ArtePhoros  pagine azzurre

l'arte in linea...                                           il pensiero azzurro su ArtePhoros...

 

 

"L'arte si apre al silenzio

più reale e più significante di ogni discorso

per dimostrare che l'Informale o l'Action Painting

sono arrivati a un vicolo cieco,

quello della ricerca di significato dell'essere stesso,

nel tentativo di oltrepassare

la barriera del linguaggio"

Celant

 

Scrivono per "Artemìsia" di  ArtePhoros   MATTIA  ACCARDI  e  GIANNA  CAPANNOLO

CONTRIBUTI  CRITICI

Mattia Accardi

DIDATTICA  DELL'ARTE

Gianna Capannolo

 

Le Tribù dell'arte

Incontri a Villa Medici 

Una storia di volo

Le Tribù dell'arte II

Arte minimal

Piccolo e Monni

 

Uno spunto di lettura

La mostra

Topolino ai Musei Capitolini

Musei virtuali per l'infanzia

I mille volti di Bea

Appetito d'altri tempi

biography of Mattia Accardi                                                      biography of Gianna Capannolo

by Artemìsia © Tutti i diritti di pubblicazione sono riservati

PAGINE AZZURRE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le Tribù dell’arte

a cura di Mattia Accardi 

Desidero raccogliere la sfida lanciata da Ben Vautier nello spazio-piazza all’interno della prima sezione della mostra “Le Tribù dell’arte” curata da Achille Bonito Oliva alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma. Sui pannelli porte vestiti di nero, che chiudono un lato della “piazza”, Ben segna i seguenti interrogativi: “se tutto è arte perché fare arte?- io dubito – Is this art? (Ben)- Fate il contrario – guarda e pensa”. Sull’altro lato del cortile un grande pannello con scrittura infantile variamente colorata ci da la memoria del suo viaggio a Roma nella città “piena d’arte”. Qui riporto stralci di questo scritto: “il potere ha bisogno della cultura per guardarsi nel suo specchio, le tribù presenti (situazionismo, fluxismo, lettrismo…) hanno voluto mettere fine all’arte ma sono oggi istituzionalizzate e quindi hanno fallito…

Il problema è l’ego dal quale non si può uscire, l’ego del museo, del critico, dell’artista…

Per concludere io penso che si deve creare una nuova tribù che si chiama “i bugiatori” che hanno scoperto che l’arte e una bugia e cercano la verità (scritto a Roma il 25 aprile 2001) Ben”.

All’incrocio delle due pareti contigue così descritte è posta una sedia nera su un piedistallo quasi a pausa di riflessione e dietro ad essa una tenda nera attraverso la quale Ben ci conduce in uno spazio angusto in cui è appesa una tela bianca. Espressione esplicita della scritta “l’arte è finita, smettiamo tutti insieme” posta all’entrata della mostra.

Anche noi possiamo interrogarci insieme a Ben Vautier sul destino dell’arte e di noi cultori dell’arte. Quali i luoghi e quali le forme dell’arte in questo nuovo millennio in cui la velocità del fare, del pensare e del comunicare da a tutto una misura altra?

Muovendoci tra le forme e i luoghi di questa mostra troviamo oggetti rivisitati o riusati per stupire o provocare tra gioco divertito o smarrimento macabro, o tele ricche di energia primitiva, che carica la tela di colore o sequenze di piccoli quadri, che raccontano in un linguaggio estetico sovvertito un tentativo di rifondazione culturale, che ricorda, ma con altro segno, la radicalità degli Enciclopedisti del “secolo dei lumi”.

Nel viaggio fin qui condotto tra le suggestioni di quanto presente in mostra e il pensiero critico di Ben desidero sostare presso un’opera del 1990 di Nam June Paik, che si propone come pausa di riflessione e di congiunzione storica, come denuncia il titolo “Buddha, Duchamp, Beuys”: meditazione sovvertimento dei canoni estetici e intervento sull’ambiente. Una statua del budda con baffi disegnati in meditazione è accomodata su dei sassi bianchi e si riflette su un video su cui si incrocia l’immagine del visitatore che si inchina a guardare sullo schermo. E’ possibile così secondo Nam June Paik andare oltre l’ego trovare la nostra buddità”,  la verità più profonda del sé … e l’arte può fare solo da specchio.

