Nunzio Platania: "Odissea"

La barca

Era enorme, minuscola, spartana, lussuosa, di legno, appollaiata su trespoli.
Il rivenditore mi guarda sconsolato: - La prende? -
Era la terza volta che ci tornavo a vederla e lui cominciava a scocciarsi. Avevo un nodo alla gola, inghiottendolo con fatica mi esce un flebile: - Non so ancora, devo vedere... forse domani. -
Girò i tacchi visibilmente irritato. - Non me la darà più - mi folgorò dentro - Aspetti... per il prezzo... -
- Gliel'ho già detto l'altro ieri - vociò il cerbero - unmilionesettecentomila. -
- Va bene la prendo - mi usci senza il permesso della volontà, mi si attorcigliarono le budella... Eravamo dalle parti di Pordenone... nel 1974... La Sicilia dove dovevo portarla, dall'altra parte del mondo. Io avevo trent'anni e lei sui trespoli mi guardava dall'alto e dal lungo dei suoi cinque metri.
Non aveva nome... Ma non sapeva che l'avevo già battezzata... Dafne, la prima e come ogni primo amore l'indimenticabile. Il cerbero si ammansì con l'acconto.
- La porta via subito? -
- No, tra un mese, devo prendere le ferie, ma vorrei provarla prima. -
La fecero malamente rotolare giù dai trespoli e la misero in acqua. Assunse subito quell'aria magica che ebbe per i successivi undici anni. Quando calcai per la prima volta il suo ponte si piegò dolcemente dal mio lato e mi accolse con un dondolio celestiale. Entrai nell'angusta cabina... niente... il puro vuoto... non un oggetto... un gradino e poi basta. Rannicchiato, mi guardavo le ordinate di mogano con le opache tracce di una verniciatura ormai screpolata, rovistavo nei gavoncini, sotto il tavolone che fungeva da cuccetta, una sassola, alcune cime e due ammuffiti sacchi a prua.
Mi intrufolai nel cunicolo e tirai fuori i sacchi. La randa portava un bel simbolo della veleria. Il fiocco aveva delle vistose macchie di ruggine e i pistoni dei garrocci erano bloccati, sul fondo del sacco una lunga cima nera. Sotto il pagliolato un ancorotto a ombrello saldato a un metro di catena, attaccata ad una sfilacciata cima piena di catrame rinsecchito.
E tutto... la mia nave e tutta qua.
Uscii nel pozzetto, squadrato, spartano: due panche, un golfare al centro del pagliolato, due gallocce alle sponde laterali. Il boma di legno faceva bella figura attaccato alla draglia di dritta, l'albero di legno, mi parve enorme, aveva l'attacco della canaletta scheggiato malamente. Una delle sartie era stata allungata con un maniglione zincato. Appeso sullo specchio di poppa uno sconosciuto Ducati cucciolo 5 hp, il tubo dell'erogazione fuoriusciva da un foro del gavone e pendeva mestamente. A lato il timone esterno, con due lucenti agugliotti in acciaio. La barra aveva un tubo di plastica verde all'estremità.
Le mie arterie pulsavano pericolosamente. Ero un miscuglio di sentimenti che turbinavano senza pietà. La gioia, avevo la mia prima barca, si mescolava indisturbata coi tormenti - Ce la farò a viverci dentro per un mese con tutta la famiglia? E ... come si fa a portare una barca a vela in Sicilia da qui? Ho fatto bene... è una follia... Non sai niente di navigazione, testone. Dovevo farlo... ti ammazzerai... ci voglio provare.

Prima uscita

- Esco per provare la barca... - dico a uno che si trovava sul pontile.
Estrassi dallo zaino con cui ero partito dalla Sicilia il mio striminzito libro di navigazione, Mondadori economica, ma non volevo farlo vedere al marinaio che mi guardava con un'aria perplessa.
Il motore partì al primo colpo, e questo mi riempì per un attimo di felicità ma la staffa non voleva scendere giù. Arrivò il marinaio e dal pontile mollò un pedatone dall'alto... fatto. - Grazie... - Non mi rispose neppure.
Avevo avuto un gommone per tanto tempo; quando la barca si scostò dal moletto e eccellerai un poco senti che potevo farcela. Si muoveva e per il momento mi bastava.
Mi allontanai un mezzo miglio circa al largo. C'era una leggera brezza che veniva da terra.
Avevo studiato durante il viaggio in treno come si fa a montare una randa. Meticolosamente, seguendo le istruzioni, cominciai: canaletta del boma, fissare l'estremità, inferire gratile, dopo aver armato la randa con le stecche... Accidenti non c'era traccia di stecche tra la mia favolosa attrezzatura! - Non saranno essenziali - mi confortai.
Drizzai, la vela: svergolava, - Bisogna mettersi con la prua al vento - Accesi di nuovo il motore e misi la prua a terra, andai all'albero lasciando il motore acceso, prima di arrivarci la barca era di nuovo al traverso e la randa strisciava malamente contro le sartie e non andava su. - Come si fa? - Tornai al motore rimettendo in rotta, spensi, mi precipitai, la vela andò su... piena di pieghe strane.
Afferrai la scotta dal paranco che avevo montato sul boma e alleluia...
la barca si muoveva, adesso, spinta innegabilmente dal vento, con me a timone!
Gioia divina per quasi un'ora durante la quale feci calcoli su calcoli: - Mettiamo che faccio 20 Km al giorno L'adriatico è circa... (quant'è lungo l'Adriatico? Boh? m'informerò) mettiamo 1000 Km diviso 20 fa 50 giorni.
Dopo 50 giorni di questa pacchia la mia barca entrerà trionfante nel porto di Catania! -

Primo rientro

Dunque: la prima uscita in mare: elettrizzante!
Il primo rientro dal mare: sanguinolento!
Vi spiego: avevo subito un grave intervento chirurgico appena 20 giorni prima (asportazione di 4/5 di stomaco perché ulcerato tipo scolapasta: il chirurgo - Non camperà più di un anno, se va bene. E per giunta dovrà mangiare per tutta la vita un grissino e mezzo bicchiere di latte ogni ora per sostentarsi -
Ragion per cui avevo deciso di comprarmi la barca e mandarlo al diavolo facendo di testa mia. I fatti successivi mi hanno dato ragione!
Allora il rientro...
Vento da terra, appena mezzo miglio dal pontile.
Bolinare: il verbo era anche citato nel mio manualetto tascabile, ma, sarà perché la barca non sapeva leggere, sarà perché era tosta come il suo nuovo proprietario, il fatto era che tutte le direzioni le andavano bene, ma quella diretta verso il pontile, neanche a parlarne.
- Forse non è vero che le barche tornano da sole al punto di partenza, come i boomerang - cominciai a sospettare - Forse bisogna sedurle con un incantesimo. Facciamo finta di niente e vediamo come va a finire. Mi misi a fischiettare, simulando una indifferenza degna di un teatrante, e con fare non sospetto ancheggiavo con la barra tra le cosce. (Veramente all'impiedi la barra arrivava agli stinchi).
La barca, per nulla commossa, continuava a filare parallelamente alla costa; poi, forse scocciata di tanta alterigia, improvvisamente si coricò prima su un fianco. Attimo di panico - Oddio, è permalosa! - mi dico - ma io di femmine permalose me ne intendo, perbacco, lo so come vanno trattate. Facciamole fare quello che vuole. Infatti, prima prova a sbattermi fuori bordo con aggraziati sculettamenti, poi passa alle maniere forti e brandendo il boma come il mattarello delle vignette di Braccio di Ferro, tenta di fracassarmi la testa.
Per nulla convinto che toccasse a me sloggiare dalla mia appena acquistata proprietà, oppongo una resistenza passiva ma determinata e cocciuta, finché di botto si placa e mi guarda, un po' ansimante, mi parve... - T'ho domata - pensai con un ghigno soddisfatto - l'hai capito finalmente chi comanda qui - Per tutta risposta, come leggendo nei miei pensieri la bella si libera con uno strattone dalle redini (pardon: dalle scotte) e, briglie al vento, nitrendo e scalciando, roteando come un puledro nel rodeo, si esibisce in un numero impressionante di evoluzioni da concorso ippico e, dopo un altro apparente ritorno di calma, con un gran balzo si mette a correre a tutta birra verso il pontile.
- Lo dicevo io che il libro dice fesserie. Le barche sanno tornare da sole, senza tutte quelle stambe manovre da fare. - gongolavo strafelice. Frattanto il pontile s'avvicinava, vela tutta in fuori, il timone gorgheggiava un delizioso motivetto anticipando lo stile musicale della New Age.
- C. . zzzz! - stilettata cerebrale - Saprà pur fermarsi, sta puttana. Dov'è il freno a mano? -
Concitata consultazione del manuale, adesso anche bagnato. Niente! La prua diretta implacabilmente al centro esatto del barcarizzo in legno che fungeva da moletto. All'estremità una briccola. Prendo il comando. Ma lo prendo afferrando l'estremità del boma e portandola al centro. Lei fa una elegante piroetta laterale e, porgendo il fianco alla briccola, continua la sua anarchica veleggiata dandomi generosamente il tempo di abbarbicarmi alla medesima...
Dafne: dislocamento 1500 chili che lanciati a, diciamo, tre nodi fanno una discreta quantità di energia da contrastare con busto fuori e braccia attanagliate alla briccola.
Lei si arrestò, ma senti una strano rumore venire dai miei trentacinque punti di sutura che dallo sterno arrivavano all'ombelico. Quando ebbi il coraggio di guardare, dalla ferita che si era riaperta apparve un pezzo del mio budello... E poi dicono che è difficile guardarsi dentro...
Mentre con la metà del cervello esaminavo l'alternativa se continuare a svenire oppure morire direttamente, con l'altra soppesavo se era meglio mollare la briccola a cui ero abbarbicato, per tenermi invece la pancia, consentendo però alla scalmanata di farsi un altro giretto, oppure tenermi ancora avvinchiato e guardarmi la pancia mentre perdeva il suo prezioso contenuto che fuoriusciva abbondantemente.
Alla fine decisi di spartire democraticamente le mani: una per la pancia e l'altra per la barca, la quale, ancora invelata, cattivamente se la ridacchiava sbatacchiando la vela per la contentezza.
L'occhio mi cadde sulla punta di una canna da pesca che ondeggiava all'angolo opposto del pontile. Urlai. Apparve un ragazzino più canna al quale col tono più serafico che potei, faccio:
- Senti, mi fai il favore di chiamare qualcuno; devo riconsegnare la barca -
Ora, a parte il mio accento, non proprio di quelle parti, che scoraggiò la già labile capacità decodificativa del pargolo, l'apparente tranquillità del messaggio depistò l'infante il quale, quindi, se la prese comoda e soltanto 10 o 15 svenimenti dopo riapparve con l'omaccione che avevo conosciuto alla partenza.
Appena mi vide costui assunse l'espressione di uno che sta pensando: - Lo dicevo io che quello era un imbranato. Guarda come si è combinato! -
Mi tirarono fuori dalla tinozza che nel frattempo si era colorata di un bel porporino slavato, e, a mia insaputa, giacché nel frattempo me l'ero squagliata nel mondo dell'incoscienza, mi caricarono su una quattro ruote e quindi quando riapri gli occhi mi trovai in una ruotante sala di pronto soccorso.
Mi tolsero uno straccio con cui qualcuno pietosamente mi aveva fasciato e... patapunfete! successe il finimondo! Dovete sapere che quando ero partito la zona del corpo incriminata aveva l'aspetto di un salsicciotto bitorzoluto di quel coloro roseo che solo la salsiccia appena insaccata sa assumere, ma adesso assomigliava piuttosto al bancone di un macellaio con velleità di scultore post-modernista.
Appena videro l'opera d'arte il medico e gli astanti tutti, prima informati che si trattava di un graffietto, tra lo sbigottito e il furioso cominciarono a rafficare domande inquisitorie.
Il tale sulla cui macchina mi avevano caricato aveva loro riferito che mi era fatto male uscendo in barca. E i tipi non sapevano capacitarsi sul cosa ci faceva in barca da solo uno conciato in quel modo e meno che mai quale forza mostruosa aveva potuto scucirmi in quel modo.
Evidentemente non sapevano nulla sul dislocamento e il moto inerziale né io avevo molta voglia di nutrirli di quel sapere anche a me peraltro sconosciuto. Per cui me ne uscii farfugliando di una feritina fatta durante una gara coi coltelli - Sapete com'è... noi siciliani... cumpari Turiddu... la cavalleria rusticana... bla... bla... -
Alla fine mi guardavano in modo strano e dopo che mi ebbero ben bene ricucito, ormai palesemente convinti che si trovavano di fronte qualcuno incapace di intendere e volere, dibatterono tra loro se era meglio ricoverarmi al neuropsichiatrico, oppure continuare a cucirmi direttamente i polsi a mo' di manette eterne atte a impedirmi permanentemente ulteriori atti inconsulti.
Mentre erano ancora indecisi me ne scappai, senza nemmeno ringraziare. Però rimisi coscienziosamente a posto la flebo che mi avevano attaccato al braccio.
Gli infermieri della neuro sguinzagliati non riuscirono ad acciuffarmi perché a tutto pensarono salvo che venirmi a cercare in barca. Questo dimostra che gli infermieri non leggono i libri gialli e quindi non sanno che l'amante torna sempre sul luogo del diletto.

