultarono e decisero di andare a Venezia, dove c’era il sodalizio del « Divino Amore », che li avrebbe ospitati, e l’ospe­dale degli Incurabili, dove riprendere l’attività cari­tativa e assistenziale. Proprio in quei mesi, detto ospe­dale aveva nominato il Thiene e il Carafa procuratori, difensori, conservatori e protettori principali presso la Curia romana.

 

Due frutti diversi dello stesso denaro

 

A Venezia, don Gaetano, nei tre anni della pre­cedente permanenza, aveva sparso « lume e odor buo­no ». I veneziani se ne ricordavano e perciò lo accol­sero, assieme ai compagni, con rispetto e con gioia, non solo a parole, ma con i fatti. Li sapevano poveri per vocazione; ora li vedevano ancor più stremati per la tragica esperienza del « sacco ». E’ appena il caso di sottolineare che si trattava della povertà di quattrini, mentre, per quanto attiene allo spirito, erano sempre gran signori.

I chierici regolari, dopo una sistemazione provvi­soria, ebbero quella definitiva nella chiesa e nella casa annessa di San Nicolò di Tolentino, chiesa e casa che furono sempre migliorate.

Non ripeterò quello che ho già detto sulla vita pri­vata dei teatini, regolata sul metro della povertà. Ma, quanto alle chiese, le vollero sempre bellissime. « Sia pure angusta la casa, povera la cella, scarso il vitto, lacero il vestito, ma ricca, ma ornata la chiesa »: sono precise parole del Thiene.

Un’altra cosa va subito detta, sebbene, dati i prece­denti, possa apparire superflua: non s’erano ancora sistemati nella casa, che già i Nostri avevano ripreso, con la naturalezza di chi l’aveva lasciata il giorno prima, l’assistenza spirituale e materiale nell’ospedale degli Incurabili.

Conseguenza della guerra contro Carlo V, una ter­ribile carestia si riversò sul Veneto: si soffriva a Ve­nezia; ma nelle province addirittura si moriva dalla fame. Si capisce che il governo della Repubblica prese i provvedimenti del caso; ma non poté impedire che masse di villici affamati giungessero a Venezia a chie­dere pane. I teatini, in quella triste circostanza, si rivelarono, oltre che caritatevoli (il che era ben risa­puto), maestri nell’organizzazione dei soccorsi. Chi li provvide del tanto denaro occorrente fu il nobile Giro­lamo Emiliani, che non fu mai teatino nel senso preciso della parola, ma che alla scuola di don Gaetano si formò; da lui apprese il grande amore per i diseredati (spe­cialmente bambini) cosicché poi, ritiratosi nei possedi­menti di Somasca, dette origine all’Ordine Somasco. Questo riprese le grandi linee di quello dei chierici re­golari, ma, sull’insegnamento del fondatore (San Gi­rolamo Emiliani), si dedica all’educazione degli or­fani e dei ragazzi in genere.

Con il comportamento severo verso se stessi, ma comprensivo, generoso, caritatevole con gli altri, i teatini si attirarono tanta simpatia e ammirazione, per cui molti furono quelli che chiesero di entrare nell’Ordine. Crebbero quindi di numero, pur con i rigidi criteri di accettazione. Come don Gaetano sce­gliesse i nuovi confratelli, lo si giudichi dal diniego opposto alla domanda di divenire teatino, presen­tata da senatore veronese Flaminio che chiedeva qualche riguardo per la sua sa­lute cagionevole, come un vitto migliore e un’attenua­zione della disciplina conventuale.

Invece dell’osannato Flaminio, don Gaetano ac­colse uno strano asceta giramondo, certo Bernardo da Todi, detto Bernardone, perché alto e grosso. Armato d’una grande croce, girava per il Veneto e sulle piazze predicava il Vangelo, a modo suo, perché non aveva né cultura, né una precisa regola di vita. Era come un albero selvatico che dà molti frutti, senza alcun frut­to per il contadino.

Fermatosi a Venezia, volle conoscere il Thiene, che ne sondò il fondo dell’animo e, visto che era buo­no, lo consigliò a smettere di girovagare e a fare qual­che cosa di più costruttivo. Per allora Bernardone non lo ascoltò; ma tornò altre volte e alla fine disse: — Don Gaetano, prendetemi con voi e insegnatemi a portare la croce vera, non quest’inutile fardello di legno.

Accolto amorevolmente, non deluse l’attesa: fu tanto umile, servizievole, instancabile, che quando il Carafa divenne papa (Paolo IV) se lo portò in Va­ticano come suo cameriere privato. In quegli anni, avrebbe dovuto indossare la sottana di seta paonazza; ma chiese ed ottenne di esserne dispensato e si aggirò intorno al papa sempre con l’umile e scolorita veste teatina. Quando il papa morì, tornò al convento di Venezia e ne riprese, con semplicità e gioia, la vita rigorosa.

 

Il vanto del possesso della cultura e l’offerta di metterla al servizio dei teatini offre il destro di parlare della loro capacità culturale.

