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San Luigi Scrosoppi
Tratto
dal libro: “Beato Luigi Scrosoppi” a cura delle Suore della Provvidenza
Due famiglie e una tradizione
P.
Luigi nacque da ottimi ceppi: una delle più grandi grazie che possa
capitare a chi fiorisce su questa misera terra. Possiamo risalire ai suoi due
nonni, il materno e il paterno.
Il primo, Giovanni Battista Lazzarini, era un agiato commerciante. Ma
quel che più conta era uomo di salda fede. Una fede di vive tonalità
francescane. Nato in Borgo Grazzano di Udine, aveva frequentato fin da bambino
la chiesa di S. Francesco della Vigna, ora scomparsa. Quella chiesa era quasi un
santuario mariano, votato soprattutto al culto dell'Immacolata Concezione. In
tale spirito crebbe la figlia Antonia, madre di Luigi. Ma, alla pietà
francescana e alla tenerezza verso l'Immacolata, le vicende le aggiunsero
un'altra forza: quella del dolore cristiano. Andata sposa, a Malborghetto, di
un nobile padrone di ferriere, Francesco Filaferro, dovette fuggire dinanzi
alle orde di Massena e perdette non solo i beni, ma il secondo figlioletto,
Giovanni Battista, e poco dopo, il marito, ridottosi a fare il commerciante di
salumi. Di mezzo a tante prove e in quei tempi turbinosi, la fede d'altri avrebbe
vacillato; la sua si irrobustì. E si può ben dire che Luigi, da parte materna,
fu figlio della fede saggiata al fuoco del dolore.
C'era in Udine un altro focolare di intenso fervore
religioso. Era l'oratorio del Crocefisso o del Cristo, una compagnia laicale
di gloriose tradizioni spirituali, che s'adunava nella chiesetta omonima, di
faccia alla duecentesca chiesa di S. Francesco.
A quell'oratorio era iscritto fin da giovane il nonno
paterno, Giuseppe Scrosoppi; e poco prima che egli morisse, nel 1801, vi si
iscrissero i due figli Domenico e Giuseppe. Anzi l'iscrizione di Domenico, il
padre di Luigi, precedette di pochi mesi il suo matrimonio con Antonia
Lazzarini ved. Filaferro.
Entrambi i ceppi quindi suggevano linfa dall'humus
francescano: quello s'espandeva al sorriso dell'Immacolata; questo si
irrobustiva del sangue grondante dalla Croce. Tali motivi ed indirizzi
spirituali furono appena un germe, nei due nonni e nella mamma e nel papà, di
quella fioritura che quasi esplose in Luigi.
Un
fratello di fuoco
Fu davvero
un triste giorno dei Morti il 2 novembre 1800 per mamma Antonia Lazzarini che
il 3 aprile aveva perso la mamma sua Angela Dossi, e quel dì si recava a
piangere sul tumulo ancora smosso del marito. Ormai non le restava che il primo
figliolo, Carlo, allora quattordicenne. Attraverso la Valcanale riprese la via
verso il Friuli, verso la natia Udine.
Che fare del giovane Carlo?
Qualcuno consigliò di avviarlo al commercio. Mamma
Antonia pregò ardentemente che si desse a Dio. C'è qualcosa di profondo in
questa preghiera. Vi si può certamente intravvedere la fede della pia donna,
irrobustita anziché fiaccata dal dolore.
La preghiera fu esaudita. Poiché, con sorpresa di
tutti, Carlo disse - non l'aveva mai detto prima - che voleva farsi sacerdote.
Aveva già fatto i primi studi a Klagenfurt; li continuò nel seminario di
Udine.
Quanti
conobbero il futuro p. Carlo, sono concordi nell'affermare, oltre alla maschia
intelligenza, alla soda pietà ed alle singolari doti di direttore di
spirituale, un'eccezionale signorilità di modi - ma nascose sempre la nativa
nobiltà - ed una effusa affabilità del tratto. Eppure, sotto tanta dolcezza
c'era una tempra ferrea, che si addiceva bene a chi portava il nome del « Santo
di ferro»: S. Carlo Borromeo.
Quella tempra la dimostrò in una scelta che ha quasi
il sapore di una sfida. La Congregazione dei Filippini in Udine era già sotto
la minaccia della soppressione, quando il 2 settembre 1806 Carlo chiese di
esservi ammesso. Ed il 24 settembre 1809 veniva ordinato sacerdote da quel
mons. Baldassare Rasponi, arcivescovo di Udine, che qualche mese prima
Napoleone dal campo di St. Pòlten presso Vienna aveva comandato di fucilare;
veniva ordinato sacerdote mentre Pio VII da oltre tre mesi era trascinato
prigioniero e mentre la chiesa del suo battesimo, in Malborghetto, giaceva in
rovina per il bombardamento francese del 17 maggio di quell'anno.
Luigino Scrosoppi aveva poco più di cinque anni quando
il fratellastro celebrò la prima Messa, una messa su cui aleggiavano il ricordo
delle catacombe e non improbabili promesse di catene e di martirio.
P. Carlo era per natura un trascinatore. Accendeva quanti
lo avvicinavano. Non di fuochi fatui, ma di una fiamma che attingeva l'intimo
dell'anima e bruciava tutta la vita. Ecco perché p. Luigi vivrà sempre al suo
fianco e quasi nella sua ombra. Oltre al ceppo turgido di fede egli ebbe il
dono d'un fratello di fuoco.
In realtà p. Carlo fu al centro anche della nuova
famiglia.
Quando nel 1810 venne soppressa la Congregazione Filippina,
ma salvata al culto la chiesa di S. Maria Maddalena (ora palazzo delle Poste),
p. Carlo restò apostolo di spiritualità in quella chiesa. E per consentirgli
un più facile servizio, il padrigno Domenico comperò nel 1811 una casa lì
vicino. Così Luigino frequentò più che mai quel tempio e « s'aggirava
innocente e pio » tra i venerandi Padri che lo officiavano. Là fece la prima Comunione;
ed il suo maestro, la sua guida, il suo angelo fu appunto p. Carlo.
Adolescente
Quali furono gli avvenimenti che colpirono di più
Luigi adolescente? Molti non li conosceremo mai. La vita di ciascuno è un
trapunto misterioso ed ineffabile. Alcuni però sì.
Forse la provvidenziale elasticità dell'anima
fanciullesca non gli consentì di percepirne gran che. Né il clangore delle armi
austriache e napoleoniche discorrenti nel 1809 per il Friuli, né l'orrore per
la prigionia papale dovettero arrecargli una consapevole ferita; ne sentì
certo parlare in casa e gli gravarono sopra come nubi cupe e misteriose. Ma con
l'intuizione propria dei fanciulli capì che il fratello saliva l'altare di
mezzo alle spine e non ne aveva paura.
Più tardi, invece, non poté non avvertire - nel 1813,
a nove anni - che qualcosa di importante succedeva con la caduta di Napoleone.
E più ancora quando nel 1814, in casa Scrosoppi, si ripercosse lo scampanio
trionfale di tutti i campanili per il ritorno di Pio VII in Roma. Pareva di
toccare con mano la verità delle parole di Gesù: - Le potenze dell'inferno non
prevarranno.
Allora in Friuli, come ovunque, ci fu un improvviso e
consolante risveglio religioso.
Pareva di essere tornati ad un'epoca d'oro per la
religione. Il Friuli cristiano aveva conosciuto tempi splendidi sotto i tre
ultimi patriarchi d'Aquileia. Poi il cielo s'era offuscato. Soppressione dei
gesuiti, leggi venete oppressive della Chiesa, la rivoluzione francese... I
buoni ne eran rimasti sgomenti: l'empietà e il malcostume eran dilagati
impudenti. Ora pareva di rinascere. Ed il cuore di Luigino sentì certamente,
dalle labbra di padre Carlo, il fremito gioioso della rinascita cristiana.
Ma immediatamente, sino dal 1814, cominciarono anni
di crescente carestia, a cui s'aggiunse nel 1817 un'epidemia di tifo, sino
allora ignoto. Nella primavera di quell'anno non era difficile trovare qualche
poverello - forse un bambino od una bimba - morti per inedia o malattia sotto i
portici della città. Gli affamati scendevano in tristi processioni dai monti.
Nel vecchio seminario i fanciulli mendicanti venivan raccolti a centinaia. Non
si parlava che di fame e di morte... Un giorno lo stesso p. Carlo tornò a casa
barcollante di febbre. Poiché sapeva il tedesco, gli era stata affidata la cura
spirituale degli ammalati nell'Ospedale Militare. E lui vi si era donato senza
risparmio. Si temette della sua vita. Ma la Provvidenza aveva altri disegni.
Poi cominciò la lunga e difficile convalescenza.
Luigino aveva fatto da poco la prima Comunione.
Si può dire che egli conobbe nello stesso tempo il
Cibo del Cielo e la fame della terra.
Aveva tredici anni. Quale enorme impressione dovette
fare sul suo animo la visione di tanti poverelli, lo spettacolo straziante di
tanti suoi coetanei che si trascinavano per le vie laceri e smunti!
La vista di tante miserie e dell'eroismo fraterno
ebbero un'importanza decisiva su Luigi adolescente. Quale la prova? Tutta la
vita che ne seguì.
Tra i
cedri del Libano
Il giovane
Luigi crebbe tra i cedri del Libano. Dalla casa di via Aquileia di dentro (ora
Vittorio Veneto) una cinquantina di metri lo separavano dalla chiesa di S.
Maria Maddalena, ove continuavano ad esercitare il ministero i soppressi Padri
Filippini.
Lì conobbe sacerdoti eminenti per virtù. Primi fra
tutti il venerando preposito p. Massimo da Brazzacco, che tutta la città considerava
come un vecchio patriarca e p. Gaetano Salomoni, anima ardente di carità, che
aveva fondato la casa delle Derelitte e di cui p. Carlo diventerà il braccio
destro dopo la guarigione.
In seminario, poi, dove si recava per gli studi,
trovava altre anime tutte di Dio. E proprio negli anni difficili dell'adolescenza
e della prima giovinezza, Luigi si aggrappò - è la parola! - ad altri eminenti
ecclesiastici, nelle cui mani erano allora le sorti della diocesi. Basterebbe
ricordare il grande mons. Mattia Capellari, amico del futuro papa Gregorio XVI,
che tenne testa con fierezza apostolica alle pretese giuseppiniste del governo
austriaco. Ad essi succederà, non secondo per virtù e per grandezza sacerdotale,
il cadorino mons. Mariano Darù, il quale amò di fraterno affetto p. Carlo e p.
Luigi.
Tra i coetanei, poi, è forse possibile dimenticare le
tre perle del clero friulano, amici inseparabili di p. Luigi? Don Pietro Benedetti,
coltissimo e pio, fondatore dell'Asilo Infantile; mons. Domenico Someda,
vicario generale, confessore del santo; e don Fantoni, il «dimidium animae
meae» di p. Luigi, saggio e dolcissimo suo collaboratore sino alla morte.
Di mezzo a così santa compagnia la figura di p. Luigi
spicca per due fenomeni singolari. Ci fu un periodo della sua vita, dal 1856 in
poi, che al cospetto di tutta la città egli apparve il centro, l'anima, la
punta di diamante di quel santo manipolo e la chiesa di S. Maria Maddalena da
lui diretta venne ritenuta - e dagli avversari odiata - come la rocca del
sentire cattolico e della più viva spiritualità.
Ed in vita e dopo la morte, benché per dottrina o per
altre doti egli fosse inferiore a quei suoi confratelli, su tutti si elevò
come un faro per la luce della santità.
Una volta di più si avverava quel che ha detto di sé
la Madonna: Iddio guardò alla sua umiltà e compì in lui cose grandi.
Farsi
cappuccino?
P. Carlo cominciò nel 1819 a collaborare con il p.
Gaetano Salomoni nella Casa delle Derelitte e nel 1822 ne assunse
personalmente la direzione.
Luigi diede una mano al fratello in quell'opera santa
sino dal 1826, quand'era ancora diacono, tenendovi lezioni di catechismo o
d'altre materie culturali, specie di astronomia
Consacrato sacerdote il 31 marzo 1827, don Luigi si
dedicò interamente alla Casa delle Derelitte e ne divenne il «frate
cercatore».
Proprio a quest'epoca, (ci fu un momento
significativo della sua vita) intorno al 1830, si riaprì in Udine un convento
dei Cappuccini.
Il nuovo convento era a quattro passi dalla Casa
delle Derelitte. Un po' la vicinanza, un po' la tradizionale inclinazione
francescana derivata dai nonni e dai genitori mossero don Luigi a desiderare di
farsi cappuccino.