La partenza

Tornai in Sicilia, tutto gasato. Ormai ero armatore di una seppur indomata barca e nulla poteva impedirmi di portarla sul patrio suolo siciliano.
Per quasi un mese, me ne stavo appollaiato spesso sul molo del porto a cercare di capire come diavolo facevano le rare barche a vela che allora esistevano dalle mie parti, ad andare e venire dove il timoniere voleva. Non si può dire che fu una scuola ortodossa, ma siccome di meglio non si poteva fare, con il conforto del mio preziosissimo manualetto, decisi di essere ormai pronto al grande balzo.
Per cui con un valigione pieno delle stesse cose che mi portavo appresso in campeggio (fornellino, pentolini, torcia, accetta) imbarcai su treno moglie a dir poco perplessa e figlioletto quattrenne con corredo di pupazzetti in gomma. Sul treno passai una notte intera a studiarmi la cartina geografica appesa nel corridoio, fantasticando sulle possibili tappe e cercando di memorizzare tutte le curve della penisola.
Però appena arrivati comprai la mia prima carta nautica. Ma, forse per premonizione forse per caso, scegliendo quella che mi parve la più carina: quella del Delta padano scala 1/250.000; inconsciamente anticipai che altro non mi serviva.
La barca era li dove l'avevo lasciata.
La moglie, alla quale forse durante le mie precedenti descrizioni avevo omesso qualche dettaglio circa le sue misure, mi guardo in quel modo che ormai avevo imparato a riconoscere tutte le volte che parlavo della barca agli altri: era tra lo sbigottito e l'incredulo, come quando ti mancano le parole per esprimere il disaccordo. Insomma mi chiese gelidamente: - Sei sicuro che ci entriamo la dentro assieme al valigione? -
- Eccome! E poi d'estate possiamo stare nel pozzetto! - furono le mie scarne argomentazioni.
Altri problemi l'intera comitiva non ne vedeva!
Per cui, scatolette, minestrine liofilizzate, tanica di miscela e... partenza.
Devo dire che la prima settimana di navigazione fu epica.
Il vento veniva dalla direzione in cui facevamo tappa e andava nella direzione della successiva. La barca sembrava collaborare, Giuseppe non rompeva tanto e la moglie cominciava a prenderci gusto. Tutto filava a meraviglia, a parte quella volta che per comprare la miscela dovetti prendere una corriera e spostarmi un paio di chilometri. Al ritorno chiesi all'autista di farmi scendere nella località in cui credevo di essere attraccato, cosa che costui coscienziosamente fece, sennonché mi trovai in un porticciolo sconosciuto e siccome della barca-moglie-figlio neanche l'ombra, non sapevo che pesci prendere. L'autista della corriera non riusciva a capire come si potesse non sapere da dove sei partito. Non aveva mai navigato in quel dedalo di villaggetti che punteggiano la costa a nord di Chioggia.
Comunque esplorando un intero pomeriggio l'intero bacino fluviale del Po, alla fine trovai i miei beni, che senza scomporsi più di tanto avevano aspettato otto ore.

