ArtePhoros pagine azzurre
"Ci interroghiamo sul nostro tempo.
Questa interrogazione
non si esercita in momenti privilegiati, ma precede senza soste,
e fa essa stessa parte del tempo... Un ronzio di domande.
Quanto valgono? Che dicono? Anche queste sono domande...
Quando Javeh domanda ad Adamo: "dove sei?", la sua
domanda significa che ormai l'uomo può essere trovato o situato
soltanto nel luogo della domanda"
M. Blanchot
L'immagine: splendore
della creazione.
di Francesco Chinnici |
Lungi dal volere esprimere un pensiero puramente teologico, diciamo che un punto di convergenza che accomuna tutti gli ambiti di riferimento speculativo, rispetto all'idea di uomo fatto ad immagine di Dio, è che se esiste una tale possibilità essa è da riferire senz'altro al concetto di libertà, in cui il divino e l'umano si compenetrano. Questo concetto di libertà racchiude in sé una miriade di significati e di valori che aprono orizzonti inimmaginabili, dal punto di vista del pensiero umano, nell'atto in cui esso formula rappresentazioni mentali capaci di usare simboli e costruire un linguaggio. In questo l'uomo si distingue dall'animale e si eleva per poter esprimere la propria similitudine al Dio creatore. L'attività che deriva dall'uso di questa facoltà della mente, permette di esprimere attraverso linguaggi, di cui l'arte è fortemente rappresentativa, le emozioni, le intuizioni e l'universo spirituale che vive in noi e che sarebbe impossibile esprimere con la semplice parola. Questo linguaggio trova pertanto nell'arte una sua forma espressiva che viene comunicata come forza creativa.
Tale forma di linguaggio rappresenta uno sbocco congeniale all'animo umano, desideroso di comunicare il bene e il bello che vivono dentro di sè come luce che non può essere nascosta. La realtà interiore dell'artista, dunque, diventa non solo opera di rappresentazione, ma soprattutto opera di mediazione, nell'atto in cui egli manifesta l'universo sensibile che è in lui e la maestà sublime ispiratrice e propulsiva di Dio che, donando la propria immagine, lo illumina, lo abbellisce, lo modella, lo trasforma continuamente e attraverso lui fa giungere un raggio dello splendore della propria luce infinita.
Ritorno in Egitto
di Francesco Chinnici
“Sorse
sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe. E disse al suo
popolo: «Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte
di noi. Prendiamo provvedimento nei suoi riguardi per impedire che aumenti,
altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro
di noi e poi partirà dal paese». Allora vennero imposti loro dei
sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro gravami, e così
costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses. Ma quanto
più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava e cresceva oltre misura;
si cominciò a sentire come un incubo la presenza dei figli d’Israele. Per
questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente.
Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni e con ogni sorta
di lavoro nei campi: e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza.
Il tempo durante il quale gli Egiziani abitarono in Egitto fu di quattrocentotrent’anni. Al termine dei quattrocentotren’anni, proprio in quel giorno, tutte le schiere del Signore uscirono dal paese d’Egitto, ordinati secondo le loro schiere” (Es 1,8-14; 12,40-42.51).
Questa
storia che ben conosciamo è la storia di un’oppressione, sopportata dagli
israeliti in terra d’Egitto, per mano di un potente faraone che adoperava ogni
mezzo per assicurare benessere a se stesso e al regno da lui governato,
costringendo quelli che ormai erano divenuti suoi schiavi, a subire pesanti
vessazioni sul piano morale, economico e fisico. Questo popolo incapace di uscire dai confini
della tirannia soggiogante del faraone, aveva però incontrato
l’amore paterno di Dio, che gli rimase sempre accanto e al tempo opportuno,
seppe suscitare in lui la forza di reagire a quell’umiliante oppressione.
Dopo
quattrocentotrent’anni vissuti in Egitto, molti dei quali trascorsi in
schiavitù, gli israeliti finalmente coronano un sogno: ritrovare la libertà e
la dignità per ricostruire la propria identità di persone e di popolo,
affermando così il diritto ad una storia non più calpestata e mortificata.
Il
Dio di ogni libertà, il Signore della storia, il difensore degli indifesi,
custode della dignità di coloro che ne vengono privati, si coinvolge totalmente
con loro, intrecciando incredibili e straordinari eventi che riescono a
riscattare e a far uscire questo popolo da quella condizione servile, alla
ricerca della propria liberazione, sempre più concreta e inarrestabile.
L’emblematica
storia d’Israele riguarda tutti noi, perché oltre a ricondurci alle radici di
una fede, ci orienta verso un dinamismo di liberazione, e rappresenta un monito,
quando in una qualsiasi parte del mondo riappaiono faraoni dispotici e
insopportabili o si ripropongono fatti e situazioni simili a quelli descritti.
Se
è vero che questa storia nel tempo si ripete, è anche vero che esiste “un
faraone di turno” che si adopera per poterla rendere più efficace possibile,
e allora bisogna chiedersi: chi è il faraone oggi e come possiamo riconoscerlo?
Il
faraone è un personaggio che si connota come “uomo della provvidenza”, un
leader generalmente, che attribuisce a sé la capacità di pensare e di
provvedere al bene di tutti, anche quando tutti non ne sono convinti. È un uomo
di potere, ma mistificatore, che sfrutta ogni occasione per ottenere il massimo
per sé, per quelli del proprio “rango”, e per coloro che condividono le
medesime finalità.