In questa direzione ritengo di poter leggere l’intenzione del curatore di questa mostra, che così dichiara a conclusione di un articolo apparso sulla rivista ART e dossier di maggio 2001: “ Le tribù dell’arte dunque costituiscono uno spaccato della creazione artistica contemporanea alla ricerca di un equilibrio tra etica ed estetica, nella consapevolezza di un valore sociale che l’arte può non soltanto valorizzare ma meglio esprimere di fronte a un quotidiano pronto a frantumare solidarietà e partecipazione.”

Mattia Accardi, Roma, giugno 2001

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 Una storia di volo

di  Mattia Accardi

Sulle tracce dell’ultimo mio “tentativo di volo” la mia immaginazione mi conduce ad una scultura che ho fatto alcuni anni fa. Quest’opera è la testimonianza della morte tragica e prematura di un poeta le cui ali troppo fragili per volare in alto si spezzarono un giorno di primavera.

Un telaio di legno incornicia in alto un grande spazio vuoto, in basso due dipinti di cielo: il primo dai toni rosso-violacei reca dense nuvole percorse da strani uccelli; il secondo è attraversato, tra plaghe contrastanti di azzurro, da un grande squarcio bianco che apre in un grande volo alla luce. Due piccole ali di legno fissano alla base questa cornice e ancorano a terra questi due cieli.

Dinanzi all’incapacità di accettare l’ineluttabilità della morte falliva il mio “tentativo di volo”, rimanevo legata a terra da fili sottili e resistenti.

Negli anni che mi separano da quest’opera la mia anima si è colmata di speranza e una luce nuova la rischiara.  Immagino ora di tenere io un filo al quale è legato un aquilone leggero, azzurro giallo arancio bianco che ora volteggia dolcemente ora freme fino a ribaltarsi; guardo questo volo con amorosa attenzione, talvolta con ansia, aspettando pazientemente di volta in volta  di poter lasciare il filo quando il vento lo tirerà così in alto da confondersi con la luce del sole e perdersi nell’infinito.

La sapienza del cuore e della mente tiene come un filo il tempo della creazione, lo spezza quando l’opera è diventata luminosa e compiuta così da confinare con l’Assoluto.

Metafora dell’arte o della vita?

Mattia Accardi, Roma, settembre 2001  

(Contributo alla video-opera "Ennesimo Tentativo di Volo" dell'artista Piccolo Donato, pubblicato su "Il giornale di un solo giorno": un manifesto sull'arte del volo - Numero unico, Roma 22 novembre 2001).

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Allo Studio Miscetti di Roma

  DONATO PICCOLO  NARCISA MONNI

 di  Mattia Accardi

  La galleria romana di Stefania Miscetti ha presentato recentemente, con la mostra “Wőrter & Besitzt” curata da Mario De Candia, due giovani artisti, Donato Piccolo e Narcisa Monni, interessati allo studio del corpo umano e dell’immaginario che esso suscita.

     Nelle opere di Donato Piccolo il corpo umano è sezionato sotto forma di studi di anatomia su cui scorrono scritte luminose. Grandi foto in grigio presentano parti del corpo umano, forme bloccate, rivitalizzate dall’intermittenza rossa delle frasi che fluiscono su di esse con ritmo diverso. Questi grandi quadri rivelano per le linee e i valori chiaroscurali una bellezza ed una compostezza, che potremmo definire classica, se non fosse incrinata dall’artificialità delle scritte, come led luminosi.  Le scritte segnano, ora le traiettorie dei tendini innervandosi in un braccio, ora seguono come un bolo alimentare il canale esofageo, ora fuoriescono dalle orbite attraversando il campo visivo: tutto avviene in un felice intreccio tra le trame del biologico e quelle del pensiero. Sull’immagine di un torace è scritto: “Non c’è neanche il tempo per respirare”, sul dorso “Nel corpo non c’è più spazio per fustigare” e ancora: “Il comandante non dà la rotta quel che rimane è quello che fa il cuoco”.