Il dramma

Arriviamo al giorno fatidico: siamo nei dintorni di Punta della Maestra (il cocuzzolo del delta del Po).
La giornata era stata un poco afosa, zero vento e tanto motore. Il pomeriggio dal largo cominciano a formarsi dei nuvoloni neri. bassi e brontolanti. Decido quindi di infilarmi in uno dei tanti bracci del fiume per ripararmi e raggiungere un villaggio che era indicato nella mia favolosa carta nautica.
Ma mentre risalgo faticosamente la corrente, il Ducati Cucciolo che fino allora si era rivelato un mulo ubbidiente, di botto mi pianta.
Affannoso trafficare di chiavi e candele mentre la barca si infila nella corrente e scambiando il fianco con la prua se ne torna allegramente indietro verso il mare aperto. Si fa per dire perché da quelle parti il mare aperto non c'è: ci sono a debita distanza dalla costa, alta sull'orizzonte quanto può esserlo un ciuffo di erba, isolotti, tronchi, e secche a perdita d'occhio: insomma un posto infernale in quelle condizioni.
L'ancorotto di cinque chili con 20 metri appena di cima dopo aver saltellato per un centinaio di metri aveva finalmente fatto presa su qualche groviglio di alghe sul fondo.
Il motore non ne voleva sapere, e il mio bicipite a forza di tirare l'avvio a funicella era ormai un cilindro pieno di acido lattico. Frattanto il groppo estivo di avvicinava e i lampi che illuminavano il suo nero pece, promettevano guai seri.
Stava calando la sera, il mare già da un pezzo cominciava a schiaffeggiare la barca che nel frattempo continuava a spostarsi, seguendo l'ancorotto che continuava a saltellare sul fondo.
Cominciai a avvertire che la situazione era drammatica.
Allora mi attacco al mio ricetrasmettitore CB che provvidenzialmente avevo portato più per vanità di radioamatore che per una vera fede nel suo possibile utilizzo.
Brek, brek... dopo un poco di tentativi mi risponde una vocina: - Qui Gringhellino, come me escuci, paso - Chi non lo sapesse sappia che Gringhellino nel gergo CB significa ragazzino, e infatti di un bambino sotto i dieci anni si trattava, in vena di emulazioni di radioamatore, visto che papà non c'era e il biricchino voleva giocherellare con l'apparato.
Ora ditemi voi come si fa a spiegare ad un marmocchio che vuole giocare che tu ti trovi in un luogo imprecisato del delta padano, con un temporale furibondo che sta scassando una barca in cui c'è un altro bambino spaventato, una donna terrorizzata e il sottoscritto a cui tremavano le gambe.
Inoltre si trovava a Chioggia che noi avevamo passato due giorni prima, ed era solo in casa.
Prima ci vollero tutte le mie capacità di convincimento per fargli capire che non era uno scherzo (i CB sono famosi per farne), poi lo convinsi a cercare sulle pagine gialle alla voci nautica, marina, porto, finché stentatamente leggendo, individua un Marina Yatching, Officina riparazioni motori Mercury. Gli faccio comporre il numero, il bambino spiega la situazione mentre col tasto di trasmissione che tiene premuto ascolto impotente una conversazione in cui un bambino cerca di convincere un adulto ad uscire in mare di notte per andare a salvare in un punto imprecisato del delta padano un signore che si è perso e che...
Non so a quale santo lo devo, ma di li a poco una voce più potente si immette sul canale e mi comunica che sta partendo con un motoscafo per soccorrermi.
Naturalmente la mia posizione è molto approssimativa. - Sono partito stamane alle 7 da... e alla media di quattro nodi, costeggiando i canali, alle 16 stavo imboccando un canale che mi sembra portasse a... - Insomma il massimo per uno che deve trovarti di notte in quell'inferno di dedali e canali tutti uguali.
Passano le ore, ogni tanto il tale mi chiama, - Qui dove credevo che foste dalle indicazioni non c'è nessuno, proviamo più avanti -
Il mare adesso è veramente cattivo. Col buio non riesco a capire se stiamo ancora arando.
Ho un brutto presentimento...
Mi richiama per dirmi le stesse cose, colgo dal suo tono che stanno cedendo, sono due a bordo e devono trovarsi anche loro in una brutta situazione. - Avete dei razzi? - mi chiede improvvisamente.
Accidenti non ci avevo pensato! Ho una pistola Very con sette razzi, ci sparavo per festeggiare Capodanno. Dev'essere nel valigione.
Lancio il primo razzo. Bellissimo. - L'avete visto? -, - Macchè! -
Secondo razzo: niente - Ma dove vi siete cacciati? - È un poco irritato - Ci spostiamo verso terra -
Quarto... quinto... Giuseppe adesso piange decisamente spaventato. La moglie è bianca come un lenzuolo. La mia fede vacilla rovinosamente. Sesto, il nodo alla gola ormai è stazionario. Settimo e ultimo.
- Eccolo! Ma siete proprio a terra! - Sento l'urlo sollevato del mio corrispondente. - È fatta - mi dico. Illusione! Il peggio doveva ancora venire.
Quando arrivò aveva l'aspetto di un mostro di 10 metri. Rombava sull'acqua e dalle sue bocche posteriori emetteva ruggiti da coprire il frastuono del mare. Era di legno, con una enorme prua affusolata e minacciosa. Al centro campeggiava un enorme faro con cui ci avevano puntato già da un pezzo. L'uomo alla ruota era piccolo, con gli occhiali, aspetto nervoso, non udì mai la sua voce: era il cervello. L'altro, un gigante con un vocione cavernoso, si sporgeva, mentre il motoscafo avanzava e urlava qualcosa. Il motore con gli scappamenti a pelo d'acqua vomitava boati a 100 decibel che mi impedivano di capire. Si avvicinarono ancora più pericolosamente: da fermo quell'enorme bazooka faceva paura. Rollava in modo pazzesco e il tale alla ruota doveva accelerare a bruschi tratti per controllarne l'assetto e ogni volta la sua traiettoria puntava micidialmente contro il mio scafo. Quando capì cosa intendevano, agghiacciai. Volevano tentare un trasbordo e abbandonare la mia barca per tornare in seguito a riprenderla. Giammai - mi urlo dentro - Piuttosto resto qui tutta la notte. Quello al comando capì che testa dura ero e disse qualcosa all'uomo megafono che riferì. Ci avrebbero rimorchiato fino a Chioggia Dopo una serie di infruttuosi tentativi, riuscii ad afferrare una cima che poteva trainare una petroliera, così grossa e dura che non avrebbe mai potuto essere fissata alle mie striminzitissime bitte. Arrangiai alla meglio con una mia cima e quando fui pronto, cominciai a salpare l'ancorotto. Non ce la facevo ad avanzare, a causa delle onde che mi respingevano. - Taglia - mi ingiunse il gigante. Così feci e cominciò la tregenda. Con un violento strattone il mostro raddrizzò la mia prua verso il mare aperto e fin dai primi istanti apparve chiaro quello che sarebbe successo dopo. La bestia non poteva procedere, anche al minimo, a meno di 5-6 nodi, allora strattonava, poi metteva a folle, il mare la traversava, appena arrivava un'onda rollava da far paura, allora il timoniere dava un colpo di motore e virava di 90 gradi per prendere il mare di prua. La conseguenza era che lo strattone arrivava con un angolo di tiro che avrebbe messo a dura prova bitte ben più solide delle mie.
Urlai quando la prima si divelse con uno schianto e finì in mare. Dopo minuti eterni compresero, rallentarono, si accostarono, la loro prua minacciosa oscillava come una mannaia a tre, quattro metri dalla mia infelice barchetta. Insistevano nel folle proposito di farmi abbandonare la barca. Passai democraticamente l'opzione al mio equipaggio: niente da fare si resta a bordo. Il gigante urlando in un sempre più marcato dialetto veneto, mi fa capire che mi devo legare all'albero. Lo feci. Non l'avessi mai fatto. All'inizio pareva resistere bene. I tali ormai all'esasperazione, visto che funzionava, accelerarono. Io aggrappato al timone lo sottoponevo ad uno sforzo micidiale per stare sulla loro scia. Durò così qualche ora, in quella baraonda di mare ogni metro di avanzamento mi sembrava un miracolo... e un incubo.
L'albero soffriva. Ad ogni strattone vibrava tutto, e quando entrava in controfase con l'onda, sembrava pronto a volare via. Ad un tratto quando il mare aveva raggiunto la sua massima cattiveria, la mazzata finale. L'agugliotto inferiore del timone cedette. La pala assunse una posizione obliqua e restò così incastrata, deformando l'altro agugliotto e obbligando la barca ad un pericoloso sbandamento e ad una andatura a zigzag veramente pazzesca. Urlavo, urlavo, ma i tipi avevano solo voglia di arrivare e avevano abbandonato la vigilanza iniziale. Poi finalmente si accorsero del disastro. L'albero adesso, non più in tensione, pendeva pietosamente da un lato. Stavolta erano fermi e duri: - O trasbordate o vi lasciamo qui! -
Stavo per cedere. Poi una voce imperiosa mi suggerì di bluffare. - Potete andare - dissi con una calma estranea al tumulto interiore. Forse a causa del mancato guadagno che i due si ripromettevano di ricavare, conciliarono con un - Bisogna attaccarsi di poppa -
Le bitte di poppa erano della stessa taglia delle scomparse sorelle di prua, per esclusione quindi il solo punto che sembrava disponibile al successivo massacro era la staffa del motore. Per l'esattezza legai la cima al motore stesso e ricominciò l'incubo. La barca aveva poco più si 50 cm di bordo libero a poppa e lo specchio era piatto e squadrato. Il resto si può solo immaginarlo. Al primo strattone entrò praticamente sott'acqua, opponendo una resistenza inaudita all'avanzamento. Procedeva con un enorme baffo davanti e di dietro una buffa prua in alto, dove stavano alloggiati i miei cari praticamente prigionieri dentro. Io inerme, impotente nel pozzetto semi sommerso col cuore straziato alla vista di quello scempio.
Ma avanzava... Non mi ricordo a cosa pensavo durante le successive ore, ho solo la vivissima sensazione che lo scorrere del tempo era come sigillato nell'attimo presente, ogni metro era quel metro, ogni secondo non si congiungeva ne col precedente, né col successivo. Si dilatava in se stesso e poi svaniva nel nulla. Arrivammo all'alba. Livida, nebbiosa, un giorno di morte. Mi ficcarono in un canale di Chioggia. Di me, stremato dopo una lotta che era continuata ininterrottamente da oltre 12 ore, quando fini di svuotare la barca, era rimasto solo una vaga traccia. Sprofondai in un sonno che voleva essere eterno.
Quando qualche ora dopo mi risvegliai, lo spettacolo della mia appena acquistata prima barca, lo ricorderò campassi mille anni.
Sulla coperta era come se ci fosse passata una mandria di bufali. Il pulpito di prua divelto.
Una bitta a prua sparita, al suo posto un buco, l'altra sbilenca attaccata con un solo bullone.
Due sartie si tenevano con un paio di trefoli, gli altri aperti a mazzetto di fiori; le lande laterali avevano sollevato le paratie interne di un palmo, staccandole dal fasciame; la scassa in acciaio su cui poggiava l'albero, storta e semi divelta. Il piede del motore storto, della staffa si era tranciata la testa di un bullone e gli altri avevano ovalizzato i fori. Specchio di poppa scollato nella parte alta all'attacco della coperta. Una drizza era misteriosamente salita, per volontà propria, in alto sull'albero... Eccetera.
Guardavo sconsolato e mi veniva da piangere.
- Addio bel viaggio - mi dicevo e poi mi confortavo - Poteva andare peggio -
I familiari dormivano ancora.
Cominciai a farmi un poco di scrupoli per la verità e soppesavo tristemente l'idea di cedere il rottame a qualcuno e tornarmene a casa. I pescatori chioggiotti nell'arco di quel funesto primo giorno passavano sul molo e guardavano riverenti. Qualcuno mi chiese cosa era successo. Glielo raccontai in breve. Annuiva pensoso, senza commentare. Quando seppe del bambino e di mia moglie sembrò turbarsi.
La sera tutti i pescatori di quel canale sapevano la storia.
Passammo il primo giorno a leccarci le ferite.
L'indomani apparve il timoniere del mostro rombante, l'occhialuto cervello, finalmente parlò. Prima mi commiserò un poco, poi mi porse il conto su un foglietto di blocco notes a quadretti: Duecentocinquantamila.
Uno stipendio di allora. Tutta la mia cassa che doveva portarmi a Catania.
Cominciai ad entrare nella depressione. Ma che farci?
Lui se ne va, fiducioso sulla mia solvibilità e appare Corrado: era un pescatore proprietario di un peschereccio, faceva lo strascico. L'avevo notato prima mentre confabulava con altri pescatori. Salì direttamente sulla barca e con fare spicciolo mi chiese quanto mi aveva chiesto lo squalo, così lo chiamò.
Glielo dissi. Evidentemente non era molto amato il mio salvatore-occhialuto, perché dopo aver vociato la cifra al capannello degli altri suoi colleghi, sciorinò una invettiva a danno dello squalo-avvoltoio, elencando una lunga serie di misfatti che, a dir suo, pendevano sul capo del suddetto al casellario giudiziario.
- Tu non ti preoccupare, mona d'un terron, ci pensiamo noi - concluse.

Solidarietà

Ci pensarono loro infatti. Non so cosa successe, per prudenza non mi informai sui dettagli.
Dovettero ricorrere a delle minacce perché il tale occhialuto ridusse a meno di metà la cifra, mi mise a disposizione la sua officina, l'attrezzatura e in qualche occasione anche un suo operaio.
Passai quasi un mese a Chioggia.
Con il legno avevo una certa dimestichezza e con i consigli di quei meravigliosi pescatori mi trasformai in mastro d'ascia, facendo rinascere dalle mie mani la mia barca.
Ci vivevamo dentro comunque. Giuseppe era felice: era diventato la mascotte dei pescatori che l'avevano praticamente adottato, anzi avevano adottato l'intera famiglia. Ogni giorno ci arrivava una busta di pesce. Proprio sopra il moletto dove stazionava la barca, c'era una trattoria gestita da un napoletano (anche lui fu subito informato della nostra storia). Con la scusa che gli portavo il pesce che mi regalavano i pescatori per conservarlo nel frigo, finiva col cucinarlo lui e praticamente dopo due giorni mangiavamo gratis.
Una sera un violento temporale con pioggia a catinelle, la coperta faceva ancora acqua, arrivò Corrado, ci imbarcò a forza sulla sua macchina e ci portò a casa sua; lui per discrezione andò a dormire sul suo peschereccio. Una pacchia!
La mia barca dopo un mese di lavoro, irrobustita, riverniciata, riattrezzata a dovere, era pronta per riprendere il cammino. Meditavo di scenderla ancora per qualche settimana e poi lasciarla in qualche posto sicuro lungo la costa per riprenderla in altri tempi.
Qualche giorno prima della partenza, il mio amico Corrado arriva trafelato e mi comunica che tra dieci giorni arriva un pezzo di macchinario che dovrà essere portato allo stabilimento petrolchimico di Augusta (30 Km da Catania): e a portarlo sarà lui col suo peschereccio.
E allora? - chiedo -, - Allora, mona d'un terron, ti porto a casa mi, la to femina, to fiol e la tinossa e fasemo la bela vita, pescando, bevendo e mangiando! -
La manna, la manna caduta dal cielo! Il suo era un peschereccio robusto e grande abbastanza da contenere in coperta i miei 5 metri di tinozza. Sicché mi detti da fare per costruire una specie di invaso. La gru c'era, e aspettai ancora 10 giorni.
Al nono, Corrado esce per una battuta di pesca, si rompe il cavo dello strascico che lo colpisce in testa. Quando lasciammo Chioggia era ancora all'ospedale in semicoma. Non ne mai più saputo nulla: era una splendida persona.