Il
faraone può anche essere un sistema oppressivo che s’instaura in una società.
In una visione più estesa e introspettiva, è anche un modo di vivere al quale
ci si conforma quando, spesso assorbiti e immersi in una vita, come è la
nostra, dai ritmi sempre più frenetici, non troviamo il tempo di fermarci a
pensare. Storditi, frastornati e confusi da un consumismo sempre più dilagante,
pensare diventa un privilegio per pochi, se pensare vuol dire non solo aver
delle idee, ma impegnarsi per difenderle, se ne vale la pena, e opporsi, opporsi
e ancora opporsi alle crudeltà della vita, fatta di un quotidiano troppo
frettoloso in cui rischiamo di non vedere ciò che la avvelena e dove
l’indifferenza si annida nelle opulenze di cui siamo circondati.
Quanti
faraoni del passato, ma anche del presente, hanno determinato lo scempio delle
coscienze, tutte le volte che esse sono state manipolate con ogni sorta di
sistemi coercitivi o propagandistici e quando personaggi grigi e oscuri, ci
illudono con i loro stupefacenti programmi di benessere per tutti.
La
storia e l’esperienza c’insegnano che lì dove viene meno la pluralità e il
rispetto per le idee e le opinioni altrui, si riducono gli spazi di libertà ed
emergono con recrudescenza fenomeni d’intolleranza. Quando manca la relazione
e il confronto nei rapporti umani e sociali e ci si chiude nelle proprie
certezze, a soffrirne è la crescita umana, la creatività, la fantasia ed
emergono ostilità, esclusione e ogni forma d’integralismo.
Se
la fuga dall’Egitto ha segnato un doloroso, ma necessario cammino verso una
meta di libertà dal faraone e da tutto il mondo che egli incarna, il “ritorno
in Egitto” rappresenta il cammino inverso, quello del ritorno a una
situazione di sofferenza, il mettersi nuovamente nelle mani del faraone,
l’affidare a lui la propria vita e il destino dell’intera società, perché
egli possa “provvedere” a sanare ogni ingiustizia e a trasformare la
speranza in un futuro migliore, in certezza da vivere.
La
storia vissuta negli anni più bui del novecento e le esperienze acquisite
attraverso i suoi eventi più tristi, evidentemente non sono state maestre di
vita, perché a me pare che la nostra storia nazionale ed europea stia
ripercorrendo delle pericolose tappe faraoniche.
Rispetto
alle vicende nazionali, stiamo vivendo un doloroso affanno alla ricerca di
garanzie di libertà che giorno dopo giorno ci vengono sottratte. Perfino i
valori umani e le prospettive di democrazia appaiono sfocati e tenebrosi, eppure
grandi masse di persone hanno scelto di “ritornare in Egitto”. Perché?
In
questo preoccupante scenario che ci si prospetta dinanzi, mi chiedo cosa pensa
l’uomo di fede, il cristiano. Mi chiedo se non si lascia catturare dai facili
conformismi; se si accorge che stiamo assistendo allo scempio della giustizia e
che le libertà e i diritti fondamentali vengono messi in crisi; se avverte come
urgente la difesa delle categorie più deboli: i bambini che subiscono ogni tipo
di abusi, i giovani e gli anziani che stentano a trovare certezze per il futuro,
gli immigrati, sempre più ai margini di un’integrazione, considerati merce di
scambio, gente da utilizzare secondo le convenienze del momento, ma alla quale
non concedere tanti diritti; se riflette sul fatto che anche il faraone ebbe
paura degli israeliti, come oggi noi ne abbiamo degli stranieri, dimenticando
che proprio noi siamo i discendenti di quella gente maltrattata in Egitto, fosse
solo per una tradizione di fede.
Mi
chiedo dunque: che posizione prende questo cristiano, rispetto a tutto ciò,
dove si pone? Gesù non ha forse indicato di passare per la porta stretta, che
significa prendere posizioni ben chiare in difesa dei più deboli, superando
tutti i conformismi e rimanendo vigili sui valori dell’accoglienza e della
libertà come beni supremi e fondamentali di ogni giustizia e fede, anche quando
ciò significa esporsi e pagare di persona?
E
dove sono i profeti di Dio? Dove sono queste sue bocche che parlano per
ricondurre il popolo alla riflessione, alla considerazione che egli è immagine
di Dio, non del faraone, che si lacerano le vesti e celebrano il lutto per la
morte della giustizia nel paese, che alzano la loro voce in difesa del debole,
del povero e dello straniero, che aprono gli occhi e le orecchie dei potenti
perché si pentano e ritornino a Dio?
Se è grave il “ritorno in Egitto”, è altrettanto grave che “i sacerdoti del tempio”, non colgano i segni dei tempi per affermare l’anno del Giubileo: «nel giorno dell’espiazione farete squillare la tromba per tutto il paese. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione di tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo» (Lv 25,9b-10a).
1
maggio 2002
Per una risposta ai vostri quesiti indirizzate ad artephoros@iol.it
oppure a Franco Chinnici, teologo: f.chinnici@tiscalinet.it
Stefano Volpe, Albero in Croce, 1999 - terracotta patinata e acciaio