Il valore formale è ben coniugato con il loro valore semantico nascosto e manifesto. In un corpo inerte, come una tavola anatomica, quel che si muove è il flusso del pensiero: un pensiero che in una campitura fredda ed immobile rivela la sua luce. Quel che rimane di vitale sono le tracce del pensiero, pur se inquietante: essere frammentati nel corpo, la nostra casa, è il massimo dell’alienazione: neanche il dolore fisico ci appartiene più, né il ritmo del nostro respiro. L’artista denuncia in aforismi pungenti la realtà alienante ed alienata di un corpo che non esprime più vita, né entro i suoi confini, né nel dialogo con un suo simile. Una rivisitazione di disegni leonardeschi del corpo umano tuffati nella realtà inquietante postmoderna.

     Con l’opera di Narcisa Monni il corpo umano acquista altre forme, forme al femminile, espresse con una diversa intenzione poetica e con un altro registro sintattico e comunicativo.  Dal grigio delle tavole leonardesche di anatomia di Donato Piccolo  si passa al rosa di tre albums di costume, che aspettano di essere completati con colori ed immagini.

     La galleria con Narcisa si trasforma, infatti, in un laboratorio in cui i fruitori della mostra intervengono a colorare, vestire il corpo dell’artista. Gli intervenuti partecipano a tale creazione utilizzando tre tipi di album-laboratorio su cui applicare e comporre i vari fotomontaggi. In un album il corpo dell’artista, in un caleidoscopico travestimento, indossa gli abiti di dive del secolo scorso: l’immagine della diva a tutta pagina, a margine la stessa figurina con il volto dell’artista, da ritagliare ed incollare. Nel secondo album Narcisa si trasforma in una Barby, che veste i sogni di una giovane fanciulla, in un poetico percorso di formazione sentimentale: su un corpicino svestito si vanno ad incollare degli abiti completi di accessori da indossare per le occasioni particolari nei sogni della giovane.

Nel terzo album l’artista diventa la florida fanciulla dei reclams, dell’inizio del ‘900 a cui ridare nuovi colori ma sempre mantenendo il volto dell’artista.

Diva, giovane educanda o florida fanciulla da reclams è pur sempre il corpo di una donna da manipolare in un innocuo gioco infantile, nel tentativo di riappropriazione dell'immaginario femminile, al di là dei condizionamenti sociali. Il percorso individuale

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Uno spunto di lettura

a cura di Gianna Capannolo

L’esposizione “Le tribù dell’arte” presenta numerose opere che si prestano a non essere solo viste ma soprattutto vissute. E’ questo lo spirito guida che dovrebbe animare il visitatore e condurlo all’interno del percorso espositivo. Le opere esposte suscitano l’azione, un’azione che sfocia spesso in un’azione ludica e spontanea. Oggetti praticabili, come “Ashiato” di Akira Kanayama, una lunga striscia bianca da percorrere seguendo le orme impresse, presentano uno spazio artistico con cui entrare in rapporto, mentre oggetti ludici per eccellenza, come un pallone gonfiabile, invitano al gioco vero e proprio. Quasi tutte le  opere si prestano facilmente ad essere agite più che viste,  con un’azione, che si configura come libera e spontanea. “Qualsiasi azione rende liberi” così scriveva S. Zweig e cosi si è portati a vivere questa mostra. I vari stimoli, sonori, visivi, motori e tattili, che lo spettatore riceve provocano infinite e molteplici impressioni come nel più classico dei giochi, dalla paura, allo spaesamento, all’ilarità o una curiosità viva, che porta lo spettatore non solo a fare un’azione per entrare in contatto con l’opera ma anche a giocarci liberamente come potrebbe fare un bimbo.

