ArtePhoros pagine azzurre
S T A N D P O I N T la scrittura dal punto di vista azzurro |
Francesca Accardi: Giornate d'esami Claudio Cogno: Spunta un capello Enzalba Elia: La memoria disciolta del nostro mare Domenico Franceschini: Annusare le immagini Elvira Lezzi: Oggi vestita di sogni Antonella Ruggiu: Un viaggio Chiara Sammartino: Pensieri di pace Peter Seidel: Mi chiede nostro figlio
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Oggi vestita di sogni Standpoint di Elvira Lezzi
...Vestita di sogni e di una nuova emozione: quella di guardarmi, di presentarmi attraverso un tuo gesto a persone ignote che possano condividere una frazione di spazio comune. Hai inventato una nuova, mostruosa bellezza: inviare oltre le pareti di una stanza, oltre il limite della propria mente quel che nasce e vive da un impatto di luce. E allora l'imbarazzo diviene sorriso. Oggi, uno dei primi giorni di un altro tempo, prevale il bianco sui tetti, domina un cielo di fiocchi e l'animo risponde lento e pacato a richiami lontani. Oggi credo di riconoscere il suono misterioso di una voce che insiste perchè io l'ascolti. Comincia così oggi, non so dire al calar della notte.
Elvira Lezzi, Vigevano 3/1/2001, e-mail: elezzi@libero.it
Un viaggio Standpoint di Antonella Ruggiu
Mi svegliavo la mattina da un sonno che sapeva di nave. Il marinaio con il battente di ferro dava la sveglia alle 5.00, cancellando così le ultime visioni di mare. Quella notte avevo sognato che la mia analista era diventata la prostituta nigeriana che dormiva nel letto di sopra. Il mare fa brutti scherzi, ma i sogni sono vividi ed a colori forti nelle cabine di seconda della Tirrenia. E quella notte avevano avuto anche un odore intenso, un odore di pelle nera, dolciastro, al quale nel corso dell'ultimo anno mi ero ormai abituata.
Le ragazze arrivavano ad Olbia ma facevano base a Porto Torres dove le vestivano e le piazzavano nelle varie zone dell'isola. Dopo qualche settimana ritornavano in continente. Io le beccavo o all'andata o al ritorno, mai le stesse però. Mentre i maschi, camionisti ed agenti di commercio erano sempre quelli, noti ed anonimi, come i marinai che dopo circa cinque anni comunque non ti riconoscevano.
Arrivavo alle 6.30 ad Olbia e in autobus raggiungevo la macchina parcheggiata gentilmente in un Istituto di suore. Generalmente il profumo cambiava e dall'Africa di seconda si passava all'incenso ed ai fiori misto di brevi aggiornamenti... due dei bambini affidati all'Istituto la notte prima non erano rientrati; la madre inveiva contro il padre scellerato, potevo provare a parlare con il giudice del T.M. cha a Sassari seguiva la pratica?
Ancora piena di languore mattutino attraversavo la campagna gallurese ancora brinata. Nella strada i pendolari si aspettavano sul ciglio. Incontravo i trattori che imboccavano i viottoli di campagna ed i camion pieni che provenienti dal porto ormai mi avevano raggiunta. Erano il mio incubo nelle curve della vecchia strada tra Olbia e Oschiri. Dopo un'ora, un'ora e quindici arrivavo a destinazione. Il Comune era già aperto, con le vecchine all'Anagrafe e gli anziani in piazzetta. Il mio ufficio luminoso e scheggiato (l'anno prima era scoppiata una bomba), era collocato al secondo piano, di fianco all'Ufficio Tecnico. Ufficio vocioso di dialetti ma abbastanza isolato da tutto il resto.
I messaggi e gli aggiornamenti... Tonio mi aveva cercata, la madre di Tonio era venuta disperata: il figlio era barricato nella sua camera con i soliti randagi che nel suo immaginario di san Giovanni Battista accudiva e proteggeva. La sera prima per dar prova delle sue doti si era bruciato la mano sul fuoco. Potevo andare a parlare con lui e convincerlo ad andare in ospedale?