Che egli sia stato francescano nel profondo
dell'anima nessun dubbio.
Ma come spiegare quella aspirazione?
Alle anime che si danno generosamente a Dio accade
talvolta di provare una ineffabile insoddisfazione, come se non si fossero date
abbastanza. «Mi sono fatto sacerdote - deve essersi detto don Luigi - per
diventare santo e santificare. Ma, dopo tre anni, chi sono io e che cosa ho
fatto di bene? Non è meglio che mi ritiri in un chiostro per vivere in perfetto
raccoglimento e nella preghiera?».
Non bisogna dimenticare che Luigi non era uomo da far
le cose a mezzo e da cedere a compromessi. Egli viveva gran parte della sua
giornata in mezzo a fanciulle poverissime; ma poi se ne tornava a casa sua, ove
si viveva in discreta agiatezza, come usavan le famiglie della buona
borghesia. Che egli sentisse di stonare un po', e non per colpa sua, è certo.
Appena morirà p. Carlo, s'affretterà a sciogliere casa ed a prendere la via
della totale povertà.
Ma due forti motivi devono essergli parsi voce del
cielo. Proprio allora, ritiratosi il vicedirettore don Bearzi, la Casa delle
Derelitte attraversava una grande crisi. Il fratello era rimasto solo
nell'Opera.
Poco dopo, nel 1831, scoppiava una prima epidemia di
colera. I bisogni aumentavano, le orfanelle si moltiplicavano. «Chiedevan pane
e non c'era chi loro lo spezzasse».
Al gemito dei poveri e sul calvario della Carità p.
Luigi immolò dunque le sue accarezzate aspirazioni ascetiche. Le realizzerà più
tardi, ricostituendo la Congregazione Filippina, senza abbandonare le opere di
bene. Aveva ben detto San Francesco: Pax et Bonum!
Una volta fatta la scelta, e una volta superata - se
così si può dire - la crisi interiore, don Luigi alla Carità si donò anima e
corpo. Come era nella sua indole. Come era nella sua grazia.
Iddio voleva che si dedicasse alla Casa delle
Derelitte?
Ci si metterà senza risparmio.
Nel cuore
i più poveri
P. Carlo, ben superiore a lui per intelligenza e per
esperienza, attendeva a quell'opera da oltre dieci anni. Eppure l'opera
languiva. Non aveva nemmeno una sede propria.
Alle poche fanciulle accolte attendevano due maestre
salariate. La Casa e le maestre eran mantenute dalla libera beneficenza di
alcune pie dame dell'aristocrazia.
Ma si sa come vanno a finire queste cose. I primi
entusiasmi si affievoliscono e l'opera languisce. Era quasi al lumicino
quando don Luigi, pretino di ventisei o ventisette anni, rinunciò al chiostro
per dedicarvisi. Ed ecco che finalmente p. Carlo decide di comperare la casa
ed il fondo annesso; fa stendere un disegno e poi uno ancora più ardito fino a
raggiungere le dimensioni dell'edificio attuale, per quei tempi, imponenti; e
si accinge a rèclutare del personale volontario per farvi la novella
istituzione.
Che cos'era accaduto di nuovo? Nulla, assolutamente
nulla, fuorché la presenza, al suo fianco, del fratello, di diciotto anni più
giovane, ma motore e facchino dei nuovi ardimenti.
P.
Luigi si dedicò alla Casa delle Derelitte perché essa c'era già ed aveva
bisogno di essere salvata e potenziata. Ma scelta la via della carità, si sarebbe
ugualmente accinto ad altre imprese.
Ed
in seguito non escluderà alcuna istituzione caritativa dai fini della sua
congregazione, tanto che Roma lo richiamerà ad una delimitazione. Per lui la
carità abbracciava tutto. Bastava solo che si trattasse di opere per i poveri
e di opere povere, magari rifiutate da altri.
Povere
le suore, poveri gli assistiti: poveri che aiutano i poveri: questo il suo
ideale ed il suo programma.
Il
suo realismo gli faceva intravedere che il cammino della carità è spinoso ed
amaro; del resto fece presto a sperimentarlo, quando nelle cerche che faceva
per la città o per il Friuli non gli vennero risparmiati i motteggi, né persino
gli schiaffi, o gli aizzarono contro i cani.
Nessun
romanticismo, dunque, neppure di tono spirituale. Se più tardi farà suo il
motto di S. Paolo della Croce:
«Tacere,
operare, patire», l'aveva messo in pratica fin dal principio, al servizio della
Carità.
Che
cosa dunque lo muoveva e lo sorreggeva? Gesù, un amore sconfinato a Gesù! Egli
prese sul serio le parole del Vangelo: - Ero affamato e mi avete saziato...,
ero ignudo e mi avete rivestito... Vide realmente Gesù nei poveri, lo vide
nelle orfanelle. E tale visione lo ripagava dell'amaro sale di elemosine negate
o male offerte e del duro calle di scale salite e discese forse solo per
cogliere uno scherno.
Le
imprevedibili esigenze di Dio
E'
naturale che i genitori desiderino la continuazione della casata. Per questo si
fa festa alla nascita di un maschietto.
In
casa Scrosoppi non ci furono tali, pur legittime, preoccupazioni. Dei tre figli
tutti maschi, l'uno del primo matrimonio, gli altri del secondo, i genitori non
se ne tennero alcuno per sé. Li donarono tutti al Signore. Mamma Antonia ne
fu certamente entusiasta: aveva pregato per la vocazione di Carlo e vide con
gioia fiorire le vocazioni di Giovanni Battista e di Luigi. Ma nemmeno il
signor Domenico, a quanto sappiamo, fece alcuna obiezione. Anzi, ne fu felice.
Si
fecero dunque preti. Ma quali preti?
P.
Carlo s'era iscritto alla Congregazione Filippina. Ed era regola di tale
congregazione che i suoi membri esercitassero il ministero sacerdotale gratis
et amore Dei.
E
p. Luigi si mise sulla stessa via.
Anzi,
dopo che entrambi s'eran gettati a capofitto nelle opere di carità, quei
benedetti figlioli non solo non portavano nulla in casa, né riuscivano a mantenersi
con le loro dotazioni, ma dalla casa attingevano a larghe mani.
Domenico
Scrosoppì s'era messo vicino una discreta fortuna. E’ del tutto naturale, in
simili casi, la tendenza a salire ancora, il desiderio che i figli aumentino
il lustro e lo scrigno della famiglia. Invece no. P. Carlo e don Luigi si buttano
a quel sacrificato lavoro tra i poveri, che promette soltanto di consumare le
sostanze accumulate con tanta fatica.
Solo
don Giovanni Battista prenderà una strada più brillante, sino a diventare
arciprete di Sacile.
Ma
fu don Luigi che si buttò dietro le spalle ogni riguardo per il secolo, che
rifiutò ogni vanità, che amò scendere piuttosto che salire. Si comportò in modo
che la sua vita divenne una santa sfida contro il decoro borghese della classe
sociale a cui apparteneva. E chissà quanti avranno scosso il capo, quanti
avranno detto a mamma Antonia: «Quel suo figliuolo esagera. Non è conveniente
alla sua condizione». Chissà quanti avranno pensato che fosse un po' tocco.
Immaginatelo
nelle questue a cui si è accennato. Un prete di famiglia ricca che se ne
va per la città con una bisaccia in spalla, o
spingendo un carrettino a mano; che entra dai pizzicagnoli, dai fornai; che
bussa alle porte delle case per bene. - E’ il figlio di donna Antonia -
sussurra la cameriera della contessa. Immaginatelo seduto a cassetta di uno
sgangherato birroccio andarsene per i paesi a tiro di un asinello. Cose mai
viste prima d'allora!
Persino
mamma Antonia gli avrà detto: «Don Luigi, è proprio necessario fare così? - E
lui, che era testardo nel bene: - Sì, mamma, è necessario».
Non
solo nelle questue mostrò quel suo « scendere », ma in tutta la sua vita, nel
vestire e nel contegno. Le sue ciabatte erano famose. Se gli apprestavano
scarpe nuove, si poteva scommettere che le dava ai poveri. La veste, persino la
veste bella, trovava le spalle di un chierico povero e lui continuava ad
andarsene rimpannucciato alla bell'e meglio. E più tardi, quando visitava gli
ospedali retti dalle sue suore, chiederà per carità un fazzoletto od una camicia,
ma di quelle dei più pezzenti tra i ricoverati.
La
classe sociale, il decoro della condizione, il lustro della famiglia, erano
parole vane per don Luigi! Ben altro lo moveva, ben altro cercava.
I doni più
belli del Signore
Nel
Vangelo la Vergine Santa effonde la sua luce radiosa come segno di riscatto e
di elevazione santificatrice della condizione femminile. E, nel Vangelo, quasi
nessuna donna fa brutta figura. Nemmeno l'adultera, nemmeno la peccatrice di
Magdala. Del resto è ben noto come la donna debba al Cristianesimo la sua
elevazione.
A
centosessantacinque anni dalla fondazione della Casa delle Derelitte si
proclama fin troppo la parità dei sessi. Che differenza da allora!
Le
figlie più povere del popolo, specie nelle città od in certi quartieri della
città, le fanciulle infelici, che, rimaste orfane, cadevano in mani crudeli
come la Cosetta di Victor Hugo, o venivano gettate in balia della strada, erano
sempre tante.
Gli
anni convulsi della rivoluzione francese e delle guerre successive avevano
aggravato la loro condizione. Quelle ragazze parevano irrimediabilmente
condannate.
P.
Luigi si dedicò a questo particolare apostolato tra le povere figlie del popolo
per il realistico dettato delle circostanze e, per il giovane don Luigi, la
salvezza di quelle anime diventò un'autentica crociata.
Per
questo volle la costruzione di una grande casa, che potesse sopperire a tutti i
bisogni. Per questo la porta fu sempre aperta ad accoglierle.
P.
Luigi accoglieva le orfanelle come un «dono della Provvidenza». Così le
considerava e così voleva le accogliessero le bambine e le suore.
Spesso
celava sotto il mantello qualche piccina appena ricevuta e chiedeva alle sue
bambine: - Indovinate che cos’e nascosto qui sotto? E rispondeva da solo: - Un
dono che vi ha inviato il buon Dio.
Quanto
più erano povere ed abbandonate, tanto più si esprimeva la tenerezza
misericordiosa del padre, che offrendole in consegna alle suore, diceva:
questi sono i doni più belli del Signore, trattatele con cure speciali.
Spesso
capitavano alla casa come uccellini sperduti. Un giorno era un bimbetto di sei
anni che accompagnava la sorellina minore fino all'atrio e poi se la dava a
gambe levate.
Ma
chi si specializzò nel portare a p. Luigi quei « doni» fu il parroco di S.
Quirino, il misericordioso mons. Filipponi.
Un
giorno, una mamma, stretta dalla miseria, minacciò di suicidarsi se il parroco
non avesse provveduto alla sua piccola. Il buon parroco, costernato, prese la
bimba e corse di filato dal p. Luigi. Sapeva che non c'era più posto, ma,
raggiunta la camera del Padre, aprì il suo mantello dove teneva nascosta la
piccola.
P.
Luigi e la bimba si guardarono, si sorrisero... e mons. Filipponi se ne andò
felice: quella piccola aveva trovato un padre. Il nuovo lettino venne subito
preparato: era la cesta della biancheria.
La
pedagogia concreta di P. Luigi
Nella
Casa le ragazze ricevevano un’educazione seria. Sarebbero diventate brave madri
di famiglia. O le avrebbe collocate a servizio presso famiglie sicure. Su questo
punto era assai vigile.
Una
volta gli toccò di constatare che una giovane era in pericolo. La ritirò
subito, senza riguardi, benché si trattasse di famiglia dalla quale aveva avuto
benefici. Non occorre dire che tale gelosa tutela gli attirava malignità e
rancori.
Un
giorno entrò in casa un signore adirato e si precipitò subito nel suo studio.
La portinaia lo sentì percuotere a tutto spiano il padre. Forse atterrita,
andò a chiedere aiuto, poiché non vide più uscire quel misterioso personaggio;
ed immaginò che fosse stato il diavolo.
Era
certamente qualcuno alle cui grinfie padre Luigi aveva strappato la preda.
Quando
accorsero da lui: «Non è niente, disse, non è niente». Ed impose il silenzio.
P.
Luigi fu uomo eminentemente pratico e semplice. Non certo privo di cultura né
d’interessi culturali. Ma nel suo apostolato educativo non ricercò squisitezze
teoriche.