Gianna Capannolo, Roma, giugno 2001

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... La mostra

Dal 25 aprile al 7 ottobre 2001 alla Galleria comunale d’arte moderna di Roma si tiene l’esposizione “Le tribù dell’arte” curata da Achille Bonito Oliva. Divisa in due periodi: dal 25 aprile al 24 giugno verranno presentati i seguenti movimenti: lettrismo, situazionismo, Gutai, Fluxus, Happening ed alcuni  i maestri alieni o al di sopra di  ogni movimento artistico; dal 7 luglio al 7 ottobre la seconda parte dell’esposizione prevederà i rimanenti movimenti artistici. La manifestazione presenta 180 artisti e attiverà performance e concerti.

Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, Via Reggio Emilia,54 – Roma; tel. 06-67107900; Web www.comune.roma.it/gal_com  - orario 9-19, festivi 9-14, chiuso il lunedì.

Catalogo bilingue edito da Skira.   

Gianna Capannolo, Roma, giugno 2001

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Incontri a Villa Medici

a cura di Mattia Accardi

Si chiude a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia a Roma, la mostra di Rodin. Il suo classicismo espressionista fa da sfondo al lavoro di Marco Boggio Sella che interviene sulla serra, così come hanno già fatto altri 5 artisti, all’interno e a chiusura del progetto “La folie de la ville médis”, curato da Chiara Parisi.

Appena discosta dal bianco intagliato delle sculture della facciata di Villa Medici che si apre sulla simmetria ordinata del giardino belvedere si trova, in mezzo all’improvviso infittirsi della vegetazione, l’architettura semplice di una “casetta” nera sorvegliata sul davanti da un albero. L’architettura è elementare, ma provvista tuttavia di dignitosa essenzialità, grazie alla successione di pannelli laterali incorniciati che la chiudono e la contengono.

La serra preesistente si trasforma, come avverte Guido Molinari nella sua presentazione all’opera, in “una sorta di oggetto oscuro, un nucleo denso di incognite con cui entrare in contatto”.

A me ha risvegliato le paure e i desideri più nascosti: il luogo dove si ha paura, ma si desidera di entrare, un fondo inaccessibile e al tempo stesso invitante. Questa piccola casa si presenta, infatti, come un luogo chiuso e scuro, senza aperture,  inaccessibile, ma anche protetto perché avvolto in una morbida patina di nera fuliggine. Sembra quasi la casa della favola di Cappuccetto rosso che si trova nel fondo più scuro del bosco dove la bimba trova la nonna buona e  il lupo cattivo. E ‘ interessante come l’artista abbia saputo utilizzare l’essenzialità concreta di questa casa nera per farne un contenitore di emozioni così primitive, potenziando tale messaggio attraverso la cornice spazio-temporale in cui l’evento è inscritto.

In un’aula rettangolare aperta su un breve loggiato prospiciente il giardino cinquecentesco di Villa Medici illuminata da una grande finestra è la pittura di Sol Le Witt.

Sulla parete di sinistra è dipinta su un rosso squillante una piramide schiacciata a base pentagonale, definita da nervature azzurre; sulla parete di destra è disegnato un grande parallelepipedo costruito all’interno da una serie di rettangoli rossi troncato alle estremità da triangoli in fuga.

La prima parete ci dà una visione unitaria, misurata dello spazio: l’asse centrale che unisce il vertice della piramide con la base controlla il movimento centrifugo proposto dal ventaglio di triangoli che formano la piramide. La tensione tra interno ed esterno, sollecitata dal contrasto tra il rosso del fondo e il blu della figura, è ben bilanciata. L’altra parete propone invece il ripetersi delle forme attraverso la rete di rettangoli rossi che si susseguono in orizzontale, ma anche la definizione di esse attraverso il taglio operato dai triangoli. Le due grandi immagini che si offrono in questa sala antica raccontano insieme una visione dello spazio dell’artista americano: il fenomeno è descritto come equivalenza di luce-materia-energia che si proietta nella realtà come un’idea concreta captata dall’occhio e dalla mente dello spettatore.