Imbarco la barca

Ormai l'idea che la mia barca potesse arrivare a destinazione sul groppone di un'altra cosa galleggiante (idea che mai prima mi avrebbe sfiorato le meningi), si era impiantata nel mio cervello e mi appariva ora come l'unica soluzione possibile.
Eravamo già a fine agosto e ogni altra strada nautica era da scartare, un poco per mancanza di tempo, un poco per l'approssimarsi dell'imminente fine stagione estiva. Sicché animato da una perentoria e furibonda speranza mi misi alla ricerca di un altro imbarco.
Prima a Chioggia. Nessuno sapeva dirmi chi avrebbe potuto portare il macchinario che era stato affidato a Corrado. Chiesi in giro per qualche nave. Mi dissero di provare a Venezia e infatti ci andai: esploravo i moli alla ricerca di qualche indizio che indicasse navi in partenza per il sud. Niente. Anzi le mie domande all'uopo generavano sempre una specie di velata commiserazione.
Poi a Ravenna. Maledizione: di tutte le navi da carico non ce n'era una che arrivasse in fondo allo stivale e le poche che passavano lo Stretto o erano straniere che non prendevano altri carichi o erano petroliere.
Girovagando lungo i moli ormai sfiduciato, forse una guida istintiva mi porta sotto la fiancata di un mercantile apparentemente straniero, portava sulla prua un nome e un porto di immatricolazione tedesco ma batteva bandiera italica. C'era un tizio affacciato dal parapetto visibilmente sfaccendato e con la pipa in bocca.
Ogni volta che precedentemente avevo chiesto "Dove va questa nave?" mi avevano sempre guardato storto, per cui quella volta mi risolsi di cambiare ritornello e vociai all'indirizzo della pipa del secondo piano - C'e possibilità di imbarco su questa nave? -
Il tipo, che si rivelò più tardi essere il nostromo, stranamente interessato a quella domanda mi fece segno di salire dalla scaletta e affabilmente accettò di ascoltarmi.
Gli riferii del mio problema.
- Deve parlare col comandante, una possibilità ci sarebbe... - fa lui misteriosamente tirando di pipa.
- Quale? - chiedo emozionato.
- Bisogna conoscere il greco antico -
Rimasi a bocca aperta.
- Deve sapere che il comandante è un cuore duro, ma si scioglie facilmente davanti a qualcuno che sa di classici greci chessò Euripide, Sofocle, Platone, Pericle... È un patito di queste cose... -
Francamente, pur essendo aperto e disponibile per ogni genere di sfida all'impossibile, a questo tipo di torneo non ero preparato. Il mio unico anno di ginnasio subito sostituito con i cinque di liceo scientifico non era sufficiente per affrontare una simile contesa. Ma era la mia ultima speranza, sicché su consiglio del nostromo mi sedetti su un bittone del molo e aspettai un paio d'ore l'arrivo del comandante.
Nel frattempo mentre pietosamente rovistavo nei miei ricordi liceali alla ricerca di un qualche brandello di coniugazioni veterogreche, un'idea luminosa fece capolino e si insediò fieramente nel mio progetto tattico. Ma io sono un verace figlio della magna Grecia. Empedocle, Giorgia da Lentini, Archimede, tutta gente delle mie parti... praticamente parenti.
Felice di aver trovato un bell'asso nella manica cominciai a ripassarmi coscienziosamente tutto quello che sapevo riguardo leggende, modi di dire, espressioni dialettali, favole e quant'altro che abbonda nella naturale condizione di figlio diretto di Pericle nella quale mi collocai.
Arrivò... impressionante!
Un professore di greco-latino spiccicato.
Piccolino, paffutello, borghesevestito senza fronzoli stile anni 50 e, manco a dirlo, blocco di libri all'inequivocabile aspetto di ponderose opere arcaiche, sottobraccio.
Salì la scaletta col passo meno marino che avessi mai visto. Ma che ci faceva quello nella marina mercantile? Ad un segno convenuto del nostromo salgo e mi fa accomodare nella cabina personale del comandante. Niente di vistoso, classica. Lui dietro un tavolo aveva subìto una sbalorditiva trasformazione. Ha il piglio di una SS e senza formalità spara.
- Il manifesto di carico della nave non consente di imbarcare altra merce... ma lei di dov'è? -
Ero intimidito e mi sentivo già liquidato seccamente, mi esce un sommesso: - Catania -
S'illuminò tutto - ...Ah! Catania, bellissima e nobile città, fondata da una colonia di calcidesi al tempo di Atene, ci sono stato nel '50 ...i suoi resti del teatro greco, magniloquenti... e poi l'Etna... eppoi Piazza Armerina ...i mosaici...la necropoli.
Irradiò, sparpagliò, scoppiettò, ai quattro angoli della cabina una mitragliata di gioiosi squittii, di esaltati gorgheggi, di mugolii goduriosi, di estatici sospiri. Cominciai a respirare poi cominciai a godermi tutta quel cibo delizioso che mi stava offrendo su quella che allucinai essere la tavole più imbandita del reame.
Mi offre un intervallo di estasi e io ne approfitto:
- Sa noi la Magna Grecia ce l'abbiamo nel sangue... il senso dell'ospitalità, Ulisse, i Feaci... per noi il viandante è sacro... - Zac! Faccio centro...
- Dove ce l'ha la barca? -
- A Chioggia - Vittoria, esultavo.
- Bene! La sua barca viaggerà fuori dal manifesto di imbarco come mio bagaglio personale. La porti qua entro la prossima settimana. Noi partiremo con un carico di cemento alla volta di Sfax in Tunisia, poi ci dirigiamo in Sicilia a Porto Empedocle per caricare sale e portarlo a Genova. Li potrà ritirare la barca, ma stia attento a Porto Empedocle non staremo più di mezza giornata per caricare e non possiamo aspettare. Si metta d'accordo col nostromo per il resto. -
Mi profondo in ringraziamenti, anche il baciamano gli avrei fatto.
Poi mi metto d'accordo col nostromo. Caliamo la barca nella stiva sopra il cemento, io torno in Sicilia, tra 12-13 giorni, appena attraccati a Porto Empedocle lui mi fa un telegramma, tempo massimo 2-3 ore devo essere a ritirare la barca. Gli prometto anche del denaro, almeno a lui.
È fatta. Torno all'ovile raggiante.
Freneticamente e senza perdere un attimo, sfilo tutta l'infida costa fino a Ravenna in tempo record. Viaggio senza storia. Era un trasferimento stavolta a misura umana. Solo col batticuore di non arrivare a tempo.
Ci arrivai invece, proprio mentre la nave terminava le operazioni di carico. Sotto la fiancata di quell'enorme mercantile la mia barchetta scompariva. Albero legato in coperta. "Niente benzina a bordo" - "Ok!".
Venne issata sul ponte e poi, ancora gocciolante entrò nella voragine della stiva per essere adagiata su un cuscino di sacchi di cemento con nicchia per accogliere la deriva.
Chiusura del boccaporto.
Arrivederci in Sicilia, mia amata.
Gongolavo felice quando presi il treno, col valigione, e la famiglia alla quale quella vita errabonda cominciava a piacere. Già mi vedevo veleggiare felice nelle natie acque ioniche..
Non potevo sapere, me tapino, che...

