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"Studi Storici" sulle insorgenze popolari nell'Italia
rivoluzionaria e napoleonica
1. Premessa
Il numero di aprile-giugno 1998 della rivista trimestrale Studi Storici,
organo dell'Istituto Gramsci di Roma, è interamente dedicato a Le
insorgenze popolari nell'Italia rivoluzionaria e napoleonica (1).
Il fascicolo, che si apre con il saggio Introduzione. La questione
delle insorgenze italiane (pp. 325-348) di Anna Maria Rao - docente
presso l'Università di Napoli Federico II, membro del comitato di
direzione della rivista e coordinatrice dell'iniziativa -, presenta un
insieme di monografie di studiosi di varia estrazione - anche se di comune
orientamento di fondo -, dedicate a episodi e a momenti particolarmente
significativi delle insorgenze popolari verificatesi in Italia nel periodo
del dominio napoleonico, fra il 1796 e il 1815.
L'ordine di presentazione è quello geografico. S'inizia infatti
con uno studio sulle insorgenze delle province lombarde già sotto
il dominio veneto, per proseguire con un saggio volto a individuare tratti
comuni fra l'insorgenza veronese del 1797 - le cosiddette "Pasque Veronesi"
- e fenomeni coevi simili, a sfondo sociale, verificatisi nel Regno di
Sardegna. Seguono uno studio sui moti agrari del Piemonte meridionale nel
1797 e due lavori rispettivamente dedicati all'insorgenza ligure del 1797
e a quella romagnola del 1796-1797. La rassegna include poi l'analisi di
alcuni aspetti di quelle che possono essere considerate le manifestazioni
più significative e complesse della resistenza italiana contro la
Rivoluzione francese, ovvero il movimento del Viva Maria! in Toscana, l'insorgenza
del Lazio - che comprende anche un esame della politica di Papa Pio VII
(1799-1821) nei confronti degli insorgenti dopo la fine della Repubblica
Romana e il ritorno del Pontefice a Roma - e la grande rivolta sanfedista
nel Regno di Napoli, tutte del 1799.
2. Esposizione
Nello studio introduttivo la Rao mette innanzitutto in rilievo l'ampiezza
delle "resistenze e insurrezioni contro la rivoluzione e la repubblicanizzazione
della penisola" (p. 330), individuandone le cause in alcune motivazioni
di medio e lungo periodo - la crisi economica e sociale della seconda metà
del secolo XVIII, la limitazione delle proprietà ecclesiastiche
e le conseguenti ripercussioni sulle tradizionali forme di assistenza,
la riduzione delle autonomie locali, l'attaccamento alle tradizioni religiose,
minacciate dal riformismo illuministico e dalla rivoluzione - e in motivi
più immediati, legati alle circostanze dell'invasione e dell'occupazione
francesi. Si sofferma quindi su due elementi - "la diffusione delle
insorgenze sull'insieme del territorio nazionale" (p. 331) e l'assenza
di una conflittualità di classe fra contadini "sanfedisti" e borghesia
"giacobina" - che ribaltano alcuni luoghi comuni della storiografia, per
concludere che "[...] dai saggi che si presentano l'insorgenza
emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente
differenziato nello spazio e nel tempo" (p. 341).