Alle 9.00 in punto il signor Bertelli, genovese, trapiantato e scombinato mi veniva a trovare. Mi doveva parlare, ma prima potevo bere qualcosa con lui al bar? Si, ma a patto che come stabilito, si limitasse all'analcolico. La giornata era comincaiata.
Antonella Ruggiu, Stazione di Parma 2/5/2001, e-mail: havrug@tin.it
Giornate d'esami Standpoint di Francesca Accardi
Primo giorno d’esami di terza media: compito d’Italiano, un’aula, adulti in veste di alunni che attendono l’inizio della prova. Appena entrata spiego loro cosa scrivere sul primo foglio timbrato e cosa sul secondo foglio; poi li invito a copiare dalla lavagna quanto suggerito. In silenzio cominciano a scrivere. All’improvviso una persona tra i presenti comincia a dire che non ce la fa, che gli trema la mano (noto che gli trema davvero): non vuol più sostenere l’esame. Il panico lo assale. L’insegnante che lo ha seguito durante l’anno cerca di insistere, mentre i compagni lo esortano a ripensarci. Lo rassicuro dicendogli che non lo riterrò assente fino a quel momento e che potrà uscire per un po’, calmarsi, rientrare. Torna in classe appena dopo cinque minuti, mi stringe la mano e, dandomi del lei, ribadisce di considerarlo assente perché lui non ce la fa, non ce la fa… Lo sollecito a ripensarci ancora: si allontanerà, rientrerà, scriverà un bellissimo tema. L’ansia da prestazione che lo aveva bloccato (a chi non è mai capitato?) si era trasformata in forza espressiva.
Gli altri alunni, seri e concentrati dopo la scelta del tema, scrivono chiamandomi di tanto in tanto per qualche chiarimento.
Giro lo sguardo verso l’esterno: due cortili circondano l’aula, alberi e verde intorno; un recinto grigio, particolarmente alto, delimita la mia vista; tre uomini sono seduti a lunga distanza tra loro. Ho provato la sensazione di entrare in una dimensione dove il tempo non esiste, dove la fretta non è di casa e le azioni avvengono in modo volutamente prolungato. Sono rientrata con lo sguardo nello spazio chiuso della scuola. I volti di quelle persone mi sembrava di averli già incontrati per strada o in un posto che non riuscivo a ricordare.
“Ma cosa avranno di strano?” – mi domandavo. Continuavo a guardarli, con l’attenzione discreta ma pur sempre “indagatrice”di chi cerca conferme, per cogliere una stranezza nei loro occhi e qualcosa d’insolito nelle loro parole; quel tanto di irrazionalità che motivasse quel gesto inconsulto, violento che giustificasse la loro presenza in quel contesto.
Una risposta l’ ho avuta dai loro temi: una scrittura densa, pregna di emozioni, una punteggiatura di eventi e di vissuti che muovono alla commozione. Più che a“valutare” mi sono ritrovata ad accogliere e a condividere frammenti di storia. Un alunno-sessantenne ha scritto: “La pagina del foglio bianco mi angosciava. Gli esami sono scogli della vita, oggi io sono più forte perché ne ho superato un altro…” E ancora, una donna: “La maestra ha saputo comprendere e capire le miei parti deboli aiutandomi a combatterle e ad aprirmi di più”.
Dalla raccolta di testimonianze, poesie e racconti:
Si
assopiscono i miei perché
e
nascono i molteplici vorrei.
Vorrei
vivere una sola notte.
Una
sola, di completa libertà.
Volevo
soltanto vivere per te, figlia,
ma
la morte ti ha strappata a me.
Volevo
soltanto morire con te
ma
la vita mi ha strappata da te.
La loro realtà quotidiana finisce alla vista di una cancellata senza colore, perché questa scuola, che ha dei laboratori, una palestra e perfino una piscina, ha un nome particolare: O.P.G.
Lascio un documento in portineria, mi accompagnano in una sorta di labirinto. Porte a vetri chiuse a chiave, corridoi e sale linde e ordinate arricchite alcune da quadri suggestivi: sono opere dipinte dai pazienti, un tocco di colore vitale. Il percorso dell’andata è diverso da quello del ritorno, lo impone il regolamento. Il primo giorno ti senti protetta ad attraversare i cortili con l’accompagnatore di turno; il secondo ti chiedi per un attimo cosa potrebbe accadere o accaderti. La voce dello stereotipo torna a bisbigliarmi all’orecchio: “Ti sei dimenticata che sono violenti e pericolosi?”