Una barca che piove dal cielo

...che se non li sudi le cose, non saranno mai completamente tue.
Così è scritto.
Narrando me ne riaccorgo.
Allora...
Passai i primi 10 giorni in Sicilia tentando di rimettere a posto la mia disastrata vita lavorativa, ma la mente l'avevo ancora sullo "iogt" - come enfaticamente la chiamavo.
Già due giorni prima della data prevista, bivaccavo dentro la mia Fiat 125 special con la mano sulla chiave d'accensione e l'occhio di falco puntato sulla strada per scrutare l'arrivo del postino.
Che arrivò: gli andai incontro col motore imballato. Poverino, pensò certamente a qualche luttuosa notizia, quando mi vide partire a razzo senza nemmeno aprire il telegramma.
Non ho mai amato la velocità, anzi oggi detesto andare in macchina, ma quei 200 e passa chilometri li fece un pazzo scatenato. A tavoletta e col cuore in tumulto.
Dovete sapere che il porto di Porto Empedocle ha un lungo molo che forma come un canale d'ingresso. Appena potei vedere l'intero panorama portuale mi si agghiacciarono i bollori.
La Door, era il nome della nave, procedeva lentamente, già a metà del canale per uscirsene e riportare la mia amata dall'altro lato dello stivale. La nave era ripartita alla volta di Genova.
Disperato la rincorro fino alla testata del molo strombazzando inutilmente col clacson.
Certamente qualcuno a bordo si aspettava ancora qualcosa del genere, perché la nave appena fuori dal canale, non accelerò anzi parve rallentare. Ero sceso dalla macchina lasciando il motore acceso e lo sportello aperto e mentre mi sbracciavo in inutili segnalamenti, l'occhio mi andò su un barchino a remi che se ne stava ormeggiato ai piedi di una scaletta di ferro affissa verticalmente sulla facciata interna dell'alto molo.
Mi ci fiondai dentro.
Doveva appartenere a qualche pescatore dilettante e senza pretese perché aveva uno scalmo che ballava allegramente dentro il suo alloggiamento. Ma io ero deciso di andare a riprendermi la mia amata che stava per essere esiliata di nuovo in terre lontane e remai... remai come uno scalmanato con lo scalmo sinistrato.
La nave sembrava volermi aspettare; erano soltanto alcune centinaia di metri, ma sembravano metri infiniti. Quando giunsi a tiro di voce, la vidi apparire: l'avevano imbracata con delle cime a scioglimento dall'alto, sicché dopo vari dondolii fuoribordo la scaraventarono letteralmente in mare lasciandola cadere senza complimenti da alcuni metri.
Si schiaffò in acqua con un tuffo sbalorditivo alzando un enorme spruzzo che per brevi istanti la fecero sparire alla mia vista, la quale, ottenebrata dal groviglio di laceranti emozioni, già vedeva la mia barchetta naufragare miseramente sotto il mio naso.
Galleggiò invece. Era tutta intatta.
Tutta? Cristo, è senza l'albero! Mi sgolo ancora a 50 metri: - L'albero, il mio albero... -
La nave procedeva, adesso più spedita. Vengo a contatto col mio bene, afferro una cima, lego la mia a poppa della barchetta, più per irragionevole titolo di possesso che per astuta manovra marinara, e nello stesso tempo assisto impotente alla scena.
Due uomini tengono dalle due estremità il mio albero legato a tutt'uno col boma e stanno per lanciarlo dall'alto della nave che continua ad allontanarsi.
- No! Affonderà! - Urlavo disperato. Col cuore straziato seguii l'elegante volteggio in aria. Si infilò di penna nell'acqua e scomparve. Era di legno, ma c'erano attaccate svariate decine di chili tra sartiame, bozzelli e ferramenta varie.
Riemerse invece, ma solo l'estremità superiore. Capisco che è solo una questione di attimi e sarebbe andato giù. Ai remi, ai remi. Macché, adesso con i 1500 chili al seguito non mi spostavo nemmeno.
Sciolgo, remo all'impazzata facendo forza sullo scalmo che non voleva saperne di stare al suo posto, fissando ipnotizzato il lento accorciarsi di ciò che emergeva...
Arrivai ad acchiapparla per la punta dei capelli, che in questo caso erano rappresentati dall'ultimo centimetro dell'antenna CB che svettava in testa d'albero. Lui si era messo in verticale a causa del peso del boma legato alla parte bassa, ma riuscii ad afferrare saldamente quella benedetta frusta di plastica e pian piano...
Avete mai provato a tirar su una cosa lunga sei metri, pesante una quarantina di chili, in verticale, stando sul bordo di un barchino e con le braccia surriscaldate da uno sforzo precedente? No? Allora se dovete augurare a qualcuno di schiattare, tenete presente la scena.
Non so come ce la feci; ma sfiancato, dopo qualche oretta, avevo ripreso possesso della mia proprietà. Frattanto mi ero allontanato almeno 500 metri dall'imbocco del porto e in più c'erano almeno altri 1000 metri fino ad un attracco possibile al suo interno.
Ripresi fiato e cominciai a vogare, con "iogt " a seguito. La nave era già un puntolino all'orizzonte. Stavolta non c'era fretta, ma la leggera brezzolina pomeridiana, nonchè la leggiadra ondicina che gli faceva compagnia, abbinate al peso della flottiglia a seguito, più lo scalmo che continuava a nutrire l'insana passione di uscire ad ogni colpo di remo, si erano coalizzati e mi tenevano praticamente incollato sul fondo. 1500 metri in tutto sono una bazzecola, ma come farli? Inoltre ero al centro dell'imbocco di quel frequentatissimo porto ...e se una nave dovesse apparire, come fò?
Il motore era ben legato nell'angusta cabina ma di benzina (ricordate l'ordine perentorio del nostromo?) nenche l'odore. Una sola possibile soluzione, come al solito faticosa e difficile: montare l'albero e procedere a vela. Si ma come?
Già tirarlo sulla barca in orizzontale era stata un'impresa degna di stare tra le fatiche di Ercole, tirarlo su da solo, con la leggiadra ondicina che fa da accompagnamento danzante, e tutto il resto, è una follia.
Ma tant'è...di follie è piena 'sta storia.
Riesco a portare il piede dell'albero all'altezza della mastra a cui lo fisso con una cimetta per non farlo scivolare mentre da sopra la tuga tento di sollevarlo, ma oltre una certa altezza non vado.
Lampo di genio da ingegnere egizio alle prese con le piramidi.
Monto il boma sotto l'albero a mò di cavallino sulla tuga e riesco a ottenere una discreta angolazione, dopodiché fisso alle lande sartie alte e paterazzo, faccio passare una drizza dentro un bozzello fissato sul musone a prua e partendo da quell'angolo di sollevamento dato dal boma, alando dalla drizza, adagio, adagio... oscillando paurosamente ad ogni minimo movimento, come un'araba fenice, come un'alba radiosa, come l'alzarsi del sipario all'opera, l'albero punta finalmente il suo dito (antenna) verso il cielo dei miei natali.
Il muscolo cardiaco che prima pompava sangue per sostenere lo sforzo del tapino, adesso pompava gioia liquida. Ma come al solito durò solo una mezz'oretta...

Finalmente in porto!

... il tempo di arrivare dentro il porto.
L'albero fissato alla meglio, non ero riuscito a farlo entrare nella mastra e quindi rimase legato con una cimetta; armai le vele e gongolante come un fanciullino appena promosso alla seconda elementare, bolinai stanco ma felice verso la successiva tappa dei miei guai.
Sulla testata del molo la mia macchina.
- Oddio! ho lasciato acceso il motore e anche lo sportello aperto. -
Accanto ad essa un signore, ben vestito, che non mi perdeva d'occhio.
Quando il bordo di bolina mi portò sotto la sua verticale, fa dei cenni che chiaramente indicavano che voleva parlarmi. Sarà un curioso che si chiede cosa ci fa una macchina col motore acceso sulla testata di un molo, sportello aperto e a 50 centimetri da un volo in mare.
Poi realizzai: - Dev'essere invece il proprietario del barchino che adesso mi seguiva scodinzolando al traino. Certamente pretenderà spiegazioni per l'apparente appropriazione indebita del suo natante. Figuriamoci! Dopo quello che avevo passato, simili questioni mi parvero quisquilie.
- Gli spiegherò, gli offrirò da bere, capirà e finirà con una stretta di mano. -
Procedetti verso il fondo del porto, dove era possibile trovare un attracco.
Il tale mi aveva seguito con una sua macchina e adesso discesone si era piazzato braccia conserte davanti allo spazio dove, con una riuscitissima manovra ero riuscito a ficcarmi.
Mi tenevo ancora aggrappato ad un anello che pendeva dal molo quando l'elegantone senza scomporsi mi fa: - È sua quella barca? -
Ora il fatto era che il suo dito non indicava dove avrebbe dovuto e cioè (per cogliere il senso coerente alla sua ironica allusione) la sua di lui barca. Bensì esso era indiscutibilmente puntato sulla mia di me barca.
E perché mai doveva chiedere se fosse mia, la mia sudatissima creatura?
Spiazzato e un poco frastornato da quella mancanza di logica rispondo con un piglio fiero e perentorio:
- Certo che è mia! -
- E allora, appena ha finito, mi segua -
E che vuole costui? eppoi è vestito troppo bene per essere il proprietario di quel miserevole barchino.
Arruffai le vele dentro. Legai entrambe le barche affiancandole ad un peschereccio e scesi... anzi sali sul molo. Senza dir altro il gransignore mi precede e si dirige verso la sua macchinona di superlusso e mi fa cenno di entrare col dito, che sempre più sembrava quello dell'inquisitore.
- Vuoi vedere che mi vuole portare in questura per una cosa così ridicola... -
- Posso spiegarle... -
- Dopo!! -
Mentalmente cominciai ad affilare l'arma bianca. Attraversammo gli spiazzi del porto e si fermò davanti un edificio dall'aria importante. Sempre senza fiatare mi pilotò in un ufficio pieno di scartoffie e dopo che ebbe ben bene chiuso la porta, mi soffiò a un palmo dal mio viso.
- È quindi sua la barca a vela che è stata sbarcata dalla nave Door! -
Avrei voluto dire qualcosa a proposito del concetto di sbarco, ma per la verità le mie fauci avevano cominciato a seccarsi, per cui balbettai: - Si, ma che c'entra... -
Non mi lasciò finire.
- Allora mi ascolti: lei deve alla Compagnia di navigazione Vattelapesca una ingente somma di denaro per il noleggio del mercantile Door per la durata di tre giorni. -
Credo che se mi avesse comunicato che ero reo colpevole di tutti i reati commessi da tutti gli uomini della terra, in tutti i tempi, mi sarei riavuto prima dallo sbigottimento.
Mi accasciai sulla sedia del supplizio e mentre in testa mi squillò un sonoro - Ci risiamo! -
il riccastro imperturbabile snocciolò la storia che segue.
All'arrivo a Sfax la nave aveva dovuto evidentemente tirare fuori la mia barca dalla stiva per procedere allo scarico del cemento sottostante. Barca che fu calata in mare e ormeggiata a fianco della nave per tutta la durata dei lavori di scarico. All'atto della partenza, il nostromo ordina ai marinai di riissarla, ma la barca non c'era più. Da consultazione con i marinai che l'avevano vista ancora qualche giorno prima, si giunse alla conclusione che il blocco di cemento che qualcuno di loro aveva notato essere rimasto saldamente attaccato alla chiglia, doveva averla fatta affondare. Il comandante greco-latinista impartisce in italico idioma l'ordine di spegnere i motori della nave che non partirà fino a quando non si troverà la barca. La quale dovrebbe sicuramente giacere in 15 metri di fanghiglia color pece che è il porto di Sfax.
Ingaggio di sommozzatore professionista tunisino, previa denuncia alle Autorità portuali di evento straordinario. Si apre fascicolo burocratico e si salda onorario sommozzatore il quale dopo aver scandagliata l'intero bacino portuale decreta - Barca non c'è! -
Denuncia polizia per ormai evidente altra ipotesi denominata a verbale furto d'ignoti.
Polizia sguinzagliata, barca ritrovata dopo giorni due alla deriva in altro angolo del porto, apparentemente con tutto a posto. Polizia asserire - No furto, voi avere legato male barca - Verbale con risarcimento spese indagine. Nel frattempo compagnia navigazione avvertita almeno tre giorni ritardo e sosta improduttiva nave da carico.
Comandante che prima aveva detto trattasi di suo natante personale, adesso irritatissimo con me povero ignaro, aveva snocciolato tutto ai suoi superiori.
- Potete rivalervi arrivo nave a Porto Empedocle su malcapitato che ritira barca -
Torturatore specializzato, cioè lui, spedito da Livorno in missione e con licenza di uccidere in tasca, in agguato da due giorni per sbranarmi.
Fiaccato dalle 10 mila tonnellate di guai contenente impressionante sequela di reati ai danni dell'erario mondiale, che avevo commesso senza neppure muovere un dito, cercando di inghiottire una inesistente traccia di saliva, chiedo: - Quanto costa? -
Il plutocrate fa tre giri attorno alla mia sedia con l'evidente gusto sadico di una belva che sta per azzannare l'ormai intrappolata preda e poi, piantandosi di fronte ad un residuo di me, praticamente in posizione testa sul ceppo con boia e mannaia, sbotta in un ghigno sornione e sciorina:
- Naturalmente la Compagnia si rende conto del fatto che è stato un incidente e che non era sua intenzione... d'altronde il comandante aveva il diritto di imbarcare un suo bagaglio personale, se lei mettiamo fosse un suo parente, come certamente se ho ben capito lei è, sicuramente... in tal caso si potrebbe, diciamo, chiudere un occhio. Naturalmente lei mi firma una dichiarazione che... bla... bla... Però lei... benedetto... poteva portarsela da solo la barca... -
- Lo bacio o lo strozzo? - pensai per un istante.
Andammo a prenderci il caffè. Ma al posto dello zucchero avrei voluto metterci il valium per contenere quelle ampie oscillazioni che le mie gambe testardamente continuavano a produrre.
Ancora una volta graziato!
Io non so a quale stirpe appartengano i santi che ci volteggiano attorno, ma dopo quella volta cominciai seriamente a considerare di essere circondato da una barriera invisibile di protettori burloni che si divertivano a mettermi nei guai per poi tirarmici fuori con repentini colpi di scena.
Consapevole di questo divino scudo, mi accinsi, dopo qualche giorno a scolarmi 180 miglia di canale di Sicilia a metà settembre.
Ci misi un altro mese, durante il quale dovetti ritoccare la mia visione sullo scudo: i miei protettori non erano in buoni rapporti con Nettuno.
Mi consolai pensando che anche Ulisse ci era passato...