E’ chiaro che non tutti quelli che entrarono, col passare degli anni, nell’Ordine, potevano avere la dot­trina dei quattro confondatori. Ma che l’istituzione mettesse la cultura (ovviamente quella teologica) tra i suoi fini, è parimenti certo. Nella giornata di ogni confratello (irta di impegni) c’era anche quello dello studio.

I teatini apprezzavano la cultura e, giustamente, l’esigevano. Abbiamo visto che nell’avviata riforma del costume ecclesiastico era stato proprio il Carafa a volere che, chi aspirava al sacerdozio, doveva aver fatto almeno il corso di « grammatica », mentre chi voleva esser vescovo doveva sottoporsi a un preventi­vo esame culturale adeguato all’importanza della carica.

A queste constatazioni generali, si aggiunge un fatto specifico. Durante gli anni del secondo soggior­no veneziano, i teatini (intorno ai quali aleggiava l’aria della riforma del costume ecclesiastico da tutti i buoni invocata e desiderata) intrapresero un partico­lare studio. Col consenso e l’incoraggiamento del pon­tefice, misero mano a modificare e unificare il breviario.

I laici, specie gli incolti, considerano il ben noto testo come il libro delle preghiere dei preti. Sì, è anche questo, ma è molto di più: è un compendio della vita e della dottrina della Chiesa, quasi il simbolo e l’ar­tefice dell’unità cattolica. Mediante le sue « lezioni » e « omelie », esso è un codice di perfezione evangelica; mediante le « commemorazioni » e la testimonianza della storia della Chiesa universale.

Nella nuova veste (inutile sottolineare che essa fu una testimonianza di solida cultura da parte dei teatini) il breviario fu sperimentato da molti, moltissimi sacer­doti veneziani, dopodiché fu sottoposto al papa. Passa­rono anni prima che il nuovo breviario (che è quello attuale) venisse accolto e imposto a tutto il clero. Ciò avverrà dopo le conclusioni del Concilio di Trento, quando, ovviamente, i revisori del gruppo teatino ve­neziano non c’erano più. Ma dal cielo avranno gioito, vedendo che la loro fatica era stata accolta, apprezzata, codificata.

 

Poiché in questo capitolo si è parlato molto dell’at­tività del gruppo teatino veneziano, ma poco di quella particolare di don Gaetano, sebbene di ogni impre­sa egli fosse l’ideatore, voglio chiuderlo con il raccon­to di un fatto tanto straordinario, da rasentare il mi­racolo.

Il Nostro voleva che la chiesa fosse in tutto degna, a cominciare dalla sua ideazione, del Signore, che vi abita. Gli era stata data, come orto da coltivare, la chiesa di San Nicolò da Tolentino? Bene, valente ar­chitetto e sperimentate maestranze lavorino a farla sempre più bella: si economizzi sulla casa, sul vitto e sul vestiario dei confratelli, spendendo invece tutto quanto occorre a far bella la chiesa.

Ma una volta capitò che le spese fossero andate al di là delle offerte ricevute e don Gaetano, per far fronte all’impegno assunto, dovette contrarre un de­bito a onerose condizioni. Venuto il giorno della re­stituzione, la somma non c’era ed egli dovette umiliarsi a chiedere una dilazione.

Va bene, tagliò corto il creditore chiara­mente seccato e duro,  ma non un giorno di più.

Giunta la nuova data, la situazione era rimasta la stessa: niente soldi e l’umiltà di don Gaetano lo fa­ceva ritener indegno di chiedere l’aiuto diretto di Dio.

Pochi istanti prima dell’ora in cui il creditore era solito giungere, un giovane di straordinaria bellezza comparve dinanzi al Nostro e, senza dir nulla, ma salutando rispettosamente, gli consegnò un pacchetto.

Quello usci e comparve il creditore: altra faccia e ben diverso il saluto. Don Gaetano ebbe l’ispirazione di non dir motto, ma di aprire il pacchetto. Oh, me­raviglia: conteneva tante monete quante ne occorre­vano per saldare il debito!

La storia è bellissima e potrebbe finir qui; invece ha un codicillo. Il creditore, che si era scontrato col giovane dal volto radioso, vedeva ora ugualmente il­luminato da una luce non naturale quello di don Gae­tano. Ammutolì, rifletté, cercò la risposta alla doman­da che gli urgeva sulle labbra, e intanto l’abituale du­rezza di cuore, di chi presta denaro per cavarne pro­fitto, si sciolse. In un impeto di rimorso, di commo­zione, di ammirazione e di amore, rimise il denaro nelle mani di don Gaetano, le baciò e disse: — Nelle mie frutterebbe niente altro che comuni soldi; nelle vo­stre frutta grazia del Signore.


 

Venezia e Napoli

hanno lo stesso Dio?

 

 

 

 

Ci si può domandare come mai, passata la tem­pesta del « sacco » di Roma e tornata la città alla vi­ta normale, i teatini, che tanto bene avevano operato, non vi fossero richiamati. Del fatto, s’è addotta più di una ragione; ma la più credibile è questa: e ve­ro che non s’erano mai atteggiati ad esempio per chicchessia; ma è altrettanto vero che, in silenzio, ave­vano offerto un costante esempio di vita conforme agli insegnamenti evangelici. Così facendo, avevano disturbato la digestione e il sonno di molta gente, fe­lice quindi, al presente, di saperli lontani.