Quando varchi i cortili vedi uomini, isole di uomini, raramente arcipelaghi. Si muovono lentamente, camminano a zonzo o stanno fermi. Scandagliano centimetri di territorio sempre uguale o scrutano l’orizzonte più remoto. E’ questo il loro contrappunto esistenziale, non altro.
Tornando a casa ero io ad essere colta dalla stranezza. Quale realtà e quale finzione di realtà? Il pensiero mi univa ai loro silenzi. Aspettavo il giorno seguente per continuare l’esperienza dell’esame e di ciò che ho scoperto esserci oltre. Una nuova consapevolezza capace di sottolineare la dignità di questi uomini e di queste donne in O.P.G. (Ospedale Psichiatrico Giudiziario), pronta a tutelare il diritto di affermare le loro delusioni e le loro speranze. Mi è bastato poco per dare ancora più senso a queste giornate d’esame, ma mi rimane il desiderio di conoscere il seguito della loro storia.
Scrive la poetessa Alda Merini:
“
Ma il giorno che ci apersero
i
cancelli, che potemmo
toccarle
con le mani quelle rose
stupende,
che potemmo finalmente inebriarci del loro
destino
di fiori.
Divine,
lussureggianti rose!
Non
avrei potuto scrivere
in
quel momento nulla che
riguardasse
i fiori perché io stessa
ero
diventata un fiore, io stessa
avevo
un gambo e una linfa”
Nello spazio che la società sentenzia come “malato”, grazie alla parola è forse possibile non escludere, dando vita a ciò che è muto e sordo e cieco.
Francesca Accardi, Castiglione delle Stiviere (MN), luglio 2001, e-mail: accardif@iol.it
Biography of Francesca Accardi
Mi chiede nostro figlioStandpoint di Peter Seidel
I
doveri contro gli ospiti stranieri bisogna tenerli incrollabilmente sacri perché
quasi tutte le trasgressioni contro gli stranieri sono, in paragone con quelli
contro concittadini, rimesse in misura maggiore alla vendetta di Dio; perché lo
straniero lasciato da solo da amici e parenti è più degno di compassione per
uomini e dei. Chi, dunque, ha un briciolo di senno in se si guarda bene fino
alla fine della sua vita dal commettere trasgressioni contro stranieri.
Platone,
Leggi.
Che
fare? Dove andare? Dove guardare per trovare un appoggio? Storditi come siamo
dagli eventi. Nel buio. Nel buio reso ancora più fitto dalla nebbia caduta
all’improvviso. Il giorno 11 settembre 2001. Arrivarono senza il minimo
presagio.
Nel
tentativo di orientarsi, di capire che cosa è successo in quel giorno parliamo
di una svolta dei tempi, dell’avvento di una nuova epoca del mondo. Del nostro
mondo. Il popolo del Ruanda la sua svolta l’ha già avuta. 800.000 Tutsi
morti, uccisi in pochi giorni nel 1994. Con preavviso. Con chiari segni di
preparazione per tutti che volevano vedere. Chi, allora, ha parlato di una
svolta dei tempi? Ma forse bisogna tornare ancora indietro per trovare la vera
svolta nella nostra epoca e guardare a Srebrenica, forse...
E
in Afganistan? “Jung“, come la guerra viene chiamata in afgano, distrugge
il paese sino dal lontano 1979. I genitori nelle migliaia famiglie profughi di
mattina non sanno cosa dare da mangiare di sera ai figli. I ragazzi non vanno più
a scuola da anni. Le madri di queste famiglie attraverso il tessuto del “burqa“
dicono che sarebbe meglio morire subito che dover andare avanti ancora.
Nel
buio e nella nebbia creati dalla polvere del cemento armato delle due torri del “World
Trade Center“ che ci circondano dopo i mostruosi attacchi sentiamo voci.