Comincia il viaggio sul patrio mar

Dovete sapere che in Sicilia a metà settembre la gente va ancora in maniche corte e le spiagge sono ancora affollate; da sempre, eccetto quell'anno. Già l'indomani dell'ultima strizzatina alle mie visceri, il cielo si oscurò, nuvolacce nere cominciarono a rumoreggiare e per fare cosa gradita al sottoscritto, praticamente cominciò l'inverno. Ma stavolta mi ero organizzato alla grande: la moglie mi seguiva in macchina; stabilivo la tappa successiva e la sera ci si incontrava nel porto designato e si dormiva in barca. Ma, giusto per tenersi in allenamento, in verità, una volta su due non ci si incontrava affatto, vuoi perché a causa del maltempo ero costretto ad atterrare altrove dal luogo convenuto, vuoi perché il luogo convenuto non aveva porto, vuoi perché più semplicemente non lo trovavo a causa della scarsa visibilità, ogni sera erano patemi d'animo e lungaggini a non finire. Una nostra amica veneta era venuta in Sicilia in ferie e si era aggiunta alla comitiva autovelica con l'ingenua convinzione di potersi divertire. Fu lei la protagonista del primo fantozziano episodio. L'avevo imbarcata per una tappa che, seppur col cielo plumbeo, doveva essere tranquilla.
Accadde invece che la poverina soffrì il mal di mare, il quale mare quel giorno si mise senza preavviso al tempo "andante con moto". Decisi quindi di sbarcarla prima, in una località nei pressi di Licata, dove la mia nuova fiammante carta nautica siciliana riportava esserci un piccolo riparo.
Accosto quindi per farla scendere ad un moletto lillipuziano con su gente del posto che dalla faccia che faceva dimostrava di non avere mai visto avvicinarsi un barchino a vela come il mio a quell'attracco fatiscente. Il moletto mancava completamente di alcunché somigliasse ad una bitta o similia, per cui mi risolvo di fare un trasbordo volante.
E volante fu... nel senso che Silvana volò in acqua.
Mentre infatti si accingeva a balzare a terra un'ondicina cattivella solleva la barca e la deposita graziosamente su un bel lastrone di pietra che stava proprio davanti al moletto poggiandola sul bulbo, e sbilanciandola bruscamente, trasformando così la già ardua impresa della mia amica in un tuffo all'indietro.
Naturalmente io avevo un bel da fare per tirare fuori dall'impiccio la mia non più dislocante barchetta e inoltre dovevo usare il motore, per cui ingiungo alla naufraga di togliersi di torno e di raggiungere a nuoto uno scoglietto che stava a qualche metro di distanza. Cosa che la poverina, che non sapeva quasi nuotare, fece, remando in verticale come di solito fanno i candidati all'annegamento.
Sfinita da quei cinque metri di percorso oceanico, la nostra eroina non vide l'ora di abbracciare calorosamente lo scoglietto succitato, il quale, bontà sua, era costituito interamente da una colonia di meravigliosi ricci di mare che gradirono l'abbraccio affettuoso e ricambiarono con quindicimila aculei che trafissero l'incauta nuotatrice dal collo fino all'alluce del piede.
Colma di tanta generosità la nostra restò appollaiata sullo scoglio, senza profferire verbo fino a quando, con l'aiuto degli indigeni che nel frattempo si erano resi parte attiva del dramma, ancorai alla meglio la barca e accorsi in aiuto alla sventurata.
Io, di spine di ricci nel corso della mia vita ne avevo tolte dalle mie e altrui carni a milioni.
Ma in trent'anni.
Calcolai che me ne occorrevano altrettanti per estirpare quella foresta che spuntava dalla pelle di Silvana, facendole assumere l'aspetto di una riccia con sembianze umanoidi. Allarmatissimo decido quindi di trasferirla a terra e cercare un pronto soccorso. Senonché il soccorso in quella landa desolata non era affatto pronto. Ma accadde che, sparsosi la voce nel paesotto, un centinaio almeno di vecchiette, tutte rigorosamente vestite di nero, armate di olio di oliva caldo e aghi di tutte le misure, attorniarono la mia singhiozzante amica che fù amorevolmente adagiata sul letto di una casa ospitale e per tutta la giornata tra ululati di gioia e confortanti nenie di sabba di streghe, svestirono la malcapitata dal suo echinodermoso abito nero.Silvana ripartì qualche giorno appresso fasciata come una mummia... la rividi solo dopo 10 anni. Continuammo a fare tappe giornaliere che però a causa del maltempo non andavano in media oltre le 15-20 miglia al giorno e io cominciavo a disperare di arrivare prima o poi a Catania.
Arrivai alla conclusione che quel sistema di incontri serali, con tutti i disguidi che nascevano, rallentava la già faticosa marcia e la preoccupazione di non preoccupare mia moglie,che ogni giorno mi vedeva partire senza la certezza di rivedermi la sera, era un ulteriore fardello e allungava i tempi morti del viaggio, per cui rispedii macchina e moglie a casa e decisi di cavarmela da solo.
A Gela il maltempo si placò.
Mi riposai un giorno intero e la sera, di nuovo tiepida e stellata, mi invitava a fare la prima navigazione notturna. Il faro di Scoglitti lumeggiava chiarissimo nella notte, dall'altra parte del golfo di Gela a poco più di una quindicina di miglia. Una leggera brezza al traverso sembrava assicurare una navigazione tranquilla; avevo anche dormito durante la giornata, per cui mi risolsi... vela pura in notte tardoestiva.
Un sogno... le prime ore li godetti veramente.
Ma essendone passate un po' troppe di ore, cominciò ad impensierirmi il fatto che la luce del faro era tale e quale quella della partenza, nonostante che la barca procedesse abbastanza bene.
Ora l'esperienza di tutti i giorni mi induceva a ritenere che più ti avvicini a qualcosa, più la qualcosa deve ingrandirsi e siccome il faro si ostinava ad apparirmi costantemente uguale a se stesso, cominciai a congetturare di correnti contrarie.
Dopo quattro ore ero allarmato, non c'era luna ed era veramente buio, solo quel puntolino che ammiccava enigmaticamente.
Ad un tratto con la coda dell'occhio...vvvrrrummm... un'ombra nera, immensa, sfreccia alla mia sinistra rasentando la barca, seguita lestamente da un'altra ancora più sinistra, alla mia destra. Uccelli enormi... "Bestie arcane uscite dalle tenebre del mare per punire l'incauto navigatore che ha sfidato la sacralità del mare notturno". Credo che tutti i mostri delle mitologie e delle leggende di cui avevo letto abbondantemente, attraversarono in un baleno la mia fantasia eccitata.
Spaventatissimo afferro la mia torcia subacquea, modello Vega a cui si era rotto il pulsante di accensione e che io avevo riparato mettendo al suo posto un bel chiodo, e proprio nell'attimo in cui con concitazione spingo l'improvvisato interruttore, sbbrrammm... la pala del timone si solleva avvisandomi di aver toccato il fondo, il colpo secco mi sbilancia catapultami con tutto il mio peso contro la paratia della cabina e il famigerato chiodo mi trapassa letteralmente il pollice.
Dolorante e sanguinante, illumino la zona: ero in mezzo ad una selva di faraglioni, pinnacoli e spuntoni di roccia che mi circondavano per 360 gradi e attraverso i quali ero passato con soave baldanza accompagnato dalla allucinata visione di mitologici volatili.
Ero arrivato a Scoglitti e in quell'istante seppi perchè si chiamava così... Il dolore al dito era davvero lancinante, ma era sovrastato dalla angoscia del peggio, sicché mi precipitai a calare l'ancora che andò giù per un pelo d'acqua sotto la prua assieme ad un quartino di litro del mio sangue, poi ammainai la randa, tentai di dare conforto al mio dito ululante e aspettai l'alba.
Appena arrivò la luce, mi resi conto di essere a qualche centinaio di metri dall'imbocco del porto in mezzo ad una secca paurosa, e solo una fortuna sfacciata poteva avermi accompagnato fin li senza fracassare tutto.
Il timone era letteralmente schizzato fuori dalle femminelle, rompendo il fermo dell'agugliotto che era volato in mare. La barca con l'ancora sulla verticale della prua, era immobile in uno specchio d'acqua poco più grande della sua lunghezza; non c'era un alito di vento per cui mi risolsi di andare a cercare il fermo dell'agugliotto che doveva essere nei dintorni. Mi tuffai mettendo a dura prova il mio martoriato dito, ritrovai il mio prezioso pezzo d'acciaio che luccicava indifferente accanto al bel pietrone che aveva dato lo stop alla mia veleggiata notturna. La pala: una solenne ammaccatura sul bordo anteriore. Poi, facendo lo slalom, uscii dalla petraia e mi andai ad infilare in quel desolato porticciolo dall'ammiccante faro traditore.
In giornata spuntò un febbrone cavallino che mi suggerì con fermezza una opportuna sosta sanitaria. Il dito si era infettato e nel delirio, quella notte, sognai di battaglie aeree tra uccelli bianchi a forma di barche con tanto di randa e trinchetta che volteggiavano e lottavano nel cielo con uccellacci neri a forma di asteroidi (qualcuno aveva l'aspetto delle mazze da combattimento medievali).
Tra planate e cabrate sfrecciavano sfiorandosi le eterne schiere del bene e del male. Quando mi svegliai ebbi la certezza assoluta di aver avuto la rivelazione definitiva sulla nascita dei miti, le leggende sul mare e tutta la cosmogonia celeste: La madre è sicuramente la strizza, sul papà non mi pronuncio.