Si
interessò anche alle esperienze educative altrui, per es. agli asili dell’Aporti,
alle opere delle Canossiane. Tuttavia gli bastarono poche linee direttive. E
poi un acuto discernimento dei cuori di cui fu eccezionalmente dotato, un
grande buon senso ed una mano forte, unita a paterna dolcezza.
Don
Luigi ebbe a cuore, per prima cosa, di nutrire meglio quelle figliole, che
capitavano macilente e rachitiche. Voleva che crescessero sane e forti.
Un
altro punto che gli stette sommamente a cuore fu di farle laboriose. A quel
tempo era in vigore la coltivazione dei bachi. Organizzò, dunque, una colonia
agricola fitta di gelsi fuori porta Ronchi; e costruì una bigattiera ed una piccola
filanda nella casa. E poi un laboratorio per la confezione di guanti, calze,
maglie. Ma soprattutto di taglio, cucito e di ricamo, poiché sarebbero state
arti necessarie in qualunque posizione le orfanelle si fossero trovate nella
vita.
Quanto
all'istruzione elementare non era, in quei tempi, generale e obbligatoria. P.
Luigi, tuttavia, la introdusse nel programma della sua casa ed egli stesso si occuperà
delle bambine più limitate perché imparassero a leggere e a scrivere.
Nella
formazione del carattere, p. Luigi non ammetteva né finzione né malizia; sapeva
capire invece le ragazze vivaci, o magari birichine, purché fossero schiette
ed aperte; anzi in qualche modo le preferiva.
Naturalmente,
dava la massima importanza ad una solida formazione religiosa.
S’intuisce
chiaramente il «tipo» di ragazza che p. Luigi voleva uscisse dal suo istituto:
sana, operosa, sincera, onesta. Senza arabeschi preziosi, ma capace di essere
la « donna forte » lodata dalla scrittura.
Le prime
collaboratrici
Per
dirigere le orfanelle, p. Carlo e p. Luigi reclutarono alcune buone ragazze,
per lo più sartine. Gente alla buona, ma di sicuro spirito di sacrificio e di buon
gomito, che sapessero tirar su buone massaie e brave domestiche.
Naturalmente
le più scelte, le più fini, le chiamò p. Carlo. Ma fu p. Luigi che reclutò le
due più umili.
Una
fu Orsola Baldassi da Buia.
Don
Luigi se ne andava per i borghi di quella grossa pieve, forse alla questua di
legname per la nuova costruzione oppure di granoturco, quando alcuni screanzati
presero a molestarlo seriamente. La Orsola, commossa dall'umiltà di quel
pretino, rimbrottò quei villani, prese lei le briglie del somarello, e la
cerca continuò tranquilla sotto la sua guida.
Anzi
finì per seguire don Luigi nella sua opera.
L’altra
fu una giovane illegittima, Giovanna Mària. P. Luigi la vide, passando per via,
mentre stava scardassando sulla soglia della casa e la invitò a prestare la sua
opera nella Casa. Ella rispose che le era impossibile - alludeva alla sua
nascita - ma cedette alle insistenze di don Luigi dicendo che avrebbe lavorato
volentieri gratuitamente, per qualche tempo, al servizio delle orfanelle.
Invece rimase in Congregazione.
Per
servire il Signore - pensava don Luigi - ed aiutare i poverelli, nulla di
meglio di chi ha conosciuto la povertà e l'abbandono.
Quando
l'opera assunse una certa stabilità, p. Carlo era incerto sul da farsi.
Prima
tentò di dar rifinitura al gruppo delle Maestre chiamando a guidarlo una suora
Dimessa di nobile casato, suor Giovanna Colloredo. Poi avviò pratiche per
affidare l'Opera ad una congregazione già collaudata, quali le Canossiane o le
Rosminiane. Finì per cedere al fratello minore, che probabilmente gli disse:
Cosa andiamo ad affannarci a destra ed a sinistra? Queste giovani sono alla
buona, ma hanno spirito di sacrificio e si sono immolate per anni. Abbiamo
fiducia in loro! Si perfezioneranno con la grazia di Dio...
E
così il giorno di Natale del 1845 la Congregazione nacque accanto alla culla
del Bambino Gesù.
Gesù vivo
e presente nel povero
Di
p. Luigi verrebbe da dire che fu essenzialmente attivo. Ma sappiamo che aspirò
alla vita raccolta e contemplativa. E se fu instancabile - lo definisce
«operosissimo» un documento della Curia di Udine del 1849 - è altrettanto certo
che visse in perenne unione con Dio, in incessante orazione, tanto assorto
nelle cose celesti da strappare il segno di croce a chi lo vedeva passare.
Alle
suore, con l'esempio e con gli insegnamenti, ispirò uguale amore alla
preghiera, chiese una soda e concentrata vita interiore.
Ma
poiché dovevano dedicarsi ad opere educative, agli ammalati, ai poveri, diede
con la sua consueta semplicità le direttive perché la barchetta dell'anima loro
non incappasse né nella devozione formalistica, che troppo sovente veniva
confusa con la perfezione religiosa, né in quel fare e strafare che tiene
lontano lo spirito dal Cielo e da Gesù.
Un
giorno capitò in convento una postulante tutta per benino, che pareva nata
fatta per esser messa in una nicchia ad adorare. L'accompagnava il papà, che
nel lasciarla baciò la mano a quella sua santa figliola. P. Luigi ne restò
trasecolato. Staremo a vedere - osservò - se la dura a sbatter panni e menar
la scopa. Non durò che un paio di mesi.
Ella
si beava di sospiri devoti ed arricciava il naso al volgare sfacchinare.
Bisognava
lavorare, bisognava attendere agli ammalati. Ma Gesù doveva restare sempre vivo
e presente.
Hai
lavato i piedi agli ammalati? - chiedeva ad una suora alle prime prove in un
ospedale -. Sì, Padre -. E lui ad insistere: - e li hai baciati quei piedi? -.
La suorina se ne stava ammutolita. Facile dirlo, bello il dirlo, ma baciarli in
realtà era una cosa diversa -. No figliola, li devi proprio baciare, perché
sono i piedi di Gesù. Devi vedere Gesù nei tuoi ammalati -. E per rincuorarla
li baciava lui in sua presenza.
I
santi hanno di codeste «esagerazioni»: la verità è che essi prendono le cose
sul serio. E se dicono che c'è Gesù nei poveri, davvero ci vedono Gesù.
Le
suore della prima e della seconda generazione, quelle cresciute all'ombra del
Padre, furono caratterizzate da questo spirito di duplice immolazione interiore
ed esteriore.
Quelle
che non caddero sulla breccia nelle epidemie di colera e di vaiolo - e furono
parecchie - si consumarono presto, quasi bruciate dalla fiamma di carità che
aveva acceso il Padre nel loro cuore.
Nel
mistero di Cristo
L'ascetica
e la formazione spirituale di p. Luigi fu decisamente cristocentrica. E nel
dolce mistero di Cristo dava il primo luogo all'Eucaristia.
Con
l'Eucaristia coltivava il culto del Crocifisso specie nella pia pratica della
Via Crucis che faceva ogni giorno, sempre trascinando le ginocchia sul nudo
pavimento, baciando il suolo ad ogni stazione, levando le braccia aperte nella
contemplazione e nella preghiera.
A
Gesù non poteva non affiancarsi Maria, che egli chiamava sempre la « Mamma».
Che bei mesi di maggio faceva fare nella chiesa di S. Maria Maddalena e nella
cappella delle Derelitte!
Eccezionale
fu inoltre il suo amore, la sua tenerezza per S. Giuseppe. Era il padron di
casa, il Falegname di Nazareth. Una sua statua stava sulla soglia - ci sta
ancora - e p. Luigi le appendeva al collo una borsa quando le cose andavano
male: - San Giuseppe pensaci tu! - Tutti e tre Gesù, Maria, Giuseppe, li
trovava assieme nella casetta di Nazareth, verso la quale ebbe un culto
singolarissimo: fece costruire una chiesetta in Orzano esattamente sul tipo di
essa ed ivi volle essere sepolto.
Tutti
e tre li trovava nella grotta di Betlem. E idealmente presso tale grotta, nel
Natale 1845 volle nascesse finalmente la Congregazione delle Suore della
Provvidenza, che nel 1837 aveva avuto il suo preannuncio.
Umiltà, umiltà, umiltà
La
pietà fu il nutrimento ed il respiro della sua anima. Vera pietà, che fu
matrice di virtù. Di tutte le virtù. Ma di quale anzitutto?
Dell'umiltà.
Qui
p. Luigi affondò l'aratro in se stesso e nelle anime delle suore. Lo affondò
alla S. Filippo Neri.
C'era una suorina che ci teneva ad essere
come un figurino, forse non per istintiva vanità muliebre, ma per un temperamento
nativo. Un giorno il Padre la deve condurre, con un'altra suora, all'ospedale
di Portogruaro. Si sale in carrozza trainata da «Bagalin», il cavallo di casa;
e via per le strade d'allora, sassose e polverose, verso Codroipo; via a guado
sul greto largo del Tagliamento; via attraverso gli acquitrini della Destra.
Immaginarsi come si arrivava malconci, tra scossoni e polvere.
Chissà?
Probabilmente la poverina, prima di entrare in Portogruaro, avrà tentato di
riassettarsi un po'.
P.
Luigi che ti fa? Quando s'è messa benino, le getta sulle spalle la sua vecchia
e stinta mantella e la presenta così alle consorelle.
Ma
fin qui si trattava di umiliazioni che toccavano l'esteriore. P. Luigi voleva
soprattutto l'umiltà interna. A volte pareva persino duro ed eccessivo in
queste prove di umiltà:
lo
provarono suor Elena Zucolli e suor Cecilia Piacentini, entrambe poi superiore
generali. Se agiva così con le suore, l'aveva fatto e lo faceva prima con se
stesso.
P.
Luigi riuscì talmente a nascondersi ed a non farsi calcolare, che alla morte
del fratello p. Carlo non si pensò a lui come erede spirituale dei suoi progetti,
ma a don Pietro Benedetti. Lui era considerato un buon facchino, uno sgobbone,
ma poco di più.
Ne
misureranno le capacità e l'altezza spirituale solo col passar degli anni.
Libertà,
ma per la carità
Rifacciamo
un passo indietro nella storia. Magari alle leggi giurisdizionaliste venete dal
1766 in poi, per le quali la morente Repubblica volle metter mano e naso nelle
cose ecclesiastiche. Oppure rifacciamoci a quella Maria Teresa, imperatrice e
regina, ed al suo bizzarro figliolo Giuseppe II, soprannominato il « re
sagrestano». Od anche a Napoleone, il quale dopo aver in qualche modo
ristabilita la religione cattolica - non certo disinteressatamente - andò a
cercare nel martirologio un San Napoleone martire, ed il 15 agosto, festa
dell'Assunta, ordinò che fosse tenuto il panegirico di quel Santo (cioè di lui
stesso), invece che della Madonna.
Od
anche all'imperatore d'Austria Francesco I, che per quanto si dichiarasse
«SMIRA», cioè « sua maestà imperiale reale apostolica», continuò a fare il
sagrestano poco meno di Giuseppe II.
Si
può ben pensare che i rivolgimenti politici a catena, eserciti che van su e
giù, imperatori e re che si fan cantare Tedeum
nelle chiese, oggi per l'uno doman per l'altro, senza parlare dei papi
trascinati in prigione, si può ben pensare che tutto quel po' po' di roba aveva
ingenerato, verso l'autorità civile, stanchezza nei popoli e diffidenza nel clero.
Ed
era ancor peggio se si guardava alle autorità vicine, agli impiegati locali
governativi, alle cosiddette mezze maniche passate dall'uno all'altro regime,
rimasti lontani e sprezzanti verso la religione e la Chiesa.
A
costoro non pareva vero di poter mettere bastoni fra le ruote alle iniziative
cristiane.
Si
capisce allora perché padre Carlo e p. Luigi volessero la loro opera libera da
intromissioni governative, esente da controlli, capace di muoversi agile e
tranquilla sulle sole ali della fede dei promotori e delle elemosine spontanee
dei buoni cristiani.
Non
era, del resto, tanto il desiderio di non venire imbarazzati da controlli,
quanto la volontà, - su un piano più elevato -, di affermare la solenne
libertà religiosa ed in particolare la gelosa libertà della carità cristiana.
P.
Carlo e p. Luigi battagliarono per essere lasciati liberi nell'esercizio della
carità, sia sotto il governo austriaco che sotto quello italiano.