Voci che strillano “guerra probabile“, “attacco militare inevitabile“,
“terrorismo islamico“, „chi non è con noi, è contro di noi“. Voci
che trovano il loro eco nei passaggi sotterranei del metro di Bonn quando il
signore tedesco attacca la signorina araba: “Non si vergogna di portare ancora
il foulard...?“
Mi
chiede nostro figlio: „Erano cattivi quelli che hanno fatto volare gli
aeroplani contro i grattacieli?“ -
„Si, erano molto cattivi.“ - „Sono morti anche loro?“ - „Si, sono
morti anche loro.“ - Perché hanno fatto questo?“ -„Non te lo so
spiegare.“
Peter Seidel, Bonn (Germania), ottobre 2001
Confessione notturna davanti all'altare telematico Standpoint di Enzalba Elia
Che cosa cerco su queste pagine elettroniche? A chi rivolgo parole smesse dal caos quotidiano dei pensieri, tirate fuori da emozioni ingiallite come vecchi capi di un sontuoso corredo mai usato, dalla sepoltura gelosa di naftalina nel baule di un cuore che ha sempre avuto paura di aprirsi, di mostrare all'aria e alla polvere il suo contenuto, di spendersi nell'uso condiviso della vita che macchia, che sporca e logora e consuma, che non è mai quella giusta, come il presente non è mai il momento giusto, e la grande occasione è sempre mancata o da venire...?
Cerco l'altrove immaginato come il mondo libero di chi vive per scelta e non per necessità, cerco l'altro da me come la fonte di una risposta incessante, di un'accoglienza spregiudicata e invincibile, di una conferma totale della mia esistenza necessaria e benefica. Cerco di penetrare i varchi oscuri del muro del pensiero, e sbatto sulla liscia superficie dello specchio che sogghigna alla mia anima. Non esiste che il tempo, in questa notte di orologi ticchettanti e cani ululanti e radio dimenticata sulle battute di un dramma di voci antiche.
Altrove forse si dorme si ride si fa l'amore si viaggia si contano i soldi si ripara un rubinetto. Altrove forse il pensiero scorre senza intoppi verso il suo compimento creativo-la scelta, la consapevolezza, la contemplazione, la limpida soluzione di un quesito, l'ardita costruzione teoretica. Altrove ancora si espande il sentimento nella gloria piena dell'immediatezza, si dona senza riserve al suo oggetto-d'amore odio nostalgia affetto gelosia pietà invidia rancore tristezza gioia furore.
Altro è ciò che non sono, perchè non ho voluto o potuto, perchè il baule serrato ha difeso il suo contenuto da ogni sguardo o contatto, o forse perchè quel contenuto non era che stracci, o ancora forse non c'era alcun contenuto.
O forse è il baule il suo stesso contenuto, questa forma piena di sè, piena perchè chiusa, chiusa perchè l'immaginario la riempia di tutti i possibili tesori, di tutti gli orrori possibili.
Dev'essere così. Si, è la vita che mi vive, non so se da dentro o da fuori di me, del baule.
Mi sembra di non poter più volere.
Saltato il catenaccio, rovesciato il coperchio, una nube di polvere impalpabile si spande, in cui si disfa per sempre quel che sono e quel che non sono, come dal sarcofago egizio si dissolve, appena scoperto, il suo millenario segreto.
Annusare le immagini Standpoint di Domenico Franceschini
Le interpretazioni trasformano l’immagine in significato.
Hillman dice che le analogie mantengono presente l’immagine, viva e operante, come se passando dal piano visivo a quello verbale non potesse capitarci di sbattere il muso contro quell’invalicabile muro che da sempre sbarra il passo agli artisti rendendoli incapaci di esprimere appieno una qualsiasi emozione con le parole. Ma ascoltiamolo ancora.
In “Typologies,” dice: <<Riprendiamo qui un’idea di Jung….secondo la quale immagine e istinto sono componenti inseparabili di un unico continuum. Come vi sono immagini negli istinti, così, si potrebbe dire, che vi sono istinti nelle immagini. Le immagini sono corpi. Le immagini d’animali dell’arte, della religione, dei sogni, non sono semplicemente raffigurazioni degli animali, ma ci mostrano anche le immagini come animali, come esseri viventi che si aggirano in cerca di preda, che ringhiano e vanno nutriti.>>.