La chiamata, che non venne da Roma, giunse in­vece da Napoli. Dapprima furono privati cittadini (e che promettevano tutta l’assistenza necessaria), aven­do avuta notizia del tanto bene che i teatini operava­no a Venezia; poi furono le autorità, con a capo il vi­ceré don Pedro di Toledo, già amico personale, oltre che estimatore, del Carafa. A tali autorità era diffi­cile dir di no; ancor più lo era nei riguardi del papa, che appoggiò la richiesta.

Fu così che, il 2 agosto 1533, don Gaetano e don Giovanni Marinoni, altra splendida figura di teatino, che sapeva abbinare l’ascetismo con l’attivismo (poi anch’egli salito agli altari), si misero in viaggio per Napoli. Con quale mezzo? Il cavallo di san France­sco e confidando, come sempre, nella Provvidenza. A metà del mese giunsero a Roma e, chiesta udienza, furono ammessi alla presenza del papa. La veste con­sunta e spiegazzata e soprattutto il viso scavato dice­vano chiaramente quanto il viaggio fosse stato inco­modo.

Clemente VII lo capì e si lasciò scappare questa sincera domanda: — E dove andate a morire, figlioli, con questi caldi?

Al che don Gaetano, con uguale sincerità, rispo­se: — Vostra Santità così ha comandato e noi non ci curiamo di morire per non essere disubbidienti.

Il papa, visibilmente ammirato, li benedisse e li congedò. I due, rinfrancatisi con l’ospitalità di qual­che giorno all’ospedale degl’incurabili, ripresero l’usa­to cavallo alla volta di Napoli.

Le promesse di ospitalità furono largamente man­tenute; un signore, il conte d’Oppido, aveva per essi preparato una comoda casa e poiché i due si resero conto che il campo d’azione era vastissimo e promet­teva buoni frutti, si fecero seguire da altri sei con­fratelli.

L’attività era sempre la stessa: studio e preghie­ra in casa; cura meticolosa della chiesa avuta in cu­stodia; i sacerdoti sempre disponibili per la confessio­ne e la comunione dei fedeli; rigoroso rispetto della liturgia nelle varie funzioni e prediche fatte con com­movente calore: tutte cose divenute poi normali, ma che allora, nel non mai troppo deprecato clima di pressappochismo e di lasciar correre, non si facevano o si facevano alla carlona. I fedeli vedevano, confron­tavano, capivano e gremivano la chiesa.

Dove invece i teatini fallirono fu all’ospedale de­gl’incurabili. Naturalmente, c’era anche a Napoli e i buoni padri si offrirono per occuparsi degli ammalati come avevano sempre fatto nelle altre città. Non furono graditi dal gruppo dirigente dell’ospedale, che poco faceva a vantaggio degli ammalati, forse pensando più a quello proprio.

Invece di essi, cioè dei teatini, si occupava il gene­roso conte d’Oppido, che li provvedeva di tutto,… esagerando, cosicché don Gaetano rimandava ciò che ec­cedeva i loro limitati bisogni. L’Oppido era un benefat­tore, senza dubbio, e anche religioso, ma non tanto da capire lo sconfinato sentimento di fiducia nella Provvidenza, base della vita dei teatini e di ogni im­presa, cui mettevano mano. Dicendo e ripetendo che una comunità non può sempre vivere alla giornata, ma che una rendita, sia pure modesta, ma sicura, de­ve averla, voleva che il piccolo convento accettasse la donazione dei suoi beni. Poiché don Gaetano, fede­le al principio di attendere tutto e solo dalla Prov­videnza, rifiutò l’offerta più d’una volta, l’Oppido si ripresentò un giorno accompagnato da alcuni sacer­doti, che avrebbero dovuto dargli man forte nel con­vincere l’interlocutore ad accettare la donazione.

— Donde vengono le rendite, che ritenete tan­to sicure? — chiese il Thiene ai nuovi venuti.

— Dai poderi e dalle case, dati in affitto.

— E se un giorno gli affittuari, per impossibilità o per malizia, si rifiutano di pagare?

— Abbiamo valide scritture, in base alle quali potremo citarli in giudizio.

Parevano imbattibili, quei zelanti preti, nei loro ragionamenti; ma il Thiene li sgominò dicendo: — Io ho scritture più valide, ho le Sacre Scritture, auten­ticate col sangue di Cristo, nelle quali egli stesso si obbliga a dare il necessario (e il resto per soprappiù) a chi ne cerca il regno. Quel Dio che non ci ha fatto mancare nulla né per il vitto, né per la chiesa, duran­te la tremenda carestia di Venezia, ci aiuterà anche qui.

— Ma Venezia è ricca, mentre Napoli è po­vera — scappò di dire al conte Oppido, cui don Gae­tano, pronto, oppose: — Io credo che il Dio di Ve­nezia sia lo stesso di Napoli.

