L’Insorgenza italiana, il suo significato, la sua «modernità»
L’Insorgenza rappresenta la risposta - almeno quella iniziale - degli italiani
alla crisi prodotta dal tipo di cambiamento introdotto dalla prima e rude esperienza
di modernità politica sofferta, e funge in un certo senso da «cartina al tornasole»
della tesi della pre-esistenza, con caratteri del tutto peculiari, della nazione
italiana al processo della sua unificazione. Infatti, quando un organismo reagisce
di fronte a germi patogeni nuovi e potenti, ciò significa che l’organismo esiste ed è
vivo e vitale. Fuori di metafora, davanti ai primi segni della Rivoluzione che viene
dalla Francia gli italiani reagiscono. Reagiscono quando le armate francesi repubblicane
invadono le contrade della Penisola e impongono la traduzione in pratica,
politico-militare, del trinomio rivoluzionario «Libertè, Egalitè, Fraternitè».
Reagiscono di fronte all’intento ultimo - e di qui si dipana quel «filo rosso» che
lega tra di loro i vari eventi del processo risorgimentale che culminerà con la
Breccia di Porta Pia - di «[...] rigenerare l’Italia [ed] estinguere la fiaccola del
fanatismo in Italia, distruggendo il centro dell’unità romana», come si esprimerà
il Direttorio in una lettera a Napoleone Bonaparte del 1797. Reagiscono allorché
comprendono che la «rigenerazione», imposta dal nuovo dominatore, comporta in primo
luogo l’attacco e la dissoluzione in breve tempo di assetti sociali ed economici,
il mutamento di regole e di costumi profondamente consoni all’indole del popolo
italiano, il tramonto di realtà religiose e civili plurisecolari, cui gli italiani
erano materialmente e psicologicamente attaccati. Reagiscono di fronte alla realtà,
inaspettata e sconvolgente, di una conquista militare violenta, rapace e venata di
empietà. Reagiscono assistendo alla «messa in liquidazione» di antiche classi dirigenti
e di dinastie sovrane e della loro sostituzione con i parvenu borghesi e con gli
esponenti del servile utopismo politico «giacobino». Ed è una reazione violenta,
che si sprigiona immediatamente e reiteratamente, e della quale sono protagoniste
soprattutto quelle componenti del corpo sociale che più erano rimaste immuni
dall’infiltrazione dei «lumi» nel corso del secolo, e che più risentivano dello
smantellamento dell’edificio della società tradizionale con tutti i suoi
«ammortizzatori sociali», ossia le classi popolari.
Così, tra il 1796 e il 1799, sconfitto l’esercito sardo, le scarse truppe dei
principi italiani non frappongono ostacolo all’avanzata delle armate francesi,
anzi si lasciano disarmare con facilità e prontezza, mentre la nobiltà, l’alto clero,
le autorità dei municipi italiani aderiscono con entusiasmo al regime nascente oppure
cercano il compromesso a ogni costo con esso e accettano miopemente di «cedere per
non perdere»: talora cercano di cogliere, come i manzoniani polli di Renzo,
l’occasione per liquidare antiche rivalità con i municipi vicini. Le popolazioni
italiane, nelle campagne e nelle città, viceversa, si ribellano ovunque al nuovo
stato di cose e insorgono spontaneamente in armi contro i nuovi dominatori e
contro gli esponenti della minoranza che li ha accolti come liberatori.
Contadini e coloni, braccianti rurali, barcaioli, artigiani e operai, militi civici,
addetti a mestieri che oggi non esistono più - cavallanti, mulattieri, valletti e
tanti altri -: tutto un universo sociale si scaglia spontaneamente e talora
ciecamente contro i cannoni e la cavalleria di un esercito moderno e rivoluzionario
e dà prova di un eroismo - in talune occasioni disperato, come fu per la plebe
napoletana - imprevisto. Napoleone Bonaparte nella sua corrispondenza più volte
confessa di temere, più che gli austriaci o gli inglesi, di trovarsi di fronte
nell’Italia Settentrionale a un’insorgenza generalizzata, a una nuova, ben più
vasta «Vandea».
L’Insorgenza - che si era già manifestata tra i montanari piemontesi e liguri
durante la guerra «delle Alpi», tra Regno sardo e francesi negli anni dal 1792 al
1796 - esplode fin dai primi mesi del 1796: a Milano, a Pavia - che viene bombardata
e saccheggiata -, Como, Varese, in Valle Scrivia, nella Garfagnana, a Lugo di Romagna.