Da parte mia, utilizzerei sempre e soltanto delle immagini disegnate o, meglio, dipinte e ovviamente in un rapporto di corrispondenza molto libero (essendo impossibile la riproduzione puramente mimetica di qualsiasi tipo di realtà) per dar realmente corpo all’immagine in oggetto (come nella cura omeopatica).
Ma evidentemente di ciò Hillman si rese conto se nel suo “Image-sense” scrisse: <<E’ questo che intendo per corpo dell’immagine: i suoi confini particolari, che sono la sua forma e il suo modo di operare. Le immagini non operano per noi quando non siamo capaci di percepirne il corpo con i sensi. Ed è il naso a ricordarci che le immagini hanno un corpo….sono animali.>>. Poco prima aveva detto che un odore è presente tutto in una volta, al pari delle immagini. <<Non c’è un inizio, una meta e una fine come nelle storie. E’ quindi minore il rischio di leggere le immagini come narrazioni…Gli odori, come le immagini, sono riflessi, effluvi; non hanno una propria qualità olfattiva, nessun contenuto al di fuori di un particolare corpo. Gli odori non si reggono da soli; vanno legati a un’immagine. Profumo di rosa, fragranza di pane, puzza di raffineria. Ogni odore rimanda a una particolare immagine alla quale è inerente.
Se un’immagine non è ciò che vediamo, bensì il modo in cui vediamo, allora il ricorso all’olfatto ci ricorda che per percepire un’immagine non c’è bisogno di vederla. Anzi ci ricorda che non possiamo vedere le immagini; le mantiene, cioè, deletteralizzate…Insomma, annusando le immagini, confermiamo l’archetipo come sensazione presente di fatto nell’immagine e non siamo costretti ad esagerare la sensazione definendola luminosa o soverchiante. Gli odori non possono essere evocati; agli odori siamo soggetti; dagli odori siamo assaliti, trasportati nel loro mondo.>>. Un mondo di sensazioni archetipiche, come il mondo infero.
Domenico Franceschini, Fontecchio/S.Pio (L'Aquila) novembre 2001, e-mail: dom53@tiscalinet.it
Arte e convenzione: chi è l'artista?Standpoint di Domenico Franceschini
E. H. Gombrich, nella sua opera “Arte e illusione”, ritiene che: <<Il fare precede l’imitare perché, prima di sentire il desiderio d’imitare gli aspetti del mondo visibile, l’artista ha sentito quello di creare degli oggetti autonomi. Né questo vale solo per certo passato mitico. Infatti, anche il processo d’imitazione procede attraverso le fasi di schema e correzione.
Ogni artista deve conoscere o costruire uno schema prima di poterlo adattare all’esigenze della riproduzione dal vero. Quale che sia stata la resistenza iniziale ai quadri degl’impressionisti, passato il primo choc, la gente imparò a capirli e, appresa questa lingua, scoprì con grande piacere che il mondo visibile poteva dopo tutto essere visto sotto forma di macchie luminose, di bioccoli di colore. La trasposizione funzionò perché l’artista non vede necessariamente più del profano, tuttavia egli arricchisce la nostra esperienza offrendoci un’equivalenza nel mezzo che ha a disposizione e che può funzionare anche per noi.>>.
Ma chi è in realtà l’artista? Ernst Kris e Otto Kurz nel loro libro “La leggenda dell’artista”, dicono molto a proposito che: <<La nascita di notizie tradizionali sulla vita e la carriera dell’artista è un fenomeno che si verifica solo quando comincia ad affermarsi l’uso di collegare l’opera d’arte con il nome del suo creatore non svolgendo più il manufatto alcuna funzione religiosa, rituale o magica.>>. La loro tesi è che, non appena compaia nei documenti il nome dell’artista, vengano collegati dei cliché stereotipati alla sua persona e che questi preconcetti influenzino tuttora il nostro modo di giudicare un artista. Questi temi biografici fissi danno vita appunto alla leggenda dell’artista. Evidentemente gli autori considerarono di nessuna rilevanza il problema dell’occasionale veridicità di singole affermazioni contenute in un aneddoto interessandosi esclusivamente alla sua ricorrenza.