Il discorso, chiuso quel giorno, fu ancora ria­perto dall’Oppido, per cui don Gaetano decise di chiuderlo definitivamente in questo modo: detto ai confratelli di prender solo il breviario, li invitò a uscire di casa. Egli uscì per ultimo, chiuse la porta e ne mandò le chiavi al proprietario con questo bigliet­to: — Andiamo a vedere se il Dio di Napoli è lo stesso di Venezia.

Non fu la sola incomprensione incontrata dai tea­tini a Napoli; ma, più che al loro racconto, dediche­rò il poco spazio disponibile a un fatto, che fu defi­nito miracoloso non dal popolo ingenuo, ma da un medico avveduto e onesto.

Un fratello converso, incaricato di fare un certo lavoro, cadde e si fratturò una gamba. Fu curato con i mezzi e i sistemi del tempo, che però non impedi­rono la formazione di una piaga purulenta, con chiara tendenza a trasformarsi in cancrena.

— Niente più da fare — sentenziò il medico — se non amputare l’arto —. Se n’andò, assicurando che il giorno dopo sarebbe tornato con gli strumenti adat­ti alla penosa bisogna.

Ma il Nostro conosceva un altro medico, che non fa uso né di medicine, né di ferri chirurgici. Ha nome Dio e a lui si rivolse fervorosamente, invitando l’infortunato a unirsi alle preghiere. Poi, al momento di lasciarlo e di benedirlo, si chinò a baciare la piaga purulenta.

Il giorno dopo il cerusico, giunto con gli stru­menti e l’assistente, dapprima incredulo, poi ammi­rato e commosso fino alle lagrime, dovette constatare che la gamba non aveva bisogno di nulla, perché sa­na e agile come prima dell’incidente.

Se gli avevano precluso il campo d’azione agl’in­curabili, don Gaetano ne trovò ben altri. Fondò un convento di suore, la cui disciplina fu ricalcata su quella teatina. In seguito, il convento fu affidato ai cappuccini, per cui le suore si chiamarono e si chia­mano le cappuccine.

 

Un altro convento lo fondò per la riabilitazione delle donne traviate e fu detto delle convertite.

Quasi che non avesse spazio sufficiente all’azione caritativa, don Gaetano entrò a far parte della con­fraternita dei « Bianchi », religiosi che accompagna­vano al patibolo i condannati a morte. Così anche questo pietoso ufficio esercitò, sapendo trovare le pa­role adatte a lenire lo strazio dei condannati e a far loro offrire a Dio il sacrificio della propria vita.

Una piaga sociale assai diffusa allora (a Napoli forse più che altrove) era l’usura. Chi, costretto dal bisogno, chiedeva un prestito, doveva accettare un interesse tanto esoso, per cui finiva, il più delle volte, con l’invischiarsi in una catena di debiti, dalla quale non si risollevava più.

Don Gaetano pensò che tale piaga poteva esser combattuta da un Monte dei Pegni, dove, a garanzia del denaro chiesto e ricevuto, si lasciava un pegno, da ritirare il giorno in cui si restituiva il denaro, con l’aggiunta di un modico interesse. Ma ci sarebbe vo­luto, per realizzare sì utile idea, un capitale di base, che lui e tutto l’Ordine erano ben lungi dal possedere.

Si ricordò del conte Oppido, che anni prima avreb­be voluto lasciarlo erede di tutta la sua fortuna. Lo

ricercò, gli espose il piano, lo trovò consenziente ed entusiasta, pronto a impegnare il patrimonio e tro­vare altri nobili che lo seguissero nell’impresa. Così nacque il Monte dei Pegni a Napoli, che poi si trasformò nel Banco di Napoli.

Questo grande, fondo e diffusissimo istituto non ha mai dimenticato il suo ideatore, a ricordo e a onore del quale, anni fa, regalò alla chiesa di San Paolo Mag­giore (ne parlerò presto) un grandioso organo.

Anche a Napoli erano comparsi gli avamposti del luteranesimo. Tre uomini, colti senza dubbio, ma tra­viati (uno era stato frate, anzi si presentava tuttora co­me frate) percorrevano la città, s’insinuavano nei ri­trovi, scivolavano nelle congreghe, s’intrufolavano nelle famiglie, insinuavano dubbi, interpretavano il Vangelo a modo loro, screditavano uomini e cose del­la Chiesa.

Don Gaetano, che pure era stato sempre schivo e misurato nel parlare, mosso da sacro sdegno, li affron­tò, li confutò, li smentì, svelò tutta la fralezza della loro pseudodottrina e la doppiezza del loro animo. Spuntò insomma le armi nelle loro mani, fino al pun­to da indurli a far fagotto. Così i napoletani, almeno per allora, furono immunizzati contro la predicazione protestante, demolitrice, dissacratrice, inariditrice del­la fede (forse ingenua, ma piena di calore) ereditata dai loro avi.

 

Dinanzi a queste prove di abnegazione, di capacità e di amore, offerte a Napoli da don Gaetano e dalla schiera dei suoi confratelli (altre se ne potrebbero nar­rare, se lo spazio lo consentisse), un po’ alla volta cad­dero le ostilità, le incomprensioni, le noncuranze: si cominciò a parlare ovunque con grande rispetto dei tea­tini e, quanto al loro capo, c’era già chi lo chiamava santo.