Purché
Cesare lo lasciasse dare a Dio quel che è di Dio, p. Luigi era pronto a dare a
Cesare quello che gli apparteneva. Ossequio, obbedienza e tasse.
Né
seccò mai Cesare, se non per ottenere la libertà caritativa che gli fu tanto
gelosamente cara. Egli non mendicò aiuti dalle autorità civili, non le assillò
con petizioni. Se gli davan qualcosa, accettava riconoscente; ma non chiedeva.
E
quando con l'assunzione di scuole popolari a Primiero nel Trentino ed in
Cormons nel Goriziano si presentò la necessità di obbedire alle disposizioni
governative austriache e di far conseguire il diploma di maestre ad alcune suore,
il Padre obbedì.
In
conclusione, P. Luigi non chiese mai nulla, ma diede molto alla società, salvò
tante fanciulle dalla rovina e ne fece degli elementi socialmente utili. Quanto
all'aiuto, s'accontentava di quel che la Provvidenza gli mandava attraverso la
carità privata. Soprattutto degli spiccioli che vengono dai meno abbienti.
Perché i ricchi stentano; e se danno, talvolta, e molto, allora sono più i guai
che le gioie.
Sotto il
tiro dei cannoni
P. Luigi fu inizialmente favorevole ai moti risorgimentali. Il suo
senso profondo di giustizia gli fece vedere con gioia, all'inizio, la pacifica
rivoluzione del 1848.- Ad ognuno il suo - dice la gente semplice - e al diavolo
non resta nulla.
Il Friuli era in Italia. Se gli austriaci se ne andavano a casa loro in
santa pace, era una benedizione del Cielo. Non avvenne così. Udine fu
assediata e cominciarono a piovere le cannonate. Cosa fece p. Luigi? Alle
suore, che non avevano mai provato gli orrori della guerra e potevano
legittimamente provarne sgomento, a quelle suore dà l'ordine di recarsi subito
nei centri di raccolta per assistere i feriti. Per incoraggiarle si appende al
collo un'immagine sacra e dice: - La Provvidenza vi assisterà.
Tra le orfanelle c'era una sciancatella. Non la dimentica. La fa portare
in braida e le mette vicino qualcuna delle più coraggiose. E lui è dappertutto
ad incoraggiare a far pregare. Le suore, improvvisate infermiere, si imposero
all'ammirazione di tutta la città; assistettero anche il colonnello austriaco
Carlo Smola, che ebbe una gamba spezzata a porta Aquileia, e serbò poi sempre
una riconoscenza vivissima a quegli angeli di carità. In seguito il movimento risorgimentale
prese la piega che si sa. E p. Luigi stette irremovibilmente con il Papa. Lo
amò ancor più da incompreso e perseguitato che al tempo degli osanna.
Stette col Papa non solo per indefettibile disciplina ecclesiastica,
non solo perché vedeva di quante impurità s'era inquinata la causa nazionale,
ma soprattutto perché - ancora una volta - intese affermare il diritto e la
necessità di una piena libertà all'esercizio del supremo potere religioso della
Chiesa. Non si impicciava né si intendeva di politica o di questioni
giuridiche.
In realtà egli gridava in un mondo di settari e di sordi:
- Lasciate libero Cristo e chi lo rappresenta -.
Senza frontiere
E’ abbastanza naturale che una Congregazione pensi allo sviluppo di se
stessa ed a far fiorire le proprie opere.
P. Luigi non conobbe questi limiti, non li conobbe affatto.
A lui importava che si facesse del bene e tanto bene; che si lavorasse
per la gloria di Gesù e per la salvezza delle anime. Certo attendeva con tutto
impegno alla congregazione delle Suore della Provvidenza ed alle opere che via
via, o lui aveva promosso - Casa delle Derelitte, Casa del Provvedimento o di
S. Zita, Istituto per le sordomute - od altri avevano offerto. Ma non riteneva
che quell’orizzonte gli dovesse essere esclusivo.
Ebbe a cuore la sorte dei vecchi sacerdoti diocesani. Più volte s'era
tentato di fondare per loro un Ospizio, ma senza risultato. Volle mettercisi
anche lui. Ed incaricò un giovane sacerdote, don Luigi Costantini da Cividale,
di acquistare per suo conto una casa a tale scopo. La cosa non riuscì, ma
l'averla sognata basta a dimostrare quanto il suo cuore fosse aperto ad ogni
santa iniziativa.
Nel 1877 si pensò a fondare in Udine un quotidiano locale cattolico. Ce
n'eran tre o quattro di tendenza variamente anticlericale. Nelle note di p.
Luigi si conserva un brandello di carta, in cui di sua mano numerò i caratteri
tipografici di una pagina e le spese necessarie per le agenzie di stampa in
Roma. Il direttore del giornale « Il Cittadino Italiano», alla sua morte, dirà
che egli ne era stato uno dei principali sostenitori.
In mezzo al confusionismo del tempo occorreva rifarsi alla gioventù. Ed
ecco che l'arcivescovo, mons. Casasola, chiama da Venezia don Giovanni Dal
Negro perché fondi un Patronato per i figli del popolo. In seguito verrà
istituito anche il Collegio « Giovanni da Udine » per giovani di famiglie
nobili o borghesi. Per tali opere occorrevano capitali. Uno dei primi a darne
fu p. Luigi. E poi, eccolo lì a firmare cambiali sopra cambiali, quando gli
ingranaggi cominciarono a non funzionare
Si
assumeva perfino gli impegni altrui, purché le opere continuassero.
Tutto di
Gesù e tutto per Gesù
P. Luigi fu di costituzione forte e sana. Tuttavia soffrì di febbri
reumatiche ricorrenti, di erpete, di una piaga ad una gamba, che a tarda età lo
fece talvolta stramazzare a terra. Ma non si curò né volle che alcuno si
curasse del suo «fratello asino». Ci pensava ben lui coi cilici e coi
flagelli...
Né si concesse degli hobby. Che so: dilettarsi di musica, amare la
letteratura o la storia, passare qualche ora nelle uccellande come facevan
tanti... o, quanto meno, far un po' di salotto e conversazione con amici
sacerdoti. Macché! Chiesa e lavoro, lavoro e preghiera, instancabilmente, senza
alcuna parentesi. A parte i viaggi di ispezione e di conforto alle case
lontane, lo si sarebbe trovato al tavolino, a scriver lettere o a tener
l'amministrazione; in quel misero suo « studio» che era piuttosto un bazar,
dove raccoglieva tutto ciò che poteva essere utile, dai chiodi agli spaghi...
Oppure faceva quelle sue bonarie, ma sostanziose ed essenziali
conferenzine alle suore, specie alle novizie, sostituendosi alla Madre Maestra
ammalata. E qui va notato che egli lasciò fare moltissimo al suo diletto don
Fantoni, senz'ombra di gelosia, lieto che le suore considerassero il suo amico
come un papà, felice di starsene lui quasi in ombra. O, naturalmente, lo si
trovava davanti al Santissimo o ginocchioni davanti la Via Crucis. Di un solo
svago si ha notizia. E cioè di accademiole e piccoli trattenimenti che faceva
allestire con cura, specie a carnevale. E vi invitava i benefattori; vi
invitava il papà suo, finché visse, il quale se la godeva un mondo. Ma lui ci
stava un momento e poi si ritirava.
P. Luigi volle essere e fu tutto di Gesù. Tutto il resto lo ignorò: non
ebbe per lui alcuna importanza. Avrebbe potuto ripetere le parole di S. Paolo:
«So una cosa sola, Gesù Cristo, e questi crocifisso».
...ma
sottovoce, in vita e in morte
La sintesi spirituale scrosoppiana è netta e completa se, alla totalità
della dedizione, si unisce quest'altra nota, che qualifica il modo della
dedizione: sottovoce. Non solo senza clamorose manifestazioni, ma con la
precisa volontà di amare e cercare il nascondimento, di passare inosservato,
di venir trascurato e messo da parte.
Nemmeno nella sua vita di pietà amò colpire con manifestazioni
impressionanti dell'interno fervore. Lui voleva una pietà soda, non
appariscente. In questo l'aiutava l'indole regionale friulana, che rifugge
dalle pose e dalle ostentazioni come dalla peste.
Quando le Suore della Provvidenza fecero il solenne ingresso nella casa
di Cormons ai primi del 1866, alla cerimonia p. Luigi non c'era. Vi era stato
alcuni giorni per preparare la casa a puntino. All'inaugurazione, quando avrebbe
fatto figura e attirato gli sguardi e la venerazione di tutti, non volle rimanere.
La vigilia se ne tornò a Udine.
Amava vivere all'ombra - ma proprio all'ombra, nel senso letterale - del
fratello p. Carlo finché questi non volò al cielo nel 1854 e fin sul letto di
morte non vorrà che lo chiamino ‘fondatore’.
Non è rimasto molto di lui nelle tradizioni orali della Congregazione
delle suore. Ma una tradizione fu ed è saldissima: che il Padre amò il nascondimento
ed insegnò ad amarlo. Del resto aveva ben insistito che bisogna operare e
patire; ma in primo luogo aveva messo «tacere». E, diciamo noi, «essere
taciuti».
L'amore al nascondimento, che ne aveva caratterizzato tutta la vita,
rifulse poi nelle sue disposizioni per la propria sepoltura. Se la fece
preparare da vivo nella cappellina di Orzano, modellata sul tipo della Casetta
di Nazareth. Diciamo pure che si volle cautelare e non si fidò né degli amici
né delle suore; chissà quale chiasso avrebbero fatto intorno a lui, pover'uomo.
A chi gli osservava che quel suo proposito non era opportuno, che le sue figlie
e quanti lo ammiravano non avrebbero potuto andare di frequente a pregare sulla
sua tomba, che il posto più adatto era in Udine dove aveva svolto il suo
apostolato, lui rispondeva: - Ma io voglio essere sepolto ad Orzano, nella
quiete e nel silenzio della campagna, proprio perché si dimentichino tutti di
questo misero peccatore. Cosa sono stato io se non un inciampo? E’ bene dunque
che almeno da morto mi mettan fuori dei piedi...
Vien da dire che l'unico avversario della sua glorificazione davanti
agli uomini fu proprio lui. A lui premeva di scomparire perché solo Dio venisse
glorificato.
I prodigi
della Provvidenza
Ci possiamo chiedere se nella vita di p. Luigi non ci siano state
manifestazioni soprannaturali della sua intima e gelosamente custodita santità.
Quest'uomo che mise le mani all'aratro e non si voltò più indietro, quest'uomo
che rinunciò a tutti ed a tutto per il Signore, non ebbe da Dio qualche dono
di quelli coi quali pare crismare le anime sante? Vi accenniamo soltanto.
Dei cosiddetti «prodigi della Provvidenza» l'apostolato di p. Luigi è
assai fiorito sino dai primi tempi.
Cosa s'aveva da fare quando mancava il pane o il companatico o qualche
creditore assillava per essere pagato e soldi non ce n'era? Null'altro che
andare in chiesa a pregare. Pregare S. Gaetano, il santo della fede prodigiosa
nella Provvidenza; pregare S. Giuseppe di cui don Luigi era devotissimo e che
considerava come il sicuro solutore di ogni cosa difficile; pregare la Madonna
che chiamava e faceva chiamare «la mamma». Pregare: ecco il grande segreto dei
miracoli!
Una catena di testimonianze ci narra come egli allora e sempre mandasse
le orfanelle in cappellina a chiedere nei momenti del bisogno; e come le rimandasse,
a grazia ricevuta, a ringraziare.
Ci andava lui stesso, se appena lo poteva. E quando il Signore pareva
metterli alla prova, facendo tardare alquanto la grazia, saliva talvolta sulla
predella dell'altare e bussava alla porticina del tabernacolo.
«Un giorno suor Giovanna andò sul granaio per prendere grano e darlo al
mugnaio; ma non ce n'era. Corse da p. Luigi per dirgli che non c'era più grano.
Il Padre disse: - Va al granaio ed empi i sacchi
E la suora: - Padre, non ce n'è più-.
Ed egli a lei: - Va a vedere e lo troverai
La suora obbedì e vi andò. All'aprire la porta con sua grande meraviglia
ne vide, di grano, in quantità. Empì i sacchi e ne rimase ancora molto».
Un altro episodio lo ascoltiamo dalla bocca stessa di una testimone
oculare: Angela Martinis che visse nell'Istituto di p. Luigi dal 1865 al 1877.
«Un giorno fra gli altri suona mezzodì e tutte ci affrettiamo al
refettorio per il desinare; ma le tavole erano impreparate, perché il cibo
mancava. Che fa allora il nostro buon Padre? Ci chiama a raccolta e con tali
parole ci esorta a pazientare e confidare nella divina Provvidenza che tutte
fummo commosse. Pregammo insieme a lui.