Lo studioso vicentino Paolo Preto - professore ordinario di Storia Moderna
nell'università di Padova - ricostruisce in Le valli bergamasche
e bresciane fra democratizzazione e rivolta antigiacobina (pp. 349-366)
gli avvenimenti del 1797 nelle province venete più occidentali,
dalla dichiarazione di neutralità del governo veneziano e dalla
sollevazione di nuclei giacobini prima a Bergamo e poi a Brescia - entrambe
"democratizzate" con la forza -, all'invasione francese del territorio
della Repubblica di Venezia, ai soprusi dell'occupazione e alla forzata
inerzia delle truppe di San Marco, alla montante collera dei contadini,
che esplode nel marzo 1797. In quel mese le Valli bergamasche - Seriana,
Cavallina, Gandino e altre - e quelle bresciane - Camonica, Trompia e Sabbia
-, unitamente alle popolazioni della riviera gardesana occidentale - in
particolare della zona di Salò, un tempo indipendente -, dopo solenni
giuramenti formulati nel corso delle tradizionali assemblee comunitarie,
si sollevano coralmente contro le città "rivoluzionate" fino a scontrarsi
con le neonate milizie "italiche" e con i francesi, dopo avere coltivato
inizialmente l'ingenua illusione di regolare i conti con i giacobini nella
neutralità dell'esercito occupante. Fa parte del quadro anche la
cruda repressione perpetrata dalle truppe franco-bresciane - rinforzate
da volontari accorsi da altre città italiane, come per esempio Pavia,
di recente "democratizzate" - contro i contadini insorti: oltre al cannoneggiamento
di Salò dalla parte del lago, vi furono, come rappresaglia, il saccheggio
e l'incendio di diversi borghi della montagna bresciana, quali Nozza, Vestone,
Barghe e Lavenone. Nel saggio, che offre una ricca bibliografia, rimangono
in ombra i moventi religiosi dell'insurrezione, mentre, fra le cause, viene
dato il massimo risalto al legittimismo e alla difesa degli statuti locali
da parte delle comunità rurali, preoccupate di perdere autonomia
di fronte al nuovo regime a prevalente base cittadina. Nel finale Preto,
ampliando la visuale all'insieme dei territori veneti, ritiene di diluire
ulteriormente la caratterizzazione ideologica dell'insorgenza studiata,
ponendo l'accento sulla cronicità dei tumulti a sfondo annonario,
antifeudali e contro il governo verificatisi nelle province venete nel
corso del Settecento, ma non sottovaluta il carattere politico dei moti
del 1797: le popolazioni, scrive, "[...] questa volta non tumultuano
per la fame ma per difendere le loro autonomie" (p. 365), ovvero l'antico
regime nel quale hanno vissuto per secoli.
L'accento sul tema economico-agrario
è posto anche da Gian Paolo Romagnani - ricercatore all'università
di Verona, docente di Storia della Storiografia - in un saggio che, nonostante
il titolo - Dalle "Pasque veronesi" ai moti agrari del Piemonte
(pp. 367-400) -, è dedicato esclusivamente ai moti veronesi del
1797 e solo nelle conclusioni ipotizza - riferendosi però ad altri
studi - un'unica matrice per le insorgenze dell'Italia settentrionale durante
il Triennio. Dopo una sintesi delle linee storiche e politiche dell'invasione
francese dell'Alta Italia, lo studio traccia un profilo - che include anche
una rassegna della storiografia sulla vicenda dall'Ottocento a oggi (2)
- dell'insurrezione veronese, che viene ricondotta alla crisi agricola
che caratterizza il Veneto alla fine del Settecento e alle tensioni sociali
che ne derivano, acuite entrambe dalla rapace presenza delle armate francesi.
La tesi di fondo dello studioso è che esistono cause di un disagio
economico-sociale generale che si esprime in moti antifrancesi là
dove sono presenti le armi straniere e si scaglia invece contro le autorità
tradizionali, la monarchia e i feudatari, là dove i francesi sono
assenti - o solo parzialmente presenti, a presidio di città sedi
di fortezze -, come nel caso del Piemonte dopo l'armistizio di Cherasco
dell'aprile 1796. Romagnani ammette peraltro che una lettura politica
dei moti piemontesi sarebbe fuorviante, essendo prodotto di una pluralità
di fattori, nonché che "[...]