La prova del mutato atteggiamento si ebbe quando divenne troppo piccola la prima chiesa costruita per i teatini, cioè Santa Maria della Stalletta. Questo nome lo aveva voluto proprio don Gaetano, sia perché in quel luogo, in precedenza, c’era una stalla, sia, e soprattutto, per ricordare agli uomini, spesso immemori, che il loro Salvatore era nato in una stalla. Nella ricerca di una chiesa più grande, affinché l’apostolato teatino servisse a un maggior numero di napoletani, si pensò al magni­fico tempio, proprio nel cuore di Napoli, detto di San Paolo Maggiore, per il ricordo dell’apostolo delle genti, che, giunto a Napoli, proprio in quel posto aveva polverizzato i simulacri di due dei. Ma c’erano varie difficoltà, la più grave delle quali era lo statuto di par­rocchia della chiesa, mentre don Gaetano non voleva assolutamente i vincoli (anche finanziari) che una par­rocchia implica. Si discusse a lungo; alla fine il viceré in persona, grande estimatore dei teatini, intervenne con la sua autorità e recise il nodo: il 28 maggio 1337 i buoni padri ne presero possesso e da allora, ingrandi­tolo, abbellitolo e arricchitolo senza sosta, ne fecero e continuano a farne il centro motore d’una indefessa attività religiosa, caritativa e assistenziale.

 

Splendidi fiori d’un vecchio albero

 

Don Gaetano Thiene invecchia, non tanto per gli anni quanto per il lavoro, le penitenze, le ansie con­nesse alla guida della barca teatina. Sarebbe giunto il momento di concedersi un po’ di sosta, di passare ad altri la soma, anche perché una gamba spesso gli si gonfiava e doveva quasi trascinarla. Invece di diminuire, le responsabilità gli crebbero, perché il nuovo papa (Paolo III) volle a Roma il vescovo Carafa, che quindi non poté più occuparsi dell’Ordine.

Il Nostro avrebbe desiderato ritirarsi nell’ombra e invece i confratelli, ritenendolo insostituibile alla testa dell’Ordine, ve lo rieleggevano. Sentite con quale spirito di sottomissione egli accettava la carica: « Ne soffra l’età, ne patisca l’umiltà, ci scapiti pure il mio interesse spirituale (pensava di doversi preparare alla morte, che presentiva non lontana), ma trionfi l’obbe­dienza impostami, nella quale riconosco la voce e la volontà di Dio ».

La chiamata del Carafa a Roma (giustificata con la necessità di lavorare assiduamente agli atti preparatori del Concilio di Trento) faceva presagire la nomina a Cardinale.

 

Questa giunse all’improvviso, nel 1337, mentre l’interessato stava seriamente ammalato. Era ospite del convento dei domenicani, e quivi confluivano anche molti teatini, a cominciare da don Gaetano, perché era scaduto il triennio della prepositura e bisognava pro­cedere alle nuove nomine.

Don Gaetano stava nella cella (proprio una cella conventuale), ove, su un lettuccio, giaceva l’ammalato, allorché giunse un messo del Vaticano recante la berretta cardinalizia, segno dell’avvenuta nomina. La procedura insolita si giustificava col fatto della malattia dell’insignito, che si diceva fosse addirittura in punto di morte.

Don Gaetano, vista la berretta, s’immalinconì, per­ché quella nomina contrastava con i principi di umiltà e di povertà posti a base dell’Ordine; perciò fece se­gno al Carafa di rifiutarla. Ma quello, pensando che il gesto avrebbe avuto il significato di disobbedienza e d’ingratitudine verso il papa, la trattenne. Ma dove posarla, se la cella era nuda al punto che non c’era non dico un mobile, ma neppure un tavolino? Gli occhi del nuovo cardinale si posarono su un chiodo della pa­rete. Il messo capì e ci sospese quella berretta, che per tanti prelati era (e sicuramente è) il miraggio di tutta la vita.

Il fatto conferma che nel Carafa, il quale aveva con­servato (pur non avendone l’ufficio) la dignità vesco­vile, la povertà teatina era stata sempre seguita.

Il neo cardinale si riebbe dalla malattia e s’impe­gnò a fondo nelle nuove funzioni. La riforma della Chiesa era il suo assillo: non siamo ancora alle conclu­sioni del Concilio di Trento, ma fra le varie norme severe, che Paolo III promulgò, ci fu quella che il ve­scovo dovesse avere un solo vescovato e risiederci. Per tale norma si batté proprio il Carafa, che ricordava l’impossibilità di far bene il dover suo, quand’era, contemporaneamente, vescovo di Chieti, arcivescovo di Brindisi e con incarichi nella Curia romana.

Sempre battagliero e sempre infervorato nel lavo­ro, il Carafa, qualunque fosse il campo d’azione riser­vatogli. Ma è ovvio che ora, da cardinale, pur restando amico e protettore dei teatini, non ne potrà portare più l’abito, né avere, nell’Ordine, alcuna carica. Il che significa aggravio di lavoro e responsabilità per don Gaetano, costretto ad alterni soggiorni fra Venezia e Napoli.