<<Uno di questi “topos” narrativi è il carattere autodidattico dell’artista il quale gode anche della fama di maestro ispiratore. E’ però del tutto chiarito che non ci fu alcun rapporto d’alunnato tra Cimabue e Giotto, ma l’invenzione fornì una genealogia all’eroe culturale che contribuì alla rinascita dell’arte nostra. Più tardi la storiella della casuale scoperta del pastorello di genio che immortala i suoi animali, viene riproposta sia per Zurbaràn che per Goya. Quando nel Rinascimento si diffuse l’idea che la creatività artistica è frutto di una dote speciale per cui artisti si nasce e la genialità non deriva dall’insegnamento o dalla pratica, anche il modo di valutare l’arte cambiò e il non finito, che per Michelangelo era più finito del finito, venne apprezzato in sé per sé. Tale dottrina era in totale contrasto con i canoni dell’estetica medievale.
Dapprima attribuito dunque a Michelangelo e ad altri artisti, l’aggettivo divino ha finito per penetrare nel linguaggio comune fino a trasformarsi, come nell’epiteto diva usato oggi per cantanti e attrici di grido, in una formula stereotipata. Puramente fantastica è l’idea ricorrente dell’artista dal duplice ruolo: mago cattivo e creatore possente e, quella che i romantici consideravano prerogativa dell’artista, dissolutezza e libertà sessuale, anticamente si condannava aspramente.>>. Per Werner Hofmann non si può insegnare l’arte, né si può insegnare a capirla. Dovremmo ritenerci soddisfatti <<…se riuscissimo noi stessi a renderci accessibili all’arte senza cercare di rendere accessibile l’arte. Forse varrebbe la pena di fare un tentativo per introdurre l’arte dentro di noi, con la portata di tutti i suoi equivoci, come se fosse uno strumento di misura (la misura!). La tacca fino alla quale possiamo lasciarla affondare, indicherebbe le profondità che siamo in grado di raggiungere.>>.
E ancora nell’opera “I fondamenti dell’arte moderna”, l’autore c’invita <<ad abituarci al fatto che l’arte è un concetto convenzionale con cui ogni epoca recinta ambiti differenti perché l’estensione dell’artistico puro ed eterno cresce nella proporzione in cui sbiadiscono altri ambiti di senso in cui inizialmente si collocava l’opera d’arte ed ecco, per esempio, l’oggetto di culto (la pala d’altare o altro) sopravvivere al culto e diventare creazione artistica, oggetto per collezionisti e musei. ++ Il quadro cubista dipinto da Braque nel 1910, Natura morta con violino e brocca, presenta in alto un chiodo che getta un’ombra obliqua sulla tela, entrambi dipinti.. L’introduzione del chiodo - per lo studioso d’arte - richiama la nostra attenzione su una particolarità che distingue il dipinto cubista da quello illusionista e cioè, se l’artista decide di restituire un pezzo di realtà, si trova completamente privato della possibilità di lasciar intervenire il valore in sé della superficie…>> e l’autonomia formale del quadro viene meno. Questo sforzo di restituire alla tela, come quadro dipinto, la sua realtà formale, corrisponde nel trasformare l’unico punto di tangenza alle cose (il riccio o il cavicchio del violino) in un elemento che, in relazione al chiodo, appartiene all’ordine della composizione. Nella misura in cui il quadro smette d’imitare oggetti sotto forma di realtà illusive e continuate, diventa esso stesso un oggetto autonomo.
Si scopre la possibilità di reificare la superficie dell’opera. <<Sembra che il chiodo stia conficcato in una superficie materiale. Lo sfondo in cui è infilato, è il quadro cubista non un piano fittizio senza vita propria, ma qualcosa di materiale e concreto. Relativamente alla natura morta di Braque, possiamo dire che alcune linee significano contemporaneamente i contorni di un oggetto e linee originarie astratte. I cubisti, creando una realtà formale, la distinguono da quella della tela come tessuto di cotone. Cos’altro cercava il naturalismo se non restituire sulla tela fatti empirici nel modo più fedele alla verità? Da questo punto di vista, la scelta di smettere di dipingere gli elementi della realtà per incollarli semplicemente sulla tela, è l’estrema conseguenza della registrazione dei fatti che aspira ad un’attendibilità documentaria ma significa anche la rottura con la tradizionale prassi pittorica la cui ambizione consiste nel trasformare senza lacune tutta la tela in pittura.>>.