Questa ricerca post-moderna di spazio, per profondità ed evidenza di immagine, può essere accostata ad altre importanti studi sviluppati nel corso della storia dell’arte. La pittura della parete di sinistra mi conduce lontano nel tempo per analogia di immagine, pur nella diversità di linguaggio e di ricerca, alla Pala d’altare della Pinacoteca di Brera di Piero della Francesca: una struttura piramidale in cui centralità e divergenza sono in equilibrata tensione. Nel quadro di Piero la centralità è segnata dal filo che scende dal soffitto con un uovo e che ruota attorno alla Madonna mentre la divergenza è data alla base dal gruppo mosso delle figure. 

Dopo questo confronto risulta più facile comprendere la validità delle iniziative promosse dall'Accademia di Francia di accostare l'arte contemporanea con quella del passato, rivisitando luoghi artistici con un linguaggio moderno, pur se accessibile a pochi visitatori e per eventi di breve durata. 

Mattia Accardi, Roma, 9 luglio 2001

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Le Tribù dell'arte II

a cura di  Mattia Accardi

La seconda sezione della mostra “Le Tribù dell’arte”, curata da Achille Bonito Oliva presso la Galleria  Comunale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma, si apre nel cortile della Galleria con le opere del gruppo giapponese Mono-Ha operante tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80 . Si tratta del contributo più interessante di questa  rassegna. La poetica del gruppo si esprime con le parole di Nobuo Sekine “…l’arte di oggi ha il compito di scoprire o inventare nuove interpretazioni dello spazio”.

Le opere di questi artisti con l’utilizzo di materiali  poveri ( ferro, legno, carta…) creano uno spazio fisico e mentale ben diverso da quello astratto disegnato dalla prospettiva rinascimentale. La visione filosofica taoista, da cui discende questa nuova costruzione spaziale, guarda alla natura e all’uomo come un unicum in cui rispondenze ed analogie si realizzano in un movimento concreto di generazione e distruzione. L’opera “Relatum” di Lee U Fan del 1969 è esemplare rispetto a questa visione filosofica della natura.

Quattro strutture di ferro ad angolo retto delimitano senza chiuderlo uno spazio quadrato; il perimetro del quadrato è interrotto tra una struttura e la successiva,  tale cesura crea un doppio movimento: lineare secondo la traccia di tale perimetro e interno-esterno grazie alla permeabilità tra l’area del quadrato e l’ambiente circostante. Un’altra struttura angolata, proposta all’entrata del cortile e incastrata in uno dei pilastri, diventa così un’unità di misura concreta per la conoscenza del reale.

Questa possibilità fiduciosa di relazionarsi alla realtà in forma totale e circolare, è presente anche negli artisti giapponesi di nuova generazione le cui opere sono esposte nel Padiglione di via Cagliari; la  ricerca artistica di questi giovani rappresenta infatti una coerente continuazione del gruppo Mono–Ha e dell’’atteggiamento poetico del gruppo Gutai, già visto nella prima sezione di questa rassegna. Le opere di questi artisti giapponesi sono video-installazioni e video che rappresentano un documento di una tale partecipazione - intervento al reale.

Questa  valenza autoriflessiva è caratteristica comune ai gruppi di artisti di questa seconda sezione della rassegna rispetto alla prima più esistenzialista, come segnalava Bonito Oliva in un’intervista su RAI 3 del 21/7/2001.

Disegno completamente diverso rispetto ai giapponesi è la ricerca del gruppo degli “azionisti” viennesi. La frattura  con la realtà vissuta dagli “azionisti” viennesi produce forme di arte di segno completamente diverso rispetto ai giapponesi: azioni cruente e macabre che hanno spesso come campo il corpo umano e come obiettivo l’intento di liberazione individuale dai tabù e dai pregiudizi sociali. Le opere che vediamo qui esposte sono immagini di sacrifici, castrazione di animali; sangue e interiora sul corpo umano che invadono lo spazio circostante; alcune tele accolgono una massa di colore putrescente, quasi residuo di tali sacrifici. L’azione sadomasochista si veste in alcune opere di Hermman Nitsh di una forma controllata: “Il laboratorio di odori “ espone strumenti chirurgici e sacchetti di polvere colorati disposti in sequenze ordinatissime.  