Poiché lo spazio limitato non consente di seguirlo di volta in volta in questi spostamenti, restringeremo la narrazione a episodi più significativi, che mettono il suggello a tutta una vita di silenzioso eroismo, di esal­tante osservanza della povertà, di sublimazione dell’in­segnamento evangelico.

La carità dei napoletani verso il convento teatino era costante, ma non legata certo ai giorni e alle ore. Poteva accadere che un giorno ne giungesse più del necessario (e ne godevano i poveri) e che qualche giorno i poveri in assoluto fossero gli stessi teatini. Ecco quel che successe proprio in uno di tali giorni.

L’addetto alla cucina, non avendo nulla da cuci­nare, si occupa di altre cose; ma l’orecchio è sempre vi­gile al campanello, perché attende con fiducia l’arrivo di una qualche elemosina.

 

Malauguratamente, la mattinata passa con il cam­panello alla porta d’ingresso che si è ammutolito. Or­mai non poteva oltre attendere a comunicare l’incre­sciosa situazione al superiore, il quale, fattosi pensie­roso, dopo un po’ disse: — Quand’è l’ora, suona la campana della mensa.

Fu suonata, i fratelli si riunirono intorno al ta­volo, spoglio anche del consueto povero vasellame. Non ci sono pervenute le parole che, nella penosa cir­costanza, fiorirono sul labbro di don Gaetano, inneg­gianti alla benefica povertà e alla beneficienza del Si­gnore, che sola sa quando dev’essere larga e quando ri­stretta. Ma gli uomini che, essendo miopi, vedono il dono e non la mano che lo largisce, si rallegrano nei momenti di abbondanza e si rabbuiano in quelli di ri­strettezza.

Non sappiamo dunque le precise parole dette da don Gaetano, ma dovettero essere in tutto degne del­la sua radicata sincerità e umiltà, se furono subito pre­miate: trillò il campanello, il cuciniere corse ad apri­re e si ritrovò sulle braccia (non si seppe mai da chi: lui disse che fuori della porta non c’era nessuno) una cesta di pane bianco, bianchissimo, soffice, profumato, saporito, come nessuno ne aveva mai mangiato, né ne mangiò mai in apresso.

Pane degli angeli, lo definirono; ma ciascun con­fratello, in cuor suo, disse che quell’angelo aveva un nome: san Gaetano Thiene.

Nel Nostro, l’umiltà, frutto di un continuo studio e di un rigoroso controllo, era profondissima; ma,

al momento opportuno, egli sapeva erigersi in dignità e autorità, che imponevano rispetto e sottomissione. Don Gaetano aveva sempre voluto (ed era uno dei segni palesi di differenziazione dai molti preti pi­gri, svogliati e mestieranti, che si servivano della Chiesa, anziché servirla) che il sacerdote celebrasse ogni giorno la messa. Aveva la radicata convinzione che il rinnovato sacrificio di Cristo sull’altare si sa­rebbe cambiato in grazia per lo spirito sia del cele­brante che per quello di tutti i partecipanti. Educati a questa scuola, i teatini celebravano ogni giorno la messa, previa raccolta e meditata preparazione. Detta messa, per il raccoglimento, l’ordine, la precisione del­l’orario e del linguaggio, era come un sacro spettacolo, che il popolo apprezzava e dal quale traeva profitto spirituale.

Un giorno don Gaetano seppe che il Carafa, preso dai gravi impegni del suo ufficio di cardinale, non aven­do il tempo necessario a prepararsi degnamente alla messa, di tanto in tanto finiva col saltare la celebra­zione. La notizia arrecò tanto dolore al Nostro, che decise di partire alla volta di Roma, per richiamare il Carafa al dovere di affermare e confermare ogni giorno la sacralità del suo ministero, celebrando il sacrificio della messa. Si badi che lui, don Gaetano, era soltanto un prete, che l’altro era cardinale, cioè un « cardine della Chiesa », e che in questa sua nuova posizione il legame con l’Ordine Teatino sopravviveva solo sul pia­no dell’affetto.

Giunto che fu dinanzi al cardinale, gli parlò pres­sappoco così: — Credete di essere umile, disertando l’altare, perché ad esso non vi siete degnamente pre­parato. Ma è un’umiltà fallace e colpevole, togliendo essa l’onore a Dio, la gloria ai santi, la forza alla Chie­sa. Inoltre priva i vivi e i morti, e voi soprattutto, dei grandi tesori, che il sacrificio divino assicura.

— Se vi siete tanto adoperato con me, affinché i secolari si cibassero frequentemente del cibo eucari­stico, come potete ora rimanerne digiuno voi?

— Tornate dunque al santo costume, prescritto nelle nostre leggi, di sacrificare ogni giorno l’agnello immacolato di Dio e di cibarsi delle Sue saporitissime carni.

Il Carafa, che anche da vecchio serbava il carattere fiero e impetuoso che gli abbiamo conosciuto, dinanzi a don Gaetano abbassò la testa e promise di trovare, a ogni costo, il tempo di prepararsi alla messa e di celebrarla quotidianamente, col raccoglimento, la com­postezza e la consapevolezza appresi alla scuola del maestro.