Invero, con il collage, che contiene fatti incollati, sono esclusi il talento pittorico dell’artista, il suo temperamento e la sua personalità perché egli presenta semplicemente un certo fatto interrompendo l’ideale bidimensionalità della superficie dipinta. Mentre la pittura si espande verso la terza dimensione, il futurista Boccioni tende, utilizzando, invece di bronzo e marmo, materiali lavorati d’ogni genere, a screditare il gesto creativo, il pathos prometeico. <<Invece dell’atto creativo - dice di lui l’Hofmann - che trasforma la materia traducendola in una realtà artistica compiuta, vuole stabilire il principio del “montage” che lasci inalterata la sostanza materiale.>>. Del resto, anche i cubisti, creando una realtà formale, la distinguono da quella della tela come tessuto di cotone. <<Presupposto di questo processo di reificazione è che l’artista senta complessi e molteplici i contenuti della percezione, quelli dati nella realtà come quelli che è lui a produrre, cioè i suoi segni formali.>>.
Domenico
Franceschini, Fontecchio/S.Pio (L'Aquila) novembre 2001, e-mail: dom53@tiscalinet.it
L'altrove e il dono Standpoint di Enzalba Elia
...una prospettiva capovolta della mia ricerca sull' "altrove", non più come luogo del desiderio insoddisfatto (dunque anche dell'avidità e dell'invidia), ma come "luogo dell'altro" da incontrare e con cui scambiare (aiuto, ascolto, storie, legami e connessioni, servizi e doni).
Vuol dire porsi nella condizione non più di chi non ha e richiede, ma di chi ha qualcosa da valorizzare per lo scambio, da donare a chi ne ha bisogno, da mettere a frutto per gli altri e con gli altri.
Questo forse vuol dire anche ritrovare una propria identità (la casa dell'Io forse?)...
Mi viene in mente un esagramma dell' I Ching, il n° 21 -"Il Morso che Spezza". Ha come immagine una bocca aperta, tra le cui mascelle si trova un ostacolo, un boccone duro da rompere, per cui la bocca non si può chiudere, non è possibile mangiare. La sentenza legata al segno dice di leggi stabilite con chiarezza, di un giudice giusto e clemente che applica le pene previste con rigore e saggezza. E la figura relativa mostra il viavai di un mercato, in cui fervono gli incontri e gli scambi sotto il sole...
Dare e ricevere. A ciascuno il suo. Solidarietà e giustizia. Ogni cosa ha il suo prezzo e il suo valore.
La concezione degli opposti complementari, così lontana dalla cultura occidentale, si mostra qui nell'idea che nessuno è così misero da non aver nulla da dare, e nessuno così ricco da non aver nulla da chiedere - perciò ogni dono, ogni scambio, è equo e solidale.
Enzalba Elia, Castelvetrano (TP), novembre 2001, e-mail: albaelia@libero.it
Pensieri di pace agli incroci della fantasiaStandpoint di Chiara Sammartino
Ma cos’è questo vortice tumultuoso che ci trattiene ad ammirare stanze le cui pareti si aprono su tele multicolori?
Al centro della grande sala espositiva divento io stessa protagonista. Penetro innumerevoli sguardi dai duplici significati mentre tu mi stringi adagio le spalle. Il tuo largo torace mi trattiene delicatamente dalla mia inquieta fuga. E mi nascondo dentro un quadro, appena dietro l’ancheggiare incerto di una figura che svela un corpo minuto.
La sua mano esile, ma non elusiva, mi sostiene. Evito così di precipitare fuori dalla cornice e di cedere alla rude visione della realtà.
Quasi barcollante mi abbandono alle carezze di un pennello. Mi lascio sporcare e con sano piacere mi faccio trasformare nella Vichinga che vedi in me. Continuo a guardare il tuo volto ed il mio che ho appena dipinto.
Zone d’ombra, passaggi simbolici attraversano lo sguardo tatuato sulla tua pelle. I ritratti in codice elaborati dalle pennellate e dalla loro delicatezza nel mostrare toni e sfumature, costruiscono tra noi fiducia.