Dove si va a scuola di mare e di vento

Adesso non pioveva più.
Ma si mise forte il vento.
Fin dalla prima partenza il mio apprendistato velico era stato fatto soprattutto di lezioni di vita con qualche ora di lezioni propedeutiche circa la pericolosità del mare, ma il professore vento non era ancora entrato in aula. E quando fece la sua prima comparsa era paludato severamente.
Ero arrivato a Pozzallo e davanti a me stava il mio mitico Capo Horn, cioè Capo Passero, l'estrema punta meridionale della Sicilia. Conoscevo la zona; sull'isolotta antistante il capo avevo fatto memorabili campeggi, con memorabili pescate subacquee in tempi favolosi, quando le cernie e i saraghi e le murene erano cosi abbondanti che ne potevi scegliere della taglia giusta.
Arrivarci cominciava a significare essere già a casa.
Già fuori dal porto di Pozzallo capii che non era un giorno come i precedenti: il vento era teso e anche di prua; ebbi la tentazione di rientrare, ma la fretta, come si sa, è cattiva consigliera, per cui...randa e Ducati Cucciolo. Dovevo bordeggiare per far portare la vela, ma, nonostante l'onda fastidiosa che rallentava notevolmente, dopo un paio di ore arrivai nei pressi dell'Isola delle correnti.
Lì la costa girava e anche il vento girava e così girai improvvisamente anch'io, nel senso che una violenta quanto improvvisa strambata mi annunciò che il vento adesso era esattamente di poppa.
Non avevo mai avuto il vento in poppa con quella intensità che aumentava sempre più; la randa prevedeva una mano di terzaroli che però non avevo mai usato e quindi avevo soltanto una pallida idea di come si dovesse procedere. Capivo che mi dovevo mettere con la prua al vento, ma non ci riuscivo: ogni volta che lasciavo il timone per andare alla drizza che stava all'albero, la barca veniva investita in pieno dalle raffiche e si abbatteva pericolosamente.
Lottai furiosamente andando su e giù dall'albero al timone e riuscii a ridurre di drizza, ma l'operazione per tesare la nuova bugna non mi riusciva perché il boma stava tutto fuoribordo, quindi ad un certo punto rinunciai a ridurre vela e nonostante l'attrito sulle sartie riusci ad ammainarla tutta.
C'erano ancora circa due miglia per l'imbocco del porto il quale era completamente aperto a qual ventaccio, sicché motore e vento in poppa che agiva sullo specchio, cumulandosi mi fecero letteralmente volare verso l'entrata. Mi resi conto, quando c'ero già quasi, che, anche spegnendo il motore, filavo che era una bellezza. Mi esaltava quel fenomeno: barca a vela che fila col vento senza vela.
Ma l'esaltazione finì bruscamente quando, ormai quasi dentro, si pose l'arduo e novello problema di arrestare quella corsa strabiliante.
Dovete sapere che il porto di Porto Palo ospita una delle flotte da pesca più importante della Sicilia. I pescherecci, di tutte le dimensioni, sono ormeggiati prevalentemente su corpi morti disseminati a tappeto su tutto il bacino portuale. Visti dall'imboccatura sembravano una muraglia compatta e invalicabile.
Filavo almeno a quattro nodi e il vento di poppa riusciva a far fischiare le sartie. Impressionante. Appena sono dentro comincio lo slalom sulla prima fila di pescherecci, superata la quale, ritenendo di essere più riparato dal vento, afferro concitatamente il mio ancorotto a ombrello che, scaraventato in acqua, agguanta certamente uno dei tanti cavi stesi sul fondo tra i corpi morti e la cima comincia a filarmi tra le mani ad una velocità pazzesca. Tento di trattenere, ma la forza è bestiale, mi abbrustolisco le dita fino all'ultimo centimetro di cavo che, ovviamente, non è fissato a niente e voilà...in meno di 5 secondi ho perso l'unico oggetto che poteva fermare quella corsa a ostacoli.
- Mi sfracellerò sul molo! - ricordo che lo pensai con una evidenza matematica.
Non so più cosa fare; guardo disperato le facce dei pescatori i quali mi vedono frecciare dai pescherecci, che riesco a scansare sempre per un pelo timonando disordinatamente.
Ad un certo punto, quando addirittura pensavo che mi sarei tuffato qualche metro prima dell'impatto finale, da dietro una delle ultime file di barconi spunta una minuscolissima barca con un tizio sopra rema che furiosamente contro vento. Mentre si avvicina noto che stringe tra i denti qualcosa.
Era piccolino, felino, tutto muscoli, tesi per lo sforzo mentre remava tagliandomi la strada.
Non capisco cosa vuole fare, a parte offrirsi come sbarramento umano alla folle corsa, poi afferro mentalmente, ma soprattutto afferro febbrilmente con le mani la cima che l'eroe aveva in bocca e che,con una velocità impressionante era riuscito a porgermi, mentre si aggrappava con dita di ferro alla mia fuggitiva. E stavolta la tengo saldamente, e puntando i piedi contro la parete interna del pozzetto, praticamente in orizzontale, mi trovo, dopo un colpo di frusta da spezzarmi le braccia, attaccato alla poppa del peschereccio da dietro cui era spuntato il mio salvatore.
Cos'era accaduto me lo raccontarono qualche ora dopo davanti una birra ristoratrice.
Appena avevo oltrepassato il primo schieramento di pescherecci, uno di loro aveva capito il mio guaio e vedendomi perdere anche l'ancora si era attaccato alla radio e aveva chiamato il mio salvatore che lestamente aveva provveduto a quella mirabolante accoglienza.
Il tutto era accaduto nell'arco di un paio di minuti.
Favolosa velocità di reazione mentale di gente che col mare ci lavora.
Sempre con la birra davanti mi annunciarono che il ponente sarebbe durato sette giorni.
- Proprio sette ? -
- Sette! -
Non potevo dubitare della sapienza di quella gente, dopo quello che avevo veduto, per cui presi un pulman e me ne tornai a casa.
Al settimo giorno esatto ero di nuovo lì. Il vento puntualmente si placò all'ora convenuta.
L'indomani feci tappa per Siracusa.
Ormai mi trovavo sulla costa orientale della Sicilia e di quella conoscevo ogni anfratto.
Ma il tempo, dopo sette giornate di terso e ventoso si era messo nuovamente a brutto, costringendomi a due giorni di sosta forzata a Siracusa, dove ero arrivato senza tante apprensioni.
Stavo affiancato ai pescherecci. Stupende conoscenze di uomini generosi e prodighi di consigli. Il mare fuori era veramente agitato e i pescatori suonavano costantemente il ritornello: "Durerà...durerà"
Al terzo giorno non ne potevo più; il mare aveva adesso il solenne respiro dell'onda lunga dopo la burrasca e aveva assunto uno spettrale colore giallastro, ma il vento era visibilmente calato, per cui mi feci coraggio e nonostante i pescatori scuotessero la testa disapprovando, feci rotta per quella che doveva essere l'ultima tappa. Ma il destino di Ulisse mi stava appiccicato addosso. Ero a meno di trenta miglia da Catania ma la mia promessa Itaca, mi veniva ancora negata.
Ne avevo fatte appena 5 o 6 quando Nettuno risvegliò la sua collera e mi inflisse un'altra delle sue pene.
Il vento riprese con violenza da levante, al mio traverso. Il mare biancheggiò tutto, mi sentì veramente perso, non era possibile continuare La barca rollava pesantemente e ogni volta imbarcava acqua.
Alla mia sinistra il grande polo petrolchimico di Priolo, più avanti Augusta.
Mi diressi verso il suo porto. Adesso con un fiocchetto leggero che mi ero fatto prestare da un amico (era di un 470) e che reggeva a meraviglia facendomi planare col vento e mare adesso di poppa.
Ogni volta che la barca cadeva nel cavo dell'onda, temevo che si spaccasse la chiglia.
All'imbocco di una delle tante entrate del porto industriale, un frangente mi fa perdere il già precario governo e mi scaraventa, traversandomi, dentro: praticamente di fianco.
All'interno del porto il mare era piatto, ma ciò che era impressionante era la risacca.
Vedevo le enormi petroliere alzarsi ed abbassarsi come fuscelli.
Non mi inoltrai tanto, perché avevo fretta di arrestarmi e quindi scelsi il primo spazio che mi capitò di vedere: un buco di 3 o 4 metri tra due enormi pescherecci, incurante del fatto che erano ormeggiati di prua ad un molo alto almeno quattro metri dal pelo d'acqua.
Mi legai alla meglio al centro delle due fiancate con quattro cime due per peschereccio, di prua e di poppa, ben lontano dal molo.
Di peggio non potevo scegliere.
I barconi con la risacca salivano e scendevano paurosamente e ogni volta gli strattoni alla cime erano veramente impressionanti, ne potevo lascarle di più nel timore di cozzare contro le fiancate dei due bestioni accanto.
Qualche volta uno scendeva mentre l'altra saliva, la mia barchetta veniva perciò strattonata in diagonale assumendo posizioni oblique e l'albero era sempre ad un pelo dal fracassarsi sulle strutture alte del peschereccio. Ormai non potevo più muovermi; l'idea di uscire e cercare un altro posto, mi faceva rabbrividire, al pensiero di quell'attimo senza abbrivo col motore ruotato per andare a marcia indietro.
Mi restava soltanto di che sperare che qualcuno si affacciasse dall'alto molo; ma non si vide nessuno per tutta la sera. Mi rassegnai a passare quella che più avanti ricorderò come la notte dello "schiaccianoci".
Spessissimo i due pescherecci si avvicinavano pericolosamente in contemporanea verso di me e con grande stridore dei loro grossi cavi d'ormeggio arrivavano a sfiorare le esili fiancate del mio guscio di noce.
Fu una notte di incubo, naturalmente non chiusi occhio e mi vedevo già con la barca squarciata da quella morsa terrificante, in mare, di notte, con quegli alti moli: nessuna possibilità di salvezza.
Inoltre non avevo quasi nulla da mangiare, sicché quando spuntò l'alba avevo sonno, fame e anche il mal di mare. Finalmente dall'alto molo spuntò la testa di qualcuno. In realtà non avevo una precisa richiesta da fare per cui prima mi limitai a chiedere se per caso conoscevano i proprietari dei pescherecci sperando in un possibile aiuto da parte loro. A bordo avevo notato c'erano delle lunghe assi di legno che appoggiati alla sommità del muraglione gli consentivano acrobaticamente di salire e passare sul molo.
Ma in condizioni normali, adesso con quel saliscendi da otto volante la cosa era impensabile.
Comunque i due marittimi interpellati non avevano nessuna idea di dove fossero i pescatori e quindi passai al secondo bisogno: sfamarmi. I tali compresero la situazione e tornarono di lì a poco con delle pagnottelle appena sfornate. Erano quattro. Due finirono in acqua durante i lanci, le altre le divorai in un baleno. Pregai i tipi di avvertire qualcun altro che mi trovavo in quella situazione. Se ne andarono e io riuscì anche a dormire qualche oretta. Nel pomeriggio sul molo si formò un gruppo di persone. Volevano aiutarmi, ma non sapevano come. Uno tornò con una lunga gaffa e con quella cercò di prendere l'asse di legno poggiata sulla prua del peschereccio, che aveva ad una delle estremità un anello fatto con una cimetta; dopo vari tentativi riuscì ad agganciarlo, ma mentre tenta di sollevarlo il peschereccio con una scrollatina verso l'alto, colpì l'asse ormai in verticale, la sganciò dalla gaffa facendola ripiombare di sghimbescio sul ponte.
Impossibile ritentare la manovra adesso era fuori tiro della gaffa. Anche l'altro tavolone del secondo peschereccio era fuori tiro.
Mi rassegno a passare lì il resto della mia vita; al mio sostentamento provvide la pubblica carità, mediante lancio assiduo di pagnottelle e scatolame per quel giorno e anche il successivo.
Tentare di lanciare del denaro era da idioti, quindi... a buon rendere.
Poi comparvero i pescatori. Rimasero allibiti quando seppero che ero rimasto due giorni e due notti in quella infelice posizione, però mi annunciarono che il maltempo era in attenuazione.
Appena potei mi spostai in un posto più comodo. Telefonai ai miei i quali, non avendo più da giorni mie notizie, mi avevano dato per disperso. E quando il mare si acquietò definitivamente ripresi la marcia. In cinque giorni avevo percorso appena dieci miglia. Me ne restavano ancora venti per approdare all'agognata Itaca.