Seguendo la linea di analisi sin qui condotta notiamo la presenza di un altro   tipo di  intervento sul reale da parte di alcuni artisti che avvalendosi delle nuove tecnologie costruisce interessanti proposte estetiche (“Muro Pulsante” di Gianni Colombo, “Liquid Breath” di Piero Gilardi…)  o realizza documenti a fini umanitari  (i documentari di Alma Suljevic sulle operazioni contro le  mine antiuomo oppure i filmati di Maja Bajevic sulle rifugiate di Srebenica…). 

In un altro spazio espositivo un mixage di immagini scopre le varie istanze ideologiche ed estetiche affidate al video.  

La presenza in mostra di un gruppo di artisti denominato “ Capi tribù senza tribù “ evidenzia la validità di solchi di ricerca tracciati da figure isolate (Boetti, Schifano,Gilber e George, Klein…).

Il merito della rassegna  “Le Tribù dell’arte” è sicuramente quello di aver raccolto insieme, per la prima volta, in un unico percorso espositivo le esperienze artistiche degli ultimi anni.

Mattia Accardi, Roma, ottobre 2001

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Arte minimal

a cura di  Mattia Accardi

La mostra “La percezione dello spazio” curata da Giorgio Cortenova per la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Forti ci cattura in un flusso di suggestioni percettive che ci conduce alla riflessione sul rapporto tra l’opera d’arte e l’ambiente che la contiene.

La mostra si svolge su due piani e presenta otto artisti del Minimalismo americano della collezione Panza di Biumo: Dan Flavin, Carl Andre, Donald Judd, Sol Le Witt, Robert Morris, Phil Sims, James Turrell, Lawrence Weiner.  I vasti spazi del Palazzo della Gran Guardia, dove è allestita la mostra, ben si coniugano con le strutture primarie di Morris o di Andre o con la scatola percettiva di Turrell, con le stesure a parete di Sol Le Witt.

Dan Flavin presenta una sequenza colorata di tubi al neon che, posta in un angolo, appare come un’icona laica per la sacrale purezza in cui l’arcobaleno di colori si compone in presenza luminosa. L’opera, coerente con la poetica minimalista, si dà per se stessa nell’essenzialità del materiale e degli elementi che la compongono, realtà mentale che si pone accanto alla realtà fisica.

Due pannelli di grandi dimensioni con fasce disegnate di orizzontali e verticali che si alternano propongono l’idea di dipinti a muro (Wall Drawings) di Sol Le Witt. L’immagine, analoga come tracciato alle sinopie degli affreschi medievali e rinascimentali propone l’idea-progetto che per questo artista, veicola e rappresenta l’opera d’arte stessa.

Carl Andre costruisce, attraverso moduli intercambiabili distesi a terra in sequenza diversa, una scultura senza piedistallo né dettaglio in cui ogni parte ha le stesse proporzioni e la stessa qualità: è la materia che si offre nelle sue qualità intrinseche. L’opera “Altstadt Copper Square” del ’67 percorribile appartiene allo spazio reale nello stesso modo che le pareti e il pavimento in cui è collocata. 

Il rapporto attivo tra opera e spettatore è ancora più evidente in Robert Morris. E’ possibile infatti muoversi liberamente tra le grandi architetture geometriche di acciaio che propone come “Unitled /16 steel boxes)” del 1967 in mostra: i confini tra spazio dell’opera e spazio reale si sciolgono.

La fascinazione percettiva delle scatole metalliche di Donald Judd è data dalla evidenza matematica delle forme geometriche e dal gioco decorativo delle superfici colorate, traforate che interagiscono per valori luminosi con l’ambiente circostante.

James Turrell propone attraverso le sue “scatole ottiche” una riflessione sulla relatività dei fenomeni fisici e sulla loro reale esistenza. In “Night Passage” lo spettatore si trova coinvolto in un’esperienza di estremo spaesamento percettivo mentre percorre i lati di una scatola fino all’aprirsi fioco di una fonte luminosa.