L’anno seguente è la volta del Montefeltro e delle Marche; poi delle valli bergamasche
e bresciane, fino alla riviera occidentale del lago di Garda; a Verona, nell’aprile,
il popolo si solleva e dà vita alle cosiddette «Pasque Veronesi». Nel 1798, insorgono
la Liguria orientale e la Valtellina, mentre, di fronte all’invasione completa degli
Stati pontifici da parte dei francesi, si ribellano ancora le Marche, poi l’Umbria e
il Lazio, fino ai confini con il Regno di Napoli. Già dal dicembre del 1798 e, poi,
per tutto il 1799, quando il Regno borbonico cade anch’esso sotto il dominio francese,
tutto l’Abruzzo è in fiamme; poi è la volta di Napoli, che viene difesa strenuamente
dai popolani contro l’irruzione dei francesi. La riconquista del Regno di Napoli a
partire dalla Calabria ad opera dell’Esercito della Santa Fede, guidato dal cardinale
Fabrizio Ruffo di Bagnara, nel 1799 coinvolge nell’insurrezione l’intera Italia
Meridionale. L’insorgenza popolare riesce temporaneamente a prevalere e a ricacciare
i francesi oltralpe al momento della cosiddetta reazione austro-russa del 1799-1800.
Sotto la spinta delle sconfitte dei generali francesi - mentre Napoleone Bonaparte si
trova in Egitto -, l’Insorgenza si riaccende nei luoghi dove già si era manifestata
nei primi mesi dell’occupazione, ad esempio in Piemonte, dove si costituisce una
numerosa «Massa Cristiana», alla cui testa si pone l’enigmatica figura dell’ufficiale
italiano al servizio degli imperiali Branda De’ Lucioni, e che da sola assedia e poi
libera Torino a fianco degli austriaci del generale Alexsandr Vasilievic Suvarov.
Nel 1799, insorge anche Arezzo, le cui milizie popolari, «l’inclita armata aretina»,
al grido di «Viva Maria!», giungeranno a liberare gradualmente tutta la Toscana -
entrando in Firenze il 7 luglio - senza l’aiuto austriaco, dando vita a un governo
provvisorio che si manterrà fino ai primi mesi del 1800.
Il ritorno impetuoso dei francesi dopo la battaglia di Marengo e il relativo
radicamento del regime napoleonico negli anni 1800-1814, pur creando un contesto
operativamente più difficile, non disarmano la reazione popolare. Fenomeni nuovi
come la leva obbligatoria e la maggiore ingerenza burocratica e fiscale del nuovo
stato nella vita sociale, così come le mutevoli sorti della guerra europea, portano
in diverse zone a nuove più vaste insurrezioni negli anni 1805 - l’Appennino emiliano -,
1806 - il Meridione e, soprattutto, le Calabrie -, 1809 - le Romagne e in grande
stile il Trentino-Tirolo -, fino alla decomposizione dei regni napoleonici nel
1814-1815.
Solo la mancanza di una élite dirigente all’altezza della situazione, la natura
del territorio, la frammentazione delle sovranità, l’inquinamento dovuto alle
rivalità campanilistiche, l’esiguità dei mezzi disponibili, l’opportunismo dei suoi
teorici alleati impedirono all’Insorgenza italiana di vincere e di ricacciare
l’invasore al di là delle Alpi. La partecipazione popolare alle insurrezioni e
alla guerriglia - un termine (guerrilla) che nasce proprio in Spagna negli anni
1808-1813 della grande insorgenza popolare anti-napoleonica - fu massiccia, una
partecipazione che, al di là della mitologizzazione, né i moti e né le battaglie del
Risorgimento - soprattutto in termini di vittime -, conobbero.
Quella che oppone i popolani ai francesi e ai giacobini è una lotta dura e
talvolta feroce, costellata di imboscate, rappresaglie ed eccidi, in particolare
nell’Italia Meridionale. Stupisce vedere povera gente prendere le armi più e più volte,
anche quando è stata oggetto di repressioni feroci e sanguinose da parte del più forte
esercito europeo e delle milizie «italiche» da esso impiegate nelle operazioni di
rastrellamento contro coloro che venivano sbrigativamente definiti, come in Vandea,
brigands. All’inizio del 1799 - quindi prima ancora che avvenissero gli scontri e
le battaglie più importanti dell’Insorgenza - le vittime tra gli insorgenti,
secondo il calcolo del generale francese Paul-Charles Thiébault, uno dei comandanti
delle truppe di repressione dei moti nell’Italia Centrale, sono già più di
sessantamila. L’Insorgenza italiana è fatta di rapide vampate, di vasti ma brevi
incendi, di ritorni di fiamma, conosce stati di latenza, di esplosione, di
endemizzazione; vanta battaglie campali, ma anche imboscate, rappresaglie, vendette
personali, atrocità; conta innumerevoli episodi, piccoli e grandi, nella loro
maggioranza ancora poco conosciuti.