Dopo tanti dolori torna il buonumore

Il signor Bernacca alla TV del bar aveva previsto una breve pausa, seguita da un'altra perturbazione in discesa verso il sud, bisognava quindi approfittarne per non rimanere intrappolati a due passi dalla meta e quindi decisi di partire anche se era quasi sera.
Sei miglia più avanti c'è il canale di Brucoli; un posto da sogno: si tratta di un canale scavato profondamente da un fiume preistorico nella roccia calcarea che con i riflessi del sole ha il colore ambrato delle Dolomiti.
Era una delle mie mete preferite quando andavo col gommone.
Decisi di spostarmi almeno nelle sue acque tranquille.
Il vento ora scarseggiava e nella zona una forte corrente contraria invece che le previste due orette, mi consentì di arrivare a notte fonda. Ormeggiai su un lato del canale, evitando la pericolosa secca che c'è al centro e che conoscevo benissimo. Dall'altro la musica del villaggio Valtur ed il chiasso dei suoi ospiti.
Avevo fame e siccome a Siracusa non avevo voluto lasciare la barca, non avevo neppure provveduto a fare un pò di rifornimento. Inoltre stupidamente avevo portato poco denaro con me e l'avevo speso nell'acquisto di una cqr a Porto Palo. Mi restava comunque la seppur nobile cifra per quei tempi di cinquemila lire.
Decido di dovermi con quella sfamare ed essendo troppo tardi per cercare qualcosa da mettere sotto i denti in paese che pur stava a due passi, avvolgo le mie risorse economiche in un sacchetto di plastica e tenendo la cassa in bocca, mi tuffo per raggiungere con 50 metri appena di nuoto notturno, quel fornitissimo bar-ristorante che sapevo esserci al villaggio.
Siamo già ad Ottobre, l'aria è freschetta, quindi, uno, con la barba lunga, in costume da bagno, gocciolante, che sbuca a mezzanotte dal mare e scalzo entra in un luogo con pretese di eleganza da serate danzanti e si dirige di filato al bancone per chiedere un panino al formaggio, dà sicuramente nell'occhio.
E infatti l'occhiata sconcertata con cui il barman mi guarda mi anticipa che non sarà facile convincerlo a sfamare quel che sembrava un barbone nautico, spuntato dal nulla.
Prima mi dice che il bar è aperto ai soli ospiti.
Poi lo convinco che si tratta di una necessità impellente e, per scaricarmi, mi dice che devo prima passare dalla cassa.
Nella elegante sala all'allegro chiacchericcio era ora subentrato un mormorio fatto di chissà quali commenti e condito di risatine divertite. Il tale che sta alla cassa ha uno sgargiante papillon stile tropicale e vedendomi estrarre i miei bagnatissimi 5 mila, mi fa, con espressione disgustata: - Qui non accettiamo denaro!"
Pensai subito ad un generoso atto di munificenza da parte sua, ma per fugare malintesi si affrettò a precisare: "Bisogna che scambi alla banca con la nostra moneta. Ma adesso è chiusa!"
- Ma allora come si fa per sfamarsi - chiedo, conscio di porre un severo problema di immagine.
Papillon, seppur con palese malincuore, forse per non dispiacere qualcuno dei suoi ospiti che assistevano alla scenetta con una visibile simpatia nei miei confronti, prese le mie gocciolanti lirette italiane e tirò fuori dal cassetto una bella fila di palline di plastica, della grossezza di un cecio, color rosso, sette, accrocchiate assieme a formare una collana, e me la porse.
Lo guardai stralunato: - Sono pazzi qua dentro - pensai.
Torno al bancone, indico uno striminzito panino, da dieta diabetica da cui fuoriusciva una vile foglia di lattuga, e mentre l'addento voracemente, porgendo la collanina, faccio: - Si paghi! -
Il tale, con la smorfia di chi prende una schifezza dalle mani di un lebbroso, stacca 4 (ben quattro) palline e poi mi guarda con l'evidente compiacimento di uno che ha portato a termine una missione ad alto rischio.
Ci rimango male, ma assai male. Un misero panino costato, dunque, al cambio notturno quasi tremila lire. Ci si faceva un pasto in trattoria all'epoca con simili cifre. Il bello era che con le tre palline rimaste non potevo chiedere neanche il bis e l'appetito era ancora gagliardo.
Giro i tacchi che non avevo e a piede nudo me ne vado con evidente disappunto.
Mi rituffo in acqua meditando propositi di vendetta e appena risalgo in barca, mi viene un'idea brillante che rivela solo una minima parte del mio temperamento burlesco. Avevo, fin dai tempi di Chioggia, comprato un gavitello col proposito di corredare in futuro il mio ormeggio a Catania; stava ficcato sotto la cuccetta a prua.
Lo prendo. E di un bel rosso fiammante, grosso quanto un cocomero ed ha la stessa forma ingigantita delle palline scandalose.
Mi rituffo, entro nella sala, mi guardano tutti, sbatto il gavitello sul banco del banchiere e con l'aria di sfottò più sfottò del mio repertorio, gli sparo: - E adesso mi scambi questo milione! -
Ci fu un boato di risate, gli ospiti si scompisciavano dal ridere, chi mi dava pacche sulle spalle, chi rifaceva con le lacrime agli occhi lo stesso teatrale gesto di sbattere il gavitello ripetendo la battuta...
Il cassiere papillonato era paonazzo, ma dovette arrendersi di fronte al furore popolare. Mi sfamarono gratis. Mi ingozzai per benino di ogni ben di dio e a qualcuno raccontai anche un po' delle mie disavventure, mentre in tanti facevano a gara nell'offrirmi libagioni di tutti i tipi.
Quando me ne tornai ancora a nuoto in barca ero infreddolito ma soddisfatto: mi era presa una bella rivincita nei confronti di tutte le angherie subite nel corso dell'intero viaggio.

La fine del viaggio

A Brucoli quando ti svegli ed esci dalla barca ci sono gli uccellini ad accoglierti con i loro cinguettii;in primavera sulle pareti dell'alto canale spuntano i fiori del cappero, e le scale, scavate nella roccia e le grotte col nero sulle volte, dove un tempo si scioglieva la pece per il calafataggio delle barche, danno a quel luogo un'aura di arcano. Da piccolo mio padre mi portava talvolta a fare il bagno sulla spiaggetta all'imbocco: allora mi sembrava enorme, ma è davvero minuscola. Sopra il paese si sveglia,ma c'è un ritmo antico nei movimenti della gente, le vecchiette curano i fiori sui davanzali delle finestre e scopano il marciapiedi davanti alle loro linde casette, con gli stessi lenti gesti che, più tardi nei miei viaggi, avrei visto fare alla loro consorelle greche. Non c'è un altro posto, nei dintorni di Catania, che ti concilia con la vita e ti fa sentire il mormorio del tempo come quello.
Ed io quel giorno, per la prima volta assaporavo queste sensazioni, dal pozzetto della mia prima barca. Col cuore stracolmo di felicità: ce l'avevo fatta. Un misto di orgoglio, ma anche di gratitudine, e poi di commozione accompagnarono la mia preghiera ai miei dei pagani.
Comprai qualcosa in paese, stavolta più per scaramanzia che per reale previsione di fabbisogno alimentare e poi andai incontro al più splendente, più radioso, più terso, più luminoso mattino che avessi veduto da quattro mesi. Era veramente miracoloso. Se avessi dovuto descrivere il meglio delle più accoglienti giornate fantasticate per il mio trionfale ingresso nelle rada di Catania, non avrei neppure avvicinato le condizioni ideali che stavo vivendo. Non era solo una questione climatica era nel mio interno che accadeva qualcosa.
Come se avessi portato a temine un rito eterno; accanto a me, mentre mettevo le vele, c'erano tutti quegli uomini di cui avevo letto tanto, tutti gli Ulisse della storia, quella umile dei pescatori che tornano dalle loro fatiche, quelle illustre degli esploratori di terre lontane, tutti i rientri nei porti, con le vittorie, con le sconfitte, con gli onori, con le disgrazie, quelli solenni, quelli ignorati, quelli definitivi, quelli provvisori...
Tutti gli sguardi che fissarono il lento avvicinarsi delle coste familiari, tesi nella ricerca anticipata di volti cari, di paesaggi noti, di sentimenti da rinnovare.
Avvertivo come se adesso facessi parte di quella comunità che trova in questo unico punto il suo sentimento unificatore. Si va per mare per ragioni diverse, ma si rientra dal mare con lo stesso sentire; forse per questo anche adesso il rientro nei porti anche non tuoi è la parte più sentita della navigazione. Retaggio di una emozione millenaria.
Mi crogiolavo al sole e a queste fantasticherie, mentre la barca scivolava, complice e adesso del tutto amica, verso la meta. Quando, ormai giunto, potei distinguere gli alti edifici del mio porto, il groppo alla gola che ormai si era decisamente stabilizzato e che premeva per uscire, inconfessato testimone delle paure rimosse, esplose in un rigoroso, pertinente, singhiozzo liberatorio.
Molti anni dopo una poesia, allora quasi sconosciuta, adesso riscoperta, avrebbe detto con parole più eloquenti quello che fu per me quel viaggio. Ne riporto i versi finali:

"Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna quell'approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all'isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.
Itaca t'ha donato il bel viaggio,
senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
E se la trovi povera, Itaca non t'ha illuso,
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un'Itaca."
(Costantino Kavafis)

Sono passati 25 anni e se non avessi avuto sempre una Itaca in testa non sarei stato qui a raccontarvi come l'ho scoperta.
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