Si abbracciarono e si lasciarono. Don Gaetano, do­po il riposo di una sola notte, si rimise in cammino alla volta di Napoli. Che gl’importava del viaggio mas­sacrante Napoli-Roma-Napoli, se il suo diletto figlio, confratello e ora tanto superiore, gli aveva fatto la grande promessa di celebrare ogni giorno il divino sa­crificio?

Per uno spostamento da Venezia a Napoli, don Gae­tano aveva preso posto su una nave, che nei primi giorni filò liscia e tranquilla sotto il cielo sereno. Ma, a metà viaggio, la navigazione, da riposante che era, divenne tragica, perché, nel giro di pochi mi­nuti, era scoppiata la tempesta.

Docili ai comandi del provetto capitano, i ma­rinai fecero tutto quanto era umanamente possibile, senonché l’impeto degli elementi scatenati pareva ri­dersi dei loro sforzi, per cui, assai presto, equipaggio e passeggeri si videro preda delle onde gigantesche. Molti, con gli occhi sbarrati, si strinsero intorno al­l’unico prete, uno sconosciuto, chiedendogli l’asso­luzione. No — disse don Gaetano — voi vivrete per servire Dio e per sostenere le vostre famiglie, per­ché questo agnello immacolato vi salverà.

Aveva tratto dal petto un disco di cera (allora molto diffuso) con impresso un Agnus Dei e, tenen­dolo in alto, continuò:

— Figli e fratelli, come io getterò in mare que­sto Agnus Dei, che toglie i peccati del mondo, get­tate anche voi, sinceramente pentiti, i peccati, dei quali vi siete macchiati, e vi assicuro che la tempe­sta cesserà.

Quei visi, da terrorizzati che erano, si distesero nella fiducia del miracolo: pregarono, invocarono, confessarono, promisero, mentre don Gaetano, con la maestà con la quale di solito sollevava l’ostia consa­crata, buttava in mare il dischetto dell’Agnus Dei.

Come per incanto, la tempesta si placò, il sole tor­nò a splendere e don Gaetano corse pericolo di es­sere soffocato dagli abbracci e dai ringraziamenti di quell’umanità, che tornava alla vita, dopo aver visto in faccia la morte. Quando poté parlare, don Gaeta­no disse: — Non ringraziate me; sono un peccatore come voi e più di voi, ringraziamo Dio, adoriamolo come merita, serviamolo nei pensieri e nelle opere.

 

Muore l’uomo, nasce il santo

 

Gaetano Thiene aveva vinto la sua battaglia in Napoli: un po’ per volta, le iniziali ostilità e preven­zioni avevano ceduto il posto all’aperto riconoscimen­to dei suoi alti meriti. Molti già io consideravano e lo chiamavano santo, la qual cosa, per uno come il No­stro, che faceva di tutto per passare inosservato, era un’autentica sofferenza. Così si spiega che considerò giornata di gioia grande quella in cui fu esonerato dalla carica di preposto dell’Ordine, che passò al de­gnissimo don Giovanni Marinoni.

Don Gaetano poté così dedicarsi maggiormente alle attività religiose nell’interno della chiesa, ma adempiva pure, con estrema naturalezza, a mansioni assai più umili, come lo spazzare la casa e fare il bu­cato. Caduto il veto a occuparsi dell’ospedale degl’in­curabili, quello divenne il luogo dove, il più a lungo possibile, s’intratteneva. Per far che? tutto, anche i servizi più sgradevoli. Così, alla fine della vita, tor­nava alle origini: servire i bisognosi con estrema sem­plicità, quasi fosse un onore concessogli dal buon Dio.

L’ora del giusto riposo, a chi tanto bene aveva sparso in vita, non era lontana; ma prima di toccarla, il santo uomo dové bere un calice di amarezza. E quel che è più triste è che esso gli proveniva, sia pure in via indiretta, dalla riforma della Chiesa, tanto bra­mata e dal cardinale Carafa, dilettissimo fra tutti i suoi figli.

Con l’intento di difendere la religione cattolica dalle deviazioni eretiche, era stata istituita la Santa Inquisizione. Purtroppo, in Ispagna essa aveva preso subito una coloritura politica, nel senso che quel go­verno, sotto il mantello della difesa della fede, se ne serviva per perseguitare, e duramente, i propri av­versari.

Don Pedro di Toledo, che governava a Napoli in nome dell’imperatore, chiese un tribunale dell’Inqui­sizione. Ce n’era bisogno dal punto di vista di una possibile deviazione religiosa? O voleva munirsi, con la scusa degli eretici, di un nuovo strumento di tiran­nide politica? Può esser vera l’una e l’altra cosa. Di certo sappiamo che chiese a Roma un tribunale in­quisitorio e che il cardinale Carafa, che in quell’epo­ca ne stava a capo, glielo concesse.

A Napoli se ne risentirono tutti: gl’intellettuali vi videro un mezzo per soffocare quel poco di libertà di cui godevano; i nobili temettero per i loro privilegi; il clero vide in pericolo le troppe immunità di cui si pasceva, e il popolino, eccitato sotto sotto, gridò al sopruso, all’ingiustizia, all’affamamento e ad altre cose ancora. In una situazione così tesa, bastò una scintilla per dar fuoco alla sommossa.