Di lì a pochi minuti ecco arrivare un carro colmo di generi alimentari.
Tosto fu allestito il cibo, che fu abbondante e buono. Pranzato allegramente,
ringraziammo S. Gaetano e si andò in cortile per la ricreazione».
A corto di soldi e di frumento, l'economa va preoccupata dal Padre.
«Va, dice p. Luigi, prendi in granaio tutto il grano che ti serve, la
Provvidenza ci penserà»
La suora obbedisce mentre Egli, dopo aver pregato, nasconde un'immagine
di S. Gaetano sotto il piccolo mucchio di frumento che ancora restava.
Mancavano due mesi al nuovo raccolto, ma la suora poté attingervi ogni
giorno quanto bastava per sfamare tutte e il mucchietto non diminuiva mai.
Il fenomeno cessò quando fu pronto il nuovo raccolto.
Veniva Tita, il capomastro, a chiedere il salario per sé e per i
manovali. Il Padre andava a scuotere la cassetta delle elemosine e gli rispondeva
un eloquente silenzio. - Preghiamo un po' assieme, Tita! -. Quindi tornava a
scuotere la cassetta e tintinnava... tanto quanto occorreva.
Padre Luigi confessò: « Abbiamo avuto momenti duri, ma la Provvidenza
non ci ha mai abbandonato».
Una delle più potenti calamite della divina Provvidenza è quella di
dimenticarsi dei propri bisogni per soccorrere quelli del prossimo. P. Luigi lo
sapeva.
Un giorno capitò alla Casa delle Derelitte un tale a restituirgli un
marengo e suor Strazzolini gli fece la posta, perché ne aveva urgenza per la
casa. Ma quando andò dal Padre, questi nel frattempo aveva dato il marengo a
un poveretto che l'aveva prevenuta. - S'acquieti, madre, le disse -, Iddio
provvederà -. E infatti poco dopo arrivò un inaspettato sussidio per le
orfanelle e per le suore.
Né mancano le guarigioni. Suor Angela Rodaro, superiora all'ospedale di
Trento, guarisce subito dai dolori reumatici e non li prova più, quando il
Padre l'avvolge nel suo stinto mantello.
Suor Filomena sta per morire a Portogruaro. Ma il Padre le dice di no,
perché deve andare a Udine ad attendere ai bachi. E guarisce.
Profezie? Suor Orsola Del Medico ritorna a Udine con suor Filomena e con
il Padre. Sta bene, ma il Padre le dice schietto che si prepari ad andare in Paradiso.
Poco dopo muore.
E di se stesso ripeté più volte: - Non morirò finché non avrò aperto
dodici opere -. E così avvenne.
Non meno clamorosi, ma quasi circonfusi da discrezione sono i doni o
fatti mistici. Nemmeno di questi sembra priva la vita di p. Luigi. Se ne parla
qua e là; e la cosa più singolare è che chi ne dà testimonianza sovente non sa
e non si rende conto dell'importanza di quanto narra. In estasi l'avrebbero visto
a Udine, a Primiero, a Tesero, a Trento; spesso in estasi accompagnata da levitazione,
cioè dal sollevamento del corpo da terra.
In un caso si parla di «luminescenza» del volto. In un altro, del tutto
inconsapevolmente, di quel fenomeno che usa chiamarsi «corsa mistica». - Era lì
che pregava ginocchioni in mezzo alla chiesa e poi lo vedo di volo sulla
predella dell'altare con le braccia aperte, in atto di colloquiare con
qualcuno -.
Che p. Luigi fosse poi dotato
dell'intuizione dei cuori, sembra certo. Il rettore del seminario mons.
Antivari, mandava da lui le vocazioni dubbie. - Che Indie, che Indie! - dice
ad una che in cuor suo sognava di farsi missionaria - qui sono le tue Indie. E
diceva a questa od a quella le ragioni segrete della malinconia, o mostrava di
conoscere cose passate del tutto ignote oppure tentazioni occulte o scappatelle
nascoste. Ci fu chi gli girò al largo, sapendo o temendo questo suo dono.
Ciò che a noi pare straordinario od incredibile, diventa quasi
connaturale a chi vive in Dio e Dio vive in lui.
È morto un
santo
Quando p. Luigi morì, alle 10.40 pomeridiane del 3 aprile 1884,
quell'anno giovedì di Passione, tutta la città di Udine lo acclamò quale un
santo. La sua salma venne esposta nella chiesetta di S. Gaetano.
Immediatamente ci fu un accorrere di folla di ogni ceto e condizione e la pietà
indiscreta di molti, che volevano tagliarne pezzi del vestito o ciocche di
capelli, per conservarli come reliquie, costrinse le suore ad innalzare la bara
in modo che nessuno potesse raggiungerla.
La mattina del sabato celebrò la Messa d'esequie il vicario generale
mons. Domenico Someda, che era da molti anni il suo confessore; e professò
pubblicamente la sua certezza che il Padre fosse ormai nella gloria celeste.
Il quotidiano cattolico «Il Cittadino Italiano » parlò della sua tomba
paragonandola a quella di coloro verso le quali si va in pellegrinaggio. Un
giornale massonico ne tessé un elogio tale, incentrato sulla carità, che meglio
non si sarebbe potuto dire di un grande santo; e si trattava di un riconosciuto
avversario, anzi di un leader dei cattolici intransigenti. E gli fu resa
uguale testimonianza da altri giornali non cattolici.
Il registro dei defunti della parrocchia di Remanzacco, da cui allora
dipendeva Orzano, ne descrive i funerali come fossero stati una processione per
un santo ed allude esplicitamente alla speranza di vederlo posto tra i santi.
Alla sua tomba gli Orzanesi corsero come ad un luogo sacro, e ci volle energia
per impedire manifestazioni di culto.
Ad Orzano e di mezzo alle suore si cominciò subito a parlare di grazie
ottenute per sua intercessione.
Grazie e
favori
Una madre ottiene la
guarigione dell'unico figlioletto dopo un triduo tenuto per implorare la sua
intercessione, dalla festa di Pasqua al 15 aprile 1884. Circa un mese dopo,
l'11 maggio, morì un bambino di sedici mesi e il babbo ne fu talmente afflitto
da tentare ripetutamente il suicidio. Madre Eletta Valussi corse alla tomba del
Padre e lo supplicò ad ottenere la rassegnazione cristiana a quel buon uomo.
Difatti in quella stessa ora si quietò ed il giorno dopo ebbe la forza di
accompagnare il suo bambino alla tomba, mostrandosi così tranquillo da
suscitare la sorpresa dei compaesani che ne avevano conosciuto la disperazione.
Nelle ferie estive del
1884, cioè nell'agosto e nel settembre, sempre ad Orzano, si fece un gran
parlare della guarigione di una piaga cancerosa, attribuita anch'essa a
preghiere sulla sua tomba.
La fama della santità di p.
Luigi si estese via via che la Congregazione delle Suore della Provvidenza si
diffondeva nelle varie regioni d'Italia e dell'America Latina, e con essa
crebbe pure la devozione verso di lui.
Invocato con fede, egli
ottenne da Dio guarigioni dalle più svariate malattie e soccorso in gravi
difficoltà. Molte sono accompagnate da relazioni autografe dei graziati o da
narrazioni di testi o da certificati medici.
Alla guarigione spesso fece
seguito la conversione, e numerose persone, attraverso p. Luigi, ritrovarono
quel Dio da cui si erano allontanate.
Di queste grazie e favori, purtroppo, se ne tenne
conto relativamente tardi; tuttavia ne sono state registrate alcune centinaia.
I miracoli
Il 31 gennaio 1981, la causa di beatificazione di padre Luigi Scrosoppi
ha raggiunto il suo traguardo con il riconoscimento dei due miracoli attribuiti
alla sua intercessione.
Chi sono i due graziati? Un giovane di 21 anni ed un bimbo di 40 giorni.
A Rocco Sartorelli di Tesero (TN) nel 1923, all'età di otto anni, per
una contusione, sul dorso della mano sinistra apparve una tumefazione. Sembrava
cosa da poco e invece... dopo parecchie cure la temuta previsione si avverò: fu
fatta diagnosi di osteomielite cronica fistolizzata di probabile natura tbc.
Tredici anni di malattia, otto interventi chirurgici, ripetuta proposta medica
di amputazione della mano.
Ma dal 1934, quando il giovane s'incontrò con la superiora dell'asilo
di Tesero, suora della Provvidenza, una speranza si accese in lui e nei
familiari: invocare da Dio la guarigione per intercessione del padre
Scrosoppi. Da allora, a periodi, un coro di preghiere di familiari, parenti e
amici, guidato dalla mamma di Rocco, saliva a Dio.
Sembravano preghiere inascoltate perché, dopo l'ultima medicazione del 6
giugno 1936, la mattina del 7 il giovane, steso sul lettino operatorio, attendeva
l'intervento. L'arto fu sfasciato e grande fu lo stupore dei presenti: pur essendo
le bende intrise di pus, la mano apparve completamente guarita. «Madonna mia -
esclamò il chirurgo - ma è guarito» e lo rimandò in corsia. Pochi giorni dopo
era al lavoro sui campi.
Nato sano
il bimbo Siro Marizzoli il 2 settembre 1942 a Belgioioso (Pavia), l’11 ottobre
successivo si ammalò improvvisamente. Il medico condotto avvertì la gravità
del male, volle il consulto del direttore della clinica pediatrica dell'Università
di Pavia. Questi giudicò gravissimo il caso. Suggerì il trasporto in clinica
non lasciando speranza di guarigione. Venne emessa la diagnosi: encefalite
gravissima (con fenomeni bulbari). Le crisi furono continue e così gravi che
il medico consigliò i familiari di portare a morire a casa il piccino; il padre
prese disposizioni per la sepoltura.
Ma una
suora della Provvidenza, infermiera del reparto, aveva invitato la mamma di
Siro alla preghiera a Dio per intercessione del padre Luigi Scrosoppi: «Se
otterremo la grazia - aveva aggiunto - servirà per la sua beatificazione».
Pregò la
mamma e il papà, pregarono le suore del Policlinico tutte. Improvvisamente, il
giorno 16 ottobre, apparve un notevolissimo miglioramento delle condizioni
generali del bimbo, ed il 23 dello stesso mese Siro uscì dalla clinica
perfettamente guarito.
Crebbe
sano, studiò, diventò ragioniere ed oggi ha una sua famiglia.
Da allora
nelle due famiglie Sartorelli e Marizzoli, e poi nella nuova famiglia di Rocco
e di Siro, non è stata più dimenticata la devozione al padre Luigi.
PREGHIERA
O Padre
misericordioso
che
mediante il Signore Gesù Cristo sostieni l'umanità con il dono del tuo Spirito,
noi ti ringraziamo per la forza di amore che hai concesso a san Luigi
Scrosoppi.
In lui noi
ammiriamo la luce della santità sacerdotale, il fascino della vita a te
consacrata
e la
dedizione totale ai bisognosi e ai deboli.
Con
fiducia noi ti chiediamo che nella Chiesa rifulga la santità dei tuoi ministri,
rifioriscano le vocazioni al presbiterato e alla vita religiosa
e si
affermi la scelta di servire i fratelli più poveri.
Amen.
La vita di san Luigi fin
qui riportata, pur riassumendo bene quanto scritto dal biografo mons. G.
Biasutti, rimane pur sempre una "sintesi" che necessariamente tocca
gli argomenti, ma non li completa.
A giudizio di chi scrive,
ci sono quattro momenti importanti della vita di p. Luigi che devono essere
almeno sottolineati:
4.
Quando le Suore della Provvidenza, raggiunta la
maturità all'interno della Casa delle Derelitte, accettano di uscire
all'esterno per portare la loro opera, la loro esperienza e il loro amore negli
ospedali od in altre realtà di grande bisogno.
Tratto dal libro: “Per i più poveri” di: Maria
Papàsogli – Zalum - Giorgio Papàsogli (II capitolo)
Don Luigi si fa mendicante
La Casa delle Derelitte attraversava un periodo di
crisi grande: i bilanci erano affidati alla carità della popolazione, e i «
benefattori » stanchi sembravano aver dimenticato che, tra quelle mura, i
bisogni si ripresentavano ogni giorno identici; le ristrettezze economiche si
facevano penose, le bimbe smagrivano, e padre Carlo e don Luigi si chiedevano
come tenere in piedi la baracca vacillante.