Su una linea critica di riflessione è anche Lawerence Weiner. La sua analisi percorre un’altra via, vicina a quella di altri artisti della fine degli anni Sessanta come Robert Barry o Joseph Kossuth, in cui v’è identità tra forma e pensiero. L’opera di Weiner coincide con il linguaggio come vediamo nell’opera “Over end over and over and over  and over and over end” del 1971 riscritta su un pilastro dello spazio veronese.

Phil Sims si inserisce in questa mostra pur facendo parte del gruppo storico del minimalismo americano per la qualità di estrema purezza delle sue opere. Le sue tele monocrome nell’intreccio di tessiture opache e lucide offrono un’immagine ricca di riferimenti percettivi, emotivi, intellettuali, in cui il gesto dell’artista è pienamente assorbito dalla trama stessa del colore.

La ricerca di questi ultimi due artisti sembra rintracciare un filo rosso che collega l’arte concettuale nell’assoluta identità di pensiero e immagine di Magritte alla fisicità del quadro-oggetto della pop-art americana così da offrire per la comprensione degli artisti minimalisti qui esposti l’aspetto mentale di idea-progetto e quello oggettuale-evocativo

La mostra è pregevole, oltre che per lo sforzo organizzativo richiesto, per aver raccolto in poche opere la magia e la forza creativa di un momento fondante dell’arte della seconda metà del secolo scorso.

Mattia Accardi, Roma, novembre 2001  

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Topolino ai Musei Capitolini con i ragazzi

a cura di Gianna Capannolo

Nel panorama delle attività per i ragazzi fornite dai musei romani nella stagione 2001-2 va sicuramente menzionata quella promossa nei Musei Capitolini dalla The Walt Disney Company Italia. L’iniziativa è rivolta ai ragazzi dai 6 ai 14 anni e comprende oltre alla “visita-gioco”, “L’area Magico Artista” dove i ragazzi disegnano al computer le loro idee, “L’area Art Attack” dove creare opere e oggetti tramite il riciclaggio di materiali vari come avviene nell’omonimo programma televisivo ed infine “La Mostra Immaginarte” dove alcuni quadri famosi sono rielaborati con l’inserimento di personaggi Disney.

La sezione più innovativa e divertente è sicuramente la visita-gioco che conduce il ragazzo insieme al suo accompagnatore tra le numerose stanze dei Musei Capitolini ripercorrendo il periodo della storia di Roma che va dalla fondazione fino al trionfo di Augusto. La voce di Topolino dell’autoguida, fornita ai ragazzi ed ai loro accompagnatori, porta sulle orme di Gambadilegno, clandestino visitatore del museo, nel vivo dell’ennesima avventura e rende tutti partecipi nella ricerca del lestofante tra arte e storia. Attraverso domande, ai personaggi storici dei quadri e delle sculture, e giochi vari, proposti ad ogni tappa, si riesce a seguire le tracce del famoso malfattore ed a conoscere la storia di Roma nelle vicende più salienti. Una graziosa ed interessante indagine tra le stanze del museo, che coinvolge grandi e piccini, e presenta un aspetto ludico del museo Capitolino, che vale la pena sperimentare.

Per visualizzare la locandina della mostra clicca su Topolino

Gianna Capannolo, Roma, dicembre 2001

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Musei virtuali per l'infanzia

a cura di Gianna Capannolo

Vorrei segnalare un sito web che parla di arte, dedicato ai ragazzi, ai bambini ed agli adulti. Presenta alcune mostre che la Fondazione Antonio Mazzotta ha presentato in Italia in chiave didattica. Oltre ad una piccola mostra si possono fare attività didattiche, anche con quiz e verifica del punteggio ottenuto. L'unica pecca è la sua vastità: il visitatore si perde tra le sale dei musei alla scoperta dei vari autori. Il sito è ben ideato ed accattivante anche nella grafica, stimola alla visione ed alla scoperta di questo nuovo mondo che è il museo. Per visitarlo collegarsi al seguente indirizzo: www.mostra.artv.it

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I MILLE VOLTI DI BEA

 a cura di Gianna Capannolo

 

Mille volti, mille vite, mille personalità sono  questi i ritratti che Bea ci presenta e ci mostra, non  i volti anonimi e seriali che si incontrano quotidianamente, ma storie di una vita che si riversa sullo spettatore, che ti travolge e ti accompagna con i suoi sguardi , ti accoglie con il suo calore vitale e la sua nobiltà.Volti di donne soprattutto, la bellezza femminile vista con occhi nuovi regali d’altri tempi, in cui la purezza d’animo traspare sul volto e la si dona al mondo intero, dove la forza interiore impregna il quadro ed invade tutto il tuo sguardo.