Un delinquente comune, mentr’era condotto in carcere; vedendo un gruppo di giovani di civilissima condizione, ne invocò l’aiuto, gridando che era vitti­ma innocente del tribunale inquisitorio. Quelli, ge­nerosi e impulsivi come è normale alla loro età, si buttarono sui carcerieri e fecero fuggire l’imprigiona­to. Il popolino acclamò il gesto, ma il viceré fu di tutt’altro avviso: i giovani liberatori furono rintrac­ciati e tre di essi mandati al patibolo. Così comincia­rono i tumulti, che di giorno in giorno e di ora in ora diventavano più frequenti e più sanguinosi. Il vicerè aveva le truppe armate; ma il popolo, animato da rab­bia repressa, aveva una grande mobilità, l’astuzia delle fughe e dei ritorni improvvisi, le barricate e la solida­rietà di altro popolo. Nessuno dei due contendenti scherzava e le strade s’empivano di morti.

Oh, il dolore di don Gaetano nel vedere insan­guinate le strade della sua amata Napoli ed esacer­bati i cuori del diletto popolo, già così mite e ben di­sposto alle pratiche religiose. Invecchiato innanzi tem­po, malandato in salute, con la gamba dolorante, il santo uomo, mentre invocava l’intervento del Signo­re, si adoperava pure presso. i contendenti, agitando al di sopra delle mischie il crocifisso, e dicendo calde pa­role di pace, di tolleranza, di accettazione. Corse an­che dal viceré, chiedendogli un gesto di clemenza per distendere gli animi sovreccitati. Ma tutto riusciva inu­tile: se la lotta perdeva d’ardore dov’egli compariva, si accendeva più furibonda in cento altri punti. Gli spa­gnoli sparavano; il popolo fuggiva, ma ricompariva poco appresso ora da questo, ora da quel rione o vicolo.

Straziato nell’animo, don Gaetano si senti venir meno le già debilitate forze fisiche. Si distese sul giaci­glio, che era di nude tavole, e si sottomise di buon gra­do ai rimedi proposti dai medici, pur sorridendone, perché egli solo sapeva il giorno della morte (e lo disse agli intimi). Ad essa si preparava con ardenti preghiere, così come pregava perché la guerriglia fratricida ces­sasse.

Il primo medico accorso disse che era inumano lasciarlo sulle nude tavole. Subito fu procurato un ma­terasso; ma, nel vederlo, l’eletto uomo, già avviato alla santità (tutto dolorante nelle membra, ma lucidis­simo nello spirito) lo respinse con queste parole:

— A me, peccatore bisognoso di far tanta peni­tenza si vuol dare un letto morbido e agiato? Al mio vilissimo corpo si vogliono offrire carezze e delizie? Non sia mai vero: io devo e voglio morire in cenere e cilicio (che, in realtà, aveva ancora indosso).

— Le carezze e i buoni trattamenti siano riser­vati all’anima creata a immagine di Dio e non al corpo vile, impastato di polvere e di fango. Non può spe­rarsi il paradiso, senza penitenza.

Questi e altri consimili furono gli ultimi voleri e insegnamenti di Gaetano Thiene, che conchiuse l’ini­mitabile esistenza la sera del 7 agosto 1547.

Sin dagli anni giovanili, quando (specie alla sua epoca) nobiltà di casato e ricchezza di denaro si tene­vano in alto pregio, egli le aveva disdegnate. Ma cin­quant’anni di indefesso apostolato in tutti i campi (della cultura, della povertà, della carità, della difesa della verità della fede, del prestigio del sacerdozio) gli avevano conferito una nuova ricchezza (quella degli spregiatori del denaro) e un nuovo fasto nobiliare inte­riore, scaturito (ma gli uomini volgari non lo vedono) dall’essersi fatto volontario servo degli ammalati con piaghe ripugnanti. Questa ricchezza e questa nobiltà, raggiunte da Gaetano Thiene con un sacrificio cinquan­tennale (oscuro alle masse, ma duro e pur gioioso per lui) ha solo un nome: santità. La Chiesa, che in queste cose procede con meditata lentezza, gliela riconobbe molto più tardi (nel 1671); ma il popolo, che parlava di lui come d’un santo mentr’era ancora in vita, io ve­nerò come tale appena spirato, perché esso popolo fu testimone e protagonista insieme di questo nuovo mi­racolo: sparsasi la voce per tutta Napoli che il benefat­tore dei più miseri, il consolatore di ogni afflitto, il di­fensore (con l’esempio e non col tribunale) della vera fede, era morto, cessarono, come per incanto, i com­battimenti. Quegli stessi uomini, che fino allora aveva­no aggredito, inveito e ucciso, si prostrarono davanti la lacrimata salma e deposero ogni rancore. I napole­tani, rendendo onore al loro nuovo grande santo, tornarono alla pace, al lavoro, alla fraternità; tornarono a credere nella verità immortale (che tutte le verità compendia) sempre ripetuta da san Gaetano: « Ama­tevi gli uni gli altri, come io, Cristo, ho amato voi ».