Soltanto tu saprai riconoscere i colori veri, quelli che non appartengano alla maschera che sempre ci accompagna e che devia chi non conosce i nostri percorsi.
Estetica ed esistenza si incrociano in un volto di giullare, dall’allegria davvero buffa, che diventa malinconia sul mio sorriso spento.
Ho tracciato linee che non ricercano i tuoi folli istinti. I contorni scuri del disegno frenano certo il tuo animo giocoso.
Sei forza dirompente, pura virtual fantasy. Quei verdi e quel bianco che ho dipinto su grandi campiture erano forse un richiamo di pace, una rassegnazione o una richiesta d’aiuto: comunque desiderio di serenità.
Vola alto paloma di Neruda; crea ancora ulivi di saggezza paloma picassiana, mentre, qui, ti chiedo di restarmi accanto, cara amica arte.
Chiara
Sammartino, Birbesi di Guidizzolo (MN), marzo 2003, e-mail: sammart@iol.it
Spunta un capelloStandpoint di Claudio Cogno
Spunta un capello ai bordi del
letto…mi manca la sintonia mentale, la cultura, il confronto culturale, la
sensibilità ideale…ed è il giorno del tuo compleanno …e che io non ci
sono.
In questa voglia di amare il mondo
e la vita devo fare i conti con la solitudine, nuda e cruda. Penso: “Ogni
volta che pensi di dare un senso al tuo vivere ecco che si oppone,
riappare, riaffiora per contraltare, l’esatto contrario del senso di
vivere”.
Cerco in ogni modo di allontanare
questo cattivo pensare, ma, d’altra parte, chi e perché dovrebbe passarmi
la chiave di lettura? E che senso avrebbe per me la sua chiave?
Scopro un mondo molto più amaro di
ciò che ho desiderato, molto più feroce di ciò che avevo sperato possibile,
un vagone di perfidia e di invidia, di gelosie ed egoismo, di esaltazioni
individuali e falsità intellettuali e culturali. Fatto di azioni subordinate
ai forti e ai primattori, agli imbonitori camuffati di democratica parvenza.
Scopro la falsità del tornaconto e l’incapacità di… amare veramente.
Solo i tuoi sguardi hanno
pacificato il mio cuore stasera, a distanza ma diretti come laser nel
ventricolo dell’affetto più leale.
Vorrei averti qui, in pace io e te,
il valore di quella pace possibile e desiderata, quella pace così altrimenti
calpestata da comportamenti individuali perpetrati all’infinito sulla via
dell’arroganza e del mostrarsi.
Dio come siamo poveri, come mi
sento povero a volte, se penso a quelle tiritere umane che cercano solo
vendetta e rivalsa.
A che serve la notte e il giorno se
non è possibile una pacificazione dell’animo?
A che serve proliferare se non
superi i disagi relazionali, e che può sentire un bimbo nato dalle
competizioni e dalla presunzione? Altresì, per fortuna, mi porto lo sguardo
indagatorio e ridente di una
bimba nata dall’amore più strano e più incredibilmente vero: se solo
sapessi cavalcare la pioggia verrei di goccia in goccia fino ai tuoi capelli e
percorrerei il tuo corpo sino ai piedi…invece cavalco pioggia di lacrime,
poiché non trovo riscontro nelle facce altrui di ciò che sento ora solo come
illusioni.
Stanotte non posso che immaginarti.
Guardo fuori dalla finestra, la
distesa della pianura in direzione nord; in fondo le montagne coperte di neve
fanno un senso di pace, come se tutto fosse a posto e nulla le turbasse: “
La prossima vita saremo così – immagino – però vicini ”.
Claudio
Cogno, Carpenedolo (BS), dicembre 2003, e-mail: lucla2003@libero.it
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Nelle acque brevi dell'aurora
dove le nuove lune e gli ultimi soli
Uno dopo l'altro
vengono a bagnarsi
Un minuto di primavera
dura spesso più a lungo
di un'ora di dicembre
di una settimana d'ottobre
di un anno di luglio
di un mese di febbraio
Nomadi di sempre e di dopo e di prima
il ricordo del cuore
e la memoria del sangue
viaggiano senza carte e senza calendari
completamente estranei
nella Nazione del tempo.
Jacques Prévert
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