L'opera che costava tanti pensieri ai due fratelli
aveva proporzioni tutt'altro che imponenti; si annidava, in realtà, in un
edificio minuscolo: una piccola casa affacciata sulla via, che misurava
diciassette metri di fronte, era alta circa cinque metri e profonda otto: sul
dietro si apriva un orto le cui modeste ricchezze rallegravano la mensa delle
orfane. Tutto organizzato alla buona, con un pizzico di fantasia e
d'improvvisazione: il granaio, per esempio, era utilizzato come dormitorio...
Negli ambienti rustici le bimbe, vivaci e gioiose nonostante il nome
malinconico di « derelitte », scavallavano mai sazie di pane, di giuochi e di
amore.
La proprietà dell'edificio, un tempo della signora
Paola Florenzis, sul principio dell'800 era passata alla Casa delle Convertite;
ma dal 1815 al 1822 l'affitto era stato pagato dal conte Alvise Ottelio,
cosicché il nome del benefattore era rimasto legato all'istituto, noto anche
come « opera Ottelio ». Scaduto il contratto di locazione, padre Carlo divenuto
direttore delle Derelitte si era addossato l'onere dell'affitto, che veniva
pagato puntualmente, in rate semestrali, il 31 gennaio e il 31luglio.
Padre Carlo, dunque, pagava l'affitto e dirigeva la
vita dell'istituto: don Luigi intanto soffriva e prendeva sempre più a cuore i
problemi delle piccole ospiti, per le quali l'esigua casetta della signora
Florenzis rappresentava tutto un mondo protettore ed amico. Ormai quei visi di
bimbe non visitavano più episodicamente i pensieri di don Luigi: facevano da
padroni, ora che egli si trovava ad essere non più tra i visitatori, bensì tra
i responsabili dell'istituto.
La casa doveva ricominciare a vivere. Padre Carlo
tentò di ottenere degli aiuti dal governo austriaco; don Luigi fece qualcosa di
più: pagò di persona, con una serie di gesti che per la prima volta, di colpo,
lo rivelarono.
Era il marzo 1829, un aspro e ventoso principio di
primavera, nelle campagne serene dell'udinese che hanno a pochi passi la
montagna. Durante quella stagione che aveva sapore sorgivo di inizio, don Luigi
imparò un nuovo « mestiere »: tender la mano, da povero mendicante, lungo le
vie della città e quelle dei campi: chiedeva danaro, chiedeva pane e ortaggi e
frutta, chiedeva carne, poiché soprattutto di questa le derelitte avevano
bisogno. Chiedeva, dominando il rossore: Udine era la sua città e ad ogni
angolo di strada gli si facevano incontro visi fin troppo noti... occhiate
incredule e canzonatorie, fischi di ragazzaglia divennero il suo pane
quotidiano. Su tutti quei visi era possibile leggere la stessa domanda:
don Luigi Scrosoppi - il quieto giovane prete che
aveva alle spalle una famiglia agiata, abitudini decorose, un sistema di vita
senz'avventura e senza radicalismi - era forse impazzito?
Ogni passo mosso da don Luigi per le vie di Udine
diveniva, in tal modo, una rottura col suo passato tranquillo, una sfida pacata
alla mentalità assestata dei benpensanti, una vittoria nell'imitazione e nella
sequela del Signore umile.
Tornava a casa col suo calesse carico di doni, e si
vedeva correre incontro le bimbe in festa che gli si aggrappavano all'abito
talare: « Gigi, dàmi cicin... »
Quel grido confidente ricompensava don Luigi di tutte
le amarezze inghiottite lungo i suoi itinerari.
Se Udine rideva e sussurrava, la gente di campagna
riusciva ad essere, talora, più rude: quel questuante anticonformista diveniva
un segno di contraddizione: incontrava la risposta generosa e l'insulto, ed
erano due generi ben diversi di ricchezza che don Luigi accumulava
pazientemente. Un giorno, in un paesino nei pressi di Udine, un tale cui egli
si era rivolto gli rispose con uno schiaffo: don Luigi - per sua natura impulsivo e tutto fuoco -
riuscì a sorridere:
« Questo va bene per me; ma che cosa mi darete, ora,
per le mie orfanelle? ».
L'uomo non si aspettava una simile risposta; guardò
con occhi nuovi colui che aveva considerato un bigotto sfaccendato, e dovette
arrossire. Quel giorno, il calesse di don Luigi rientrò più carico del solito,
e molti doni vi erano stati deposti dalla medesima mano che aveva dato lo
schiaffo.
Tutta la sua forza di temperamento, don Luigi la
spendeva dunque così, nel perseverare su cammini malsicuri: le premesse per la
sua vita di animatore, di direttore e di servo dei poveri erano già in quel suo
umile, tenace girovagare. E tuttavia, mentre la chiamata alla carità portava
frutto nell'intimo, ebbe luogo un'apparente battuta di arresto: verso il 1830,
Luigi parve sul punto di distaccarsi dalla strada intrapresa.
Non lontano dalla Casa delle Derelitte sorgeva un convento
di cappuccini, riaperto recentemente, dopo la soppressione del 1807. Don Luigi
vi passava davanti, sfiorando il segreto della raccolta vita comunitaria che
tornava a fiorire all'interno di quelle mura. La spiritualità francescana aveva
di che affascinarlo, col suo invito alla povertà gioiosa, col suo schietto
contrassegno evangelico: in Luigi, già da tempo, fremeva la volontà di un dono
integrale. Mendicante per le derelitte, egli era pur sempre il figlio protetto
di mamma Antonia, e sentiva la frattura che si delineava nella sua vita:
aveva imboccato un sentiero esigente ed osato un comportamento
nuovo, ma, a sera, rientrava nella casa paterna, ritrovando tanta parte delle
antiche abitudini e i pacati valori umani che sembravano a un tratto un limite
alla libertà dello spirito.
Un saio, una regola, una vita comunitaria orientata
alla ricerca della perfezione, avrebbero appagato l'ansia di Luigi, sarebbero
stati una sicurezza sul cammino dell'integralità evangelica cui il giovane
tendeva, con fuoco e con pazienza.
Poi, lentamente, quel pensiero si trasformò; don
Luigi comprese più a fondo la sua vocazione. C'è chi si santifica su una via
battuta da molti, in un contesto fatto di stabilità, c'è chi deve aprirsi la
strada da solo: e Luigi Scrosoppi capì che il suo compito era questo.
Capì, forse, che il vero punto di riferimento per la
sua vita non sarebbe stato il convento dei cappuccini, ma la casetta che gli
sorgeva vicino, col suo granaio dove d'inverno fischiava il vento e dove le
creature più indifese di Udine cercavano di prender sonno. Le bimbe abbandonate:
questo primo amore di don Luigi non era forse, anch'esso, come una regola ed
una vocazione?
Egli scriveva, in quel tempo, due grosse rubriche
dove raccoglieva riflessioni o notizie riguardo a temi che lo interessavano.
Alla voce « vocazione », troviamo righe rivelatrici:
« Per farci santi non bisogna credere di dovere
ritirarsi in religione, o in eremi. S. Agostino in un sermone fatto a religiosi
del deserto ebbe a dire: Ecco siamo
nella solitudine; tuttavia non sono la preghiera ed il canto liturgico che
fanno i santi, ma è il ben operare che santifica il luogo e noi. Se infatti i
luoghi potessero santificare chi vi abita, né l'uomo né l'angelo sarebbero
precipitati dalla loro dignità ».
La concezione della santità qui formulata parrebbe in
contrasto con l'immagine che, un giorno, i contemporanei si sarebbero fatti di
Luigi Scrosoppi: attento e vigile fino nei più minuti particolari delle regole,
tenacemente avvinto alla lettera che custodisce lo spirito. Dalle righe appena
lette appare una visione tutta interiore della vocazione, non per questo più
morbida: al contrario, profondamente esigente e legata al suggerimento di una
donazione integrale.
Staccandosi lentamente dal suo sogno francescano, don
Luigi meditò su questa realtà. Soffrì, forse, nel rinunciare a quell'umile e
domestico orizzonte di perfezione che gli era suggerito dalle immagini del
convento? Il suo ministero si sarebbe svolto in un più stretto contatto col
mondo e in un più diretto servizio dei poveri: fu un'ora di prova che avrebbe
illuminato tutta la vita di padre Luigi. La sua graduale e radicale rinuncia ad
ogni compromesso con i valori terreni ebbe l'avvio dalla decisione presa nel
1830, dalla serena e lucida comprensione che non è il luogo a renderci santi,
ma che « il ben operare santifica il luogo e noi».
Nasce la Congregazione
Sotto la guida di don Luigi il gruppetto delle
giovani maestre faceva sul serio. Si presentava perciò una problematica
precisa: conveniva mantenere il primo progetto di fare entrare le congregate in
un altro ordine, già esistente ed estraneo agl'inizi dell'opera? Oppure,
orientarsi verso la creazione di una minima Congregazione nuova, nata
dall'opera delle Derelitte, da essa e per essa?
In un primo tempo, la meta dell'autonomia rimase
chiara solo per don Luigi: egli desiderava fare passi avanti nel costituire una
nuova Congregazione, anche se condivise il progetto di padre Carlo riguardo ad
alcune famiglie religiose esistenti, in particolare le rosminiane. Infatti
padre Carlo, come abbiamo detto, rimaneva dell'idea di affidare tutto a
religiose di un altro nome. Si sarebbe avuta una spaccatura nell'interno della
Casa se don Luigi non avesse rinunziato al suo modo di vedere, fino a quando le
circostanze stesse - la Provvidenza - non avesse guidato secondo la stessa luce
anche padre Carlo. Silenzio e collaborazione difficili, talvolta eroici; anni
lenti d'incertezza che, uno dopo l'altro, videro gli eventi maturare secondo
vie impreviste dagli uomini.
Torniamo per un attimo indietro nel tempo, per ricostruire
tutti i momenti di questa evoluzione: il primo tentativo di affidare la Casa
ad un'altra Congregazione religiosa risaliva al tempo della ricostruzione
dell'edificio: padre Carlo ebbe nel 1835 contatti con Maddalena di Canossa,
fondatrice delle Figlie della Carità di Verona, e prese accordi con lei per
affidare l'opera alle Figlie della Carità stesse, una volta che la Casa fosse
interamente ricostruita.
L'accordo fu raggiunto e si fece preciso, sembra che
Maddalena di Canossa avesse persino previsto la forma delle consegne
dell'Istituto alla sua Congregazione: ma la fondatrice nello stesso anno 1835
morì, e con la fine di lei andò a morire anche il progetto tanto ambito da
padre Carlo. Un anno dopo, padre Filaferro parlò del suo problema ad una religiosa
visitandina, suor Marianna Teresa Cossali, del monastero di S. Vito al
Tagliamento: il monastero aveva, probabilmente, in padre Carlo una delle sue
guide spirituali, e la conoscenza con suor Cossali nasceva forse da un legame
di direzione intima.
Suor Cossali intavolò dunque trattative con un ordine
religioso, ma quelle trattative non ebbero l'andamento desiderato. Le suore
richieste si dedicavano alla raffinata educazione di fanciulle agiate e, per
di più, avevano l'impegno del chiostro e dei voti solenni: come metterle
insieme alle rustiche maestrine delle Derelitte, così duttili al quotidiano,
nella Casa della Provvidenza con la sua cappella di fortuna, con la sua porta
sempre aperta per i doni e per le esigenze della carità?
Padre Carlo ripensò con nostalgia alle figlie di
Maddalena di Canossa, e prese contatto con la nuova superiora, suor Angela
Bragato: ma l’accordo raggiunto con la fondatrice scomparsa non fu rinnovato.
Cominciò allora a delinearsi un progetto timido:
perché non riconoscere come una Congregazione nuova il gruppo di figure così
diverse eppur così unite, che maturavano rapidamente?
Nel 1840 si annunciò la speranza di una vocazione
apportatrice di tutti quegli elementi di cui la comunità mancava ancora:
esperienza già matura di vita religiosa, educazione completa, personalità
notevole: Giovanna, al secolo contessa Giulia di Colloredo, parente del primo
commissario governativo delle Derelitte, conte Fabio Colloredo, era stata per
vari anni tra le suore Dimesse, e si era decisa ad uscirne per motivi che ci
sfuggono in parte (forse per un'intesa maturata affinché ella potesse dare un
contributo alla Congregazione nascente).
Quando Giovanna fu risoluta ad entrare fra le Derelitte,
nel 1841, parve che per mezzo di lei si dovesse attuare l'attesa trasformazione
e la crescita interna della comunità: il suo arrivo, fu, per il gruppo
religioso senza nome, un grande giorno di speranza.