Nei volti, negli sguardi, un’infinità di stati d’animo, un vissuto, una storia, la loro storia, resa con un disegno magistrale; si coglie la vita non solo la persona, resa con pastelli e matite ancor più ieratica nell’immediatezza dell’attimo.

La poliedricità della persona, del soggetto reso vivo e vitale si sente e si vede in tutta la sua essenza, lo si conosce, diventa un biglietto da visita fotografico.

Si può volere di più da un ritratto?

La mostra di Bea Petri con “Ritratti di famiglia-pastelli” è presente dal 7 al 18 marzo 2008 presso la Galleria dei Leoni in Via Margotta, 81 - Roma

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APPETITO D'ALTRI TEMPI

 di Gianna Capannolo  

 

              Nell’ambito della XVI edizione della Rassegna teatrale “Festa delle Scuole”, che si svolge a Roma dal 13 al 29 maggio 2008 al Teatro Andrea D’Aloe, il 21/5/08 si è svolta la rappresentazione “Appetito d’altri tempi”, una pièce nuova e brillante, un racconto accattivante in cui la trama si condisce (é proprio il caso di dire!) con un piccolo giallo: una famiglia “d’altri” tempi, della Roma antica, si trova catapultata per uno strano motivo in una famiglia della Roma attuale. Dopo tutte le difficoltà ed imbarazzi dei primi momenti si giunge a vivere una giornata insieme condividendo lo stesso tetto e, per quanto possibile, le stesse abitudini.

            Naturalmente lo scontro maggiore avviene al momento della cena. Sul piano alimentare la famiglia della Roma antica vede in un menù ricco di proteine e di pietanze il segno della loro ricchezza mentre la famiglia contemporanea è alla ricerca di cibi genuini, pietanze salutari e soprattutto frutto della nostra cultura mediterranea. Non a caso la commedia è scritta da un alimentarista a scopo didattico nell’ambito di una attività di ricerca tesa a promuovere abitudini alimentari quanto più sani ed equilibrati.

             La realizzazione ha colto nel segno con una interpretazione da parte dei ragazzi allegra e vivace. Un encomio particolare alle musiche ed al coro, in particolar modo alle due simpatiche e guizzanti lancette del tempo, filo conduttore dell’atto unico, che hanno saputo tenere la scena fino alla fine. Come anche un apprezzamento particolare va al cuoco contemporaneo molto ben interpretato.

            Un unico appunto è doveroso sulla realizzazione della cena, perno portante di tutta la commedia, liquidata con poche e scarne battute, e sulla scena finale, momento filosofico di disvelamento dell’escamotage letterario, che ha permesso il balzo temporale di XX secoli ad una famiglia romana, trattato sommariamente correndo frettolosamente verso il finale, risparmiando sulle battute, senza potersi godere tranquillamente l’atmosfera poetica creata.

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Mattia Accardi e Gianna Capannolo sono storiche dell'arte.     Per contattarle scrivete una  e-mail ad:  artephoros@iol.it

by Artemìsia © Tutti i diritti di pubblicazione sono riservati

 

"Io ho la dimensione di ciò che vedo.

E il vago chiarore lunare, completamente mio,

comincia a sfumare nel blu dell'orizzonte.

Ho voglia di alzare le braccia e di gridare cose

di ignota selvatichezza,

di parlare ai misteri sublimi,

di affermare una nuova vasta personalità.

Io ho la dimensione di ciò che vedo.

E la frase diventa la mia anima intera,

vi accosto tutte le emozioni che sento"

Fernando Pessoa