Margherita Gaspardis, la maestra dai capelli grigi,
disinteressata ed umile, che aveva guidato il gruppo fino allora, fu pronta a
dar le dimissioni, cedendo il posto a colei che giungeva già aureolata di
prestigio. Il suo gesto generoso suscitò ammirazione: il vescovo Lodi,
commosso, intervenne personalmente per chiedere che le fosse prolungato l'incarico
di madre: in realtà, Giovanna Colloredo divenne superiora solo il 18 marzo
1842, dopo aver preso familiarità col nuovo ambiente e conosciuto i caratteri e
le anime.
Era la vigilia di S. Giuseppe: il santo più caro a don
Luigi presiedette silenziosamente a quel trapasso di autorità vissuta in
spirito di servizio. Un po' di apprendistato era stato necessario anche a
Giovanna Colloredo che, forse, nella sua esperienza di vita religiosa non aveva
mai toccato così da vicino la fatica e la povertà. Poi tutto ricominciò
serenamente, mentre la presenza della superiora recava all'opera un impulso
nuovo, pur senza rivelare quella capacità costruttiva, quella definitiva forza
di formazione in cui padre Carlo e don Luigi avevano sperato.
La Casa delle Derelitte vedeva continuamente ricomporsi
nella pace un contrasto incantevole: suor Giovanna Colloredo aveva portato una
nota di distinzione culturale e sociale;
ma contemporaneamente giungevano reclute nuove, che, come le prime « maestre
», erano fresche figlie del popolo, senza dote e senz'altra educazione che
quella del cuore. Del loro passato sappiamo ben poco: si sa solo che erano
giovani ed entusiaste, e costituivano il vero nerbo dell'istituto: molte erano
state « scelte » da don Luigi, secondo una sua logica caratteristica. Aveva cercato
le più umili e diseredate, mirando ad una dote preziosa: la fede e la capacità
di amare con sacrificio, nel contesto di vita delle Derelitte che sgomentava
chi non partisse di buon passo, pronta a dimenticarsi.
Forse don Luigi sapeva che solo giovani già temprate
da una vita dura avrebbero potuto perseverare lietamente.
Orsola Baldasso fu la prima di un vero drappello: due
giovani carniche erano entrate nell'istituto nel 1837-38, e avevano portato una
nota di rude schiettezza: Giovanna Ariis, terziaria, e Maddalena Morassi,
conversa. Maddalena aveva una limpida voce montanara, ed empiva la casa di
Udine con i suoi canti semplici che talvolta arrivavano ad infastidire gli
altri ospiti dell'Istituto... ma la sua spontaneità disarmava gl'insofferenti
che la rimproveravano.
Nel 1842, dopo la nomina di suor Giovanna Colloredo,
don Luigi fece un'altra « scelta », che è un singolare esempio di un suo quasi
soprannaturale intuito delle anime. Un giorno vide sulla porta di casa una
ragazza che scardassava: forse aveva inteso parlare di lei, forse sapeva chi
era, ma non l'aveva mai avvicinata; le rivolse la parola, la invitò a
collaborare nella Casa delle Derelitte.
Giovanna, così si chiamava la ragazza, era avvezza ad
essere ignorata ed evitata, perché - nella mentalità del tempo - gravava su di
lei una sorta di menomazione: era figlia di ignoti. Non aveva mai pensato ad
entrare in un ordine religioso, perché quel passo nella sua condizione era
seriamente difficile. Sentendosi invitata con tanta semplicità, tentò di
resistere, volle spiegarsi: ma don Luigi aveva compreso che la realtà di
Giovanna trascendeva i limiti in cui ella aveva sempre creduto di dover vivere.
La giovane si dedicò nell'Istituto ai lavori agricoli, ai bachi da seta, alle
attività più semplici, e il suo contributo fu una particella delle molte che
dovevano edificare la casa delle orfanelle: chi meglio di lei le poteva
comprendere? Se le era mancato il calore di una casa, Giovanna fu la prima a
dedicarsi con entusiasmo alle ragazze in cui rivedeva la propria giovinezza e
la propria sofferenza.
Una quarta recluta di don Luigi fu Domenica
Batigello, entrata nel 1844: ella rimase terziaria tutta la vita, per poter
andare elemosinando il vitto che le orfanelle attendevano: un impegno per il
quale non occorreva maestria, ma buon cuore, umiltà e prontezza al sacrificio.
A Domenica queste doti non mancavano, e i suoi anni trascorsero senza
stanchezza, nel sereno girovagare.
Si delineava così, attraverso l'intreccio dei
compiti, la struttura della comunità: la campagna affidata a suor Giovanna, la
cerca dell’elemosina a suor Domenica, la cucina e le faccende a suor Maddalena
e a Giovanna Ariis: Orsola Baldasso, poi, la prima del gruppetto, adempiva con
la candida energia del suo carattere gli incarichi che le venivano affidati.
Tali erano le reclute di don Luigi, la « fanteria » che egli aveva fatto
nascere e che accettava di buon grado le direttive impartite dalla superiora
suor Giovanna Colloredo, la quale, nel secolo, aveva conosciuto costumi di
persona agiata e raffinata. La realtà domestica nel nuovo Istituto nasceva così
dall'incontro fra l'una e le altre, all'ombra della forte concordia fra padre
Carlo e don Luigi, i quali offrivano per primi un esempio perfetto di fraterna,
cristiana collaborazione.
Padre Carlo e don Luigi avevano dunque sperato in
suor Giovanna Colloredo per cementare spiritualmente il gruppo nascente;
d'altra parte, poco dopo l'inizio del suo superiorato, essi ricominciarono la
loro ricerca di una Congregazione già adulta che subentrasse pienamente
all'opera, e si rivolsero, questa volta, a un gruppo di religiose legate ad una
grande personalità: le suore della Provvidenza fondate da Antonio Rosmini.
Antonio Rosmini, pur non avendo ancora raggiunto
l'acme del suo pensiero e della sua attività, era figura alta e autorevole
nell'orizzonte dell'Ottocento italiano. Padre Carlo aveva avuto occasione
d'incontrarlo, vari anni prima, quando il roveretano era venuto a Udine e vi
aveva fondato un gruppo della « Società degli Amici»: anzi, di quel gruppo
padre Carlo Filaferro fu animatore e direttore. Esisteva dunque un legame già
solido, fondato su una conoscenza personale e un'esperienza di collaborazione
tra Antonio Rosmini e il fratello di Luigi Scrosoppi.
Il vescovo accolse volentieri l'idea del
trasferimento, la sua approvazione non si fece attendere, mentre ottenere il
consenso della corte imperiale fu più lungo e laborioso.
Quel ritardo parve, lì per lì, una difficoltà
incresciosa e un ostacolo pesante: in realtà, l'intervallo tra il progetto e la
sua attuazione permise il maturare di eventi nuovi, che fecero cambiare idea ai
due sacerdoti di Udine.
In primo luogo un fatto di ordine politico e
burocratico. La provenienza dagli Stati Sardi delle suore rosminiane e la
figura del loro fondatore, invisa all'Austria, avrebbero reso più difficile la
vita dell'Istituto delle Derelitte e messo in pericolo quella autonomia
dall'ingerenza governativa che tanto premeva ai due fratelli. Forse non fu
estranea neppure la diffidenza che si stava estendendo nel mondo cattolico
verso il pensiero filosofico del Rosmini.
Il fallimento del progetto non spiacque alle maestre,
la maggioranza delle quali non desiderava essere assorbita da un'altra
congregazione e aveva anche espresso l'intenzione di abbandonare l'opera se
ciò si fosse verificato.
Fu a questo punto che don Luigi, mosso dallo Spirito
Santo e ricco com’era di senso pratico, colse nella situazione un segno più
evidente del piano della Provvidenza. Padre Carlo, uomo di fede e di umiltà,
nei progetti falliti vide la volontà di Dio, fece sua l'intuizione del fratello
Luigi e lasciò a lui l'ardua missione di plasmare quel piccolo gruppo di
maestre e dare vita ad una nuova famiglia religiosa.
Da questo momento un impegno di paternità più delicato
e più grave pesa su don Luigi. Padre Carlo lo affianca con la sua esperienza, e
la sua collaborazione è evidente soprattutto nella stesura delle prime « Regole
generali per le maestre dell'Istituto delle Derelitte », stampate nel 1848.
Il 10 settembre 1845, scaduto il triennio del suo mandato,
suor Giovanna Colloredo rinunciò alla carica di superiora, rientrando
chetamente, con i suoi modi gentili, la sua cultura e la sua esperienza, tra i ranghi
delle maestre. Nel Natale dello stesso anno fu definitivamente costituita la
Congregazione di Udine: « autorizzate dall'Ordinario diocesano » quindici
suore vestirono l'abito bruno, e lo stesso giorno, undici tra esse « senza
obbligarsi ai voti, proposero fermamente di osservare con tutto l'impegno le
tre virtù della povertà, castità ed obbedienza », sotto la protezione di s.
Gaetano Thiene, scelto come sommo amico di famiglia, in una cerimonia
commovente per semplicità.
Dall'1 febbraio 1837 al 25 dicembre 1845 il travaglio
delle suore di s. Gaetano si era sviluppato lentissimo: la loro vocazione era
stata provata, purificata nel crogiuolo di circostanze penose e
contraddittorie, ed aveva ormai una cristallina trasparenza: rassodato dalle
incertezze dell'itinerario compiuto, il « sì » delle religiose era un completo
atto di distacco spirituale e di abbandono al disegno che il Padre aveva
predisposto per loro.
Le Madri Anziane
Tratto dal libro: “Tutto di Dio – P. Luigi Scrosoppi”
di G. Biasutti (capitolo 31)
Una polla d'acqua pura e freschissima zampilla lassù
dalla roccia a mezzo monte: e balza e sprizza di sasso in sasso e canta
correndo all’ombra dei pini. Via via s'ingrossa: ma l'andare è sempre
egualmente animoso ed il canto cresce.
E' necessario però che ad un certo momento, a fondo
valle, l'impeto si smorzi e l'onda scorra più pacifica, eppure sempre feconda,
tra brevi sponde, quindi tra argini potenti. Guai se continuasse con l'aire
della sorgiva!
Toccò a Madre Cecilia Piacentini, eletta superiora
generale il 12 ottobre 1880, toccò a lei di inalveare la Congregazione ancor
fanciulla e darle un ritmo sicuro e costante, secondo le Costituzioni e le
Regole approvate definitivamente dalla Santa Sede nel 1892. Ella perciò è
chiamata giustamente la «con fondatrice» nella bella biografia che ne ha
scritto suor Margherita Makarovic.
Ma qui vorrei rievocare ad una ad una le suore delle
sorgenti, quelle che nel linguaggio tradizionale vengono chiamate le Madri
Anziane.
Vorrei rievocarle ad una ad una. Ma cosa potrei fare,
in un breve articolo, se non un arido elenco di nomi, che poi non direbbe nulla
a chi legge e non conosce le figure di quelle eroine? Alcune, in verità, le ho
ricordate nel corso degli articoli precedenti. Come la suor Orsola del
somarello, o la nanetta portinaia suor Filomena, l'irruente e operosa suor
Giacinta, o la « carabiniera» suor Osanna, od il facchino della Provvidenza
suor Domenica, o l'umile suor Giovanna, strappata dalla soglia e dalla triste
condizione per elevarla a sposa di Cristo...
Nello studiare minuziosamente la vita del P. Luigi mi
è accaduto di soffermarmi - vorrei dire per forza - a contemplare le suore
vissute con lui, e ne sono rimasto incantato. Forse era il Padre stesso che mi
suggeriva tali soste, perché ammirassi quelle sue care figliole spirituali. Ma
mi ci costrinse l'argomento stesso, poiché nelle figlie cercavo l'impronta del
Padre.
Nel 1942, in piena guerra, mi recai a Tortona nella
Casa Madre degli Orionini. Poichè ero tornato vivo dalla Russia, mi proponevo
di sviluppare in un Piccolo Cottolengo Friulano - che oggi fiorisce in S. Maria
la Longa - la Piccola Casa F. Ozanam, che mi era nata fra mani nel 1933. E
volevo chiedere a don Sterpi se l'avrebbe accettato. Mentre l'aspettavo, fissai
a lungo l'immagine del Servo di Dio don Orione, che pur avevo vista molte
volte. Più tardi andai nell'Orfanotrofio, che allora c’era accanto al Santuario
della Madonna della Guardia. E nel volto delle suore, nello stesso volto degli
orfanelli - mi ricordo che eran rapati a zero - mi parve di rivedere le linee
stesse di don Orione. Ho tuttora viva quella strana impressione.
E' impossibile vivere accanto ad un santo e viverci a
lungo senza ricevere una qualche impronta del suo potente spirito. Così avvenne
a quelle avventurate Madri Anziane, che P. Luigi formò e plasmò. Se tento di
raffigurarmele con l'immaginazione, pur sapendo che quella era un donnone e
questa una trottoletta, quella forte e sana, questa soave e delicata come una
Madonna, in tutte mi par di vedere il Padre, non riesco a vedere che il Padre.
Veramente, in quasi cinquant'anni - dal 1837 al 1884
- tra le stesse « Madri Anziane » non si può non notare una qualche
differenza.
Ci sono quelle della « prima generazione», un
pressappoco fino alla morte di P. Carlo (1854) o della superiora Lucia De Giorgio
(1855), che si possono chiamare « le pioniere della primavera eroica ». E
quelle della seconda, dal 1855 al 1872, la cui vocazione fiorì e si temprò in
anni difficili ed inquieti. E quelle della terza, cresciute nell'epoca più
tranquilla e regolare dal 1872-75 alla morte di padre Luigi, quando le file
aumentano, quando nel vecchio ruscello d'acqua friulana si immettono il turgido
rio tridentino e le prime onde illiriche, quando la Congregazione è ormai irrobustita
al volo delle profetizzate dodici Case. Una qualche differenza che via via si
rivela progresso e perfezionamento.
La prima schiera - quella del 1837 e del Natale 1845
– è formata quasi esclusivamente da giovani popolane, che sapevan tenere bene
l'ago od il mestolo e sbattere energicamente i panni, ma non se la facevan
molto con penne e calamai; squadrate alla grezza e sbrigative; sgambettanti in
tonache lise e rattoppate, nutrite alla buona di Dio e più di mortificazione
che di polenta, riposanti su sacconi di paglia o di cartocci. A poco a poco,
non senza l'apporto di quel sant'uomo di don Francesco Fantoni, esteriore ed
interiore si raffinano e si completano, sino ad uscirne la compiuta farfalla
della religiosa « comm'il faut».
Tuttavia, le Madri Anziane, quelle che ebbero l'impronta di P. Luigi, rimasero nettamente caratterizzate da alcune doti o virtù: una fede antica, una indefessa laboriosità, un'aurea semplicità nel fare e nel pensare (e nel parlare), una povertà tirata all'osso, uno spirito di sacrificio spinto fino all'immolazione... Non sono queste le linee del P. Luigi? Non c'è in tali figlie la sua « essenzialità » e la sua « autenticità »? Gesù, lavoro, umiltà ed alla buona: questo è tutto, e basti!
I primi sciami delle suore della Provvidenza
Primiero, Fiera di Primiero, oggi vogliono dire un
gran che: nomi che evocano stazioni turistiche celebri, frequentate da amatori
numerosi: splendore di paesaggio montano ed aria tale da risuscitare un
morto... A quel tempo, cioè verso il 1865, lo splendore della natura c'era
tutto, ed era, anzi, intatto, cioè non ancora sfruttato da villeggianti e
sciatori, ma le strade non c'erano, di alberghi non si parlava, e la parte
logistica si riduceva a un pugno di case in piena erta, raggiungibile a fatica.
In certi tratti, per arrivarci dal sud, da Fonzaso,
una mulattiera si inerpicava, tra salite e discese e nuove salite, sull'orlo di
burroni stupendi e da capogiro: erano vaste ondate di roccia e di prati che si
addossavano le une alle altre in un deciso movimento di ascesa: dopo, la via si
faceva più umana, e permetteva nientemeno che una carrozza!
Il paese di
Primiero aveva un po' più di mille anime, una chiesa, e perfino un ospedale...
nella chiesa regnava, servendo, un parroco dalla figura originale: spirito
fervente ed anche bello spirito, firmava le sue lettere: don Giuseppe Sartori,
decano di Primiero, g.g.g., sigla che non era più un mistero per nessuno:
significava: grande, grosso, grasso:
« Quando vedrete,
era solito a dire il buon sacerdote, un prete grande grosso grasso, dite
pure che è il decano di Primiero ». Con ciò, zelo vivo e buon umore costante.
E c'era anche un ospedale, e si capisce bene che ci
dovesse essere: per chi, nonostante l'aria saluberrima, si ammalasse, dover essere
trascinato a dorso di mulo per valli e poggi fino al primo luogo civile,
avrebbe significato passare automaticamente da un trasferimento terapeutico a
un trasporto mortuario.
Perciò: un ospedale, del quale era direttore don Giuseppe
Sartori: e il numero dei malati oscillava tra quattro e cinque.
Ahimè, non si creda che ciò fosse soltanto perché a
Primiero nessuno si ammalasse! La ragione era un'altra. L'ospedale era tanto
misero e tenuto tanto alla peggio che la gente aveva ribrezzo ad andarci. Come tutta
assistenza, un pover'uomo il quale, solo e sprovvisto di qualsiasi mezzo di
cura, faceva ciò che poteva, e poteva pochissimo. Quando, in una famiglia di
Primiero, si ventilava l'idea di trascinar qualcuno in quelle stanzette, un
brivido saettava nella schiena del malato e dei congiunti. Tra ospedale e camposanto
- si diceva - c'è parentela stretta.
Il povero decano si macerava dal dispiacere, ma
proprio, con le possibilità di cui disponeva, non riusciva ad escogitare
rimedi. Ecco qualcuno gli parlò di certe suore fondate da don Luigi Scrosoppi,
e questo qualcuno è nientemeno che monsignor Teloni, il grande predicatore
invitato a Primiero per una missione.
La descrizione delle suore fu tale che don Sartori
non ci dormì dalla gran voglia di risolvere il suo insolubile problema. Il 18
ottobre scrisse alla superiora generale delle suore, madre Teresa Fabris,
chiedendo aiuto, e la richiesta venne accolta. Madre Teresa a sua volta
scrisse, il 25 ottobre, al vescovo di Trento chiedendo assenso e benedizione,
e il presule rispose prodigando uno e l'altra e avvertendo che occorreva
l'approvazione pontificia delle suore e il beneplacito da parte del governo
austriaco.
Il primo documento c'era, per ottenere il secondo s'interessò
un cugino di don Sartori residente ad Innsbruck, e tutto si svolse, da parte
dei protagonisti della vicenda, a spron battuto: poi la pratica s'impigliò
naturalmente fra le strette burocratiche, ma, anche qui, per breve tempo, Nel
complesso, le cose andarono bene. Evidentemente, il soffio della Provvidenza
spirava.
Il 3 febbraio 1866 quattro suore, guidate dalla
vicaria generale, accompagnate dagli auguri delle consorelle e dalle
benedizioni del fondatore, si mossero da Udine per arrivare a Fonzaso. « A
Fonzaso - aveva scritto don Sartori -sarò io con treno asinario (...e che fuga
in Egitto!) ».
Gli auguri, la benedizione erano stati commossi, e le
partenti si sentivano un po' simili agli astronauti di oggi: ci volevano,
allora, quasi tre giorni interi per trasferirsi da Udine a Primiero.
Il primo giorno in treno fino a Treviso, e lì pernottarono:
il secondo giorno, in diligenza fino a Feltre, ove presero il « veloce » per
Fonzaso: e giunte qui, pernottarono un'altra volta. Il terzo giorno, risveglio
e inizio di avventura.
Ricercarono il « pedone », cioè la guida alpina che
le avrebbe pilotate, a piedi, o a dorsi di asini o muli su e giù per le
montagne.
Direttore di quest'ultima aerea parte del viaggio,
sarebbe stato don Sartori provvisto di animali da basto.
Le suore camminarono finché poterono, e scambiandosi
occhiate, senza far commenti: dove andavano? Il paesaggio si apriva e poi si
richiudeva dinanzi a loro, stupendo, petrigno ed anche prativo, impennandosi a
un tratto: le buone suore guardarono in su, poi si guardarono tra loro...
Il « treno asinario », cioè i muli, seguivano
l'esiguo corteo, e quando la comitiva si trovò a piè dell'erta, venne il
momento delle grandi decisioni: si trattava di scegliere ciascuna il proprio
animale.
Naturalmente, nessuna delle cinque suore aveva mai
cavalcato: e quel debutto, lì, in piena salita a confine con un burrone che
faceva male alla fantasia, non era incoraggiante.
Qualcuna volle continuare a piedi, altre si fecero
coraggio: viaggiavano per il Signore, lo facevano proprio per lui solo, egli le
avrebbe protette.
Così, un pensiero di amor divino ridestò in esse un
gran coraggio e il buon umore scoppiò all'improvviso, da quelle anime candide.
In fondo, tutto ciò che le circondava si accordava col fondo vero della loro
condizione di spirito: quei monti parevano di cristallo, come erano cristalline
le loro intenzioni. Anche le privazioni grosse a cui andavano incontro - ormai
avevano capito l'antifona, e come non capirla a veder certi paesini, lassù, tra
rocce e nuvole? - anche le privazioni, diciamo erano proprio quelle che ci
volevano. Il Signore, lo si ama meglio a fatti che a parole, ed era arrivato il
momento di sacrificarsi. Perciò, coraggio e letizia, soprattutto letizia, e a
guardarsi una l'altra, tutte amazzoni improvvisate in bilico sulla sella e
sullo strapiombo, scoppiarono a ridere come fanciulle in gita di ricreazione. E
su, su, a suon di risate fresche come l'aria che respiravano.
Il decano era incantato. Quell'annuncio di caratteri
e di spiriti, quel primo sgomento seguito dall'accettazione generosa fino alla
gaiezza, riempì anche a lui l'animo di speranza. Nonostante tutto il suo innato
buon umore, don Sartori aveva vissuto giorni di trepidazione; « che diranno
aveva pensato - queste suore avvezze alla città, vedendosi tra i nostri monti
ove manca tutto? », e si era raccomandato alla Provvidenza. Ora la Provvidenza
rispondeva, perché le suore erano proprio quelle che ci volevano: e il buon
parroco, il quale aveva l'occhio fino e molta esperienza, risalì col pensiero
alla figura di quel fondatore, Luigi Scrosoppi, il quale era riuscito a
plasmare e radunare anime come quelle, evidentemente aperte, anzi, spalancate
al sacrificio. Lodò il Signore, e mandò, in cuor suo, un grazie grande grande
a don Luigi.
Finalmente, dopo tante acrobazie, arrivarono al confine
austriaco, e recuperarono una strada. Allora si sentirono regine perché si
trovarono installate in carrozzelle che le trascinarono attraverso dei paesi
chiamati Imer e Mezzano. Come per incanto, le popolazioni si riunirono sul
loro passaggio, e spararono mortaretti mentre le campane suonavano a festa: i
buoni montanari non avevano mai visto suore di carità, e le festeggiavano con
un entusiasmo commovente.
Quando entrarono in Primiero, trovarono archi trionfali
di verde e scritte di augurio: un'accoglienza del genere non se l'aspettavano
davvero.
La gente era schierata da due parti, e, mentre il
gruppetto attraversava il paese fino all'ospedale, i volti dei paesani
sorridevano, e chi era rimasto in casa, usciva, salutava, faceva ‘evviva’. Le
ospiti dovettero ben sorridere con gli occhi pieni di lacrime.
Finalmente, l'ospedale. Non c'era nulla. Parlare di
pagliericci, coperte, lenzuola, sarebbe stato una utopia, per non dire una
gaffe: e, invece, tutto si risolse in quattro e quattr'otto. La buona gente
del luogo, forse incredula, fino allora, che le suore ci venissero, a vedere
ora che c'erano davvero, si misero in quattro: per le prime sere si disputarono
l'onore di ospitare le religiose, e intanto allestirono tutto l'occorrente. In
men di otto giorni le nuove arrivate furono in grado d'installarsi
nell'ospedaletto-tugurio, fornito almeno dello stretto necessario.
Trovarono quattro degenti e l'unico assistente. Gli
ammalati si sentirono allargare l'animo a dismisura, a vedersi intorno cinque
suore desiderose di curarli: c'era di che guarire per la contentezza. E il
garbo, la dolcezza, la pazienza!... Ebbe inizio, per quel rifugio, un'era
nuova. Don Sartori espletò rapidamente le pratiche con l'amministrazione, le
spese necessarie per trasformare le povere stanze in un ospedaletto in piena
regola, e, a poco a poco, gli aiuti finanziari affluirono. Ci vollero degli
anni, ma il miracolo si avverò: i sei o sette posti letto si trasformarono in
sessanta, e tutti occupati.