in Italia [...] i moti agrari sono una conseguenza diretta della
guerra" (p. 398), ovvero dei contraccolpi arrecati dalla stessa a una
situazione economico-sociale già critica. Con ciò ricollega
quindi le insorgenze piemontesi del 1797 ai drammatici mutamenti indotti
- se non da riforme di struttura, ancora da realizzare - dalla guerra rivoluzionaria
condotta dall'armata francese, con le sue sfrenate requisizioni militari
e con il suo inaudito drenaggio di risorse finanziarie, oltre che artistiche
e religiose. Il ventaglio delle cause viene ampliato, considerando
anche che "[...] caratteristica del caso italiano è [...]
l'insofferenza di molti centri minori nei confronti dei centri maggiori"
e che "[...] non va infine trascurato il fattore psicologico
[...] nel determinare il comportamento delle masse" (pp. 398-399).
Lo studio contiene anche un parallelo fra la Vandea francese e l'Insorgenza
italiana - che si dice avanzato soprattutto dagli ambienti che hanno celebrato
il bicentenario dell'Insorgenza -, che pare alquanto avventato, in quanto
attribuisce alla Vandea connotati di rivolta sociale e all'Insorgenza italiana
una minore rilevanza rispetto alla prima.
Al Piemonte è dedicato anche l'ampio saggio di Blythe Alice Raviola
- dottoranda in Storia della Società Europea all'università
di Torino -, Le rivolte del luglio 1797 nel Piemonte meridionale
(pp. 401-448), che, partendo dagli studi di Giuseppe Ricuperati (3)
e grazie a un'accurata ricerca di archivio, ricostruisce capillarmente
i tumulti e i veri e propri moti che, a causa del rincaro dei prezzi dei
generi alimentari di base, oppose le comunità di villaggio del Piemonte
meridionale - il Cuneese e l'Astigiano, con propaggini nell'Alessandrino
e nel Monferrato - alle autorità sabaude e ai feudatari locali.
Il lavoro rivela episodi e aspetti poco noti della vicenda e si situa su
una linea interpretativa decisamente socio-economica, che però tiene
equilibratamente conto dell'autentica portata dei moti, nonché della
difficoltà dell'"innesto" da parte delle avanguardie giacobine piemontesi
sulle popolazioni insorgenti, la cui ricezione delle parole d'ordine rivoluzionarie
è limitata e che conservano una sostanziale fedeltà alla
monarchia e al regime signorile.
Sulle rivolte di Genova e delle valli liguri orientali - Bisagno, Sturla,
Aveto, Fontanabuona, Vara, Magra, con propaggini nella Val Trebbia e nei
feudi imperiali verso la Val Scrivia e l'Alessandrino -, che si manifestano
a due riprese, rispettivamente nel maggio-giugno e nell'agosto-settembre
1797, verte il saggio di Giovanni Assereto - professore associato di Storia
Moderna nell'università di Genova - I "Viva Maria" nella Repubblica
ligure (pp. 449-472). Più che descrivere i fatti il lavoro sembra
inteso a evidenziare e ad affrontare le questioni suscitate dalla reazione
della popolazione ligure, mettendo in primo luogo in luce la diversità
fra la prima fase dei moti e quella, più intensa e significativa,
che segue alla promulgazione della costituzione democratica. L'ipotesi
della sobillazione nobiliare e clericale non viene esclusa, ma viene ridimensionata
rispetto alla forza con cui l'ipotesi fu portata avanti in primo luogo
dai francesi e poi da numerosi storici "progressisti", dimostrando come
i processi susseguenti alla repressione, nonostante che i giacobini tornati
al potere instaurino un "clima da caccia alle streghe" (p. 465),
e pur avendone i mezzi e l'intenzione, non individuino né puniscano
alcun nobile o prelato. Viene anche discusso il legame, individuato da
alcuni studiosi, con la rivolta antiaustriaca del 1746 - quella di Giovanni
Battista Perasso (1729-1781), detto "Balilla" -, nonché il carattere
collettivo e corale - le autorità locali prendono la testa delle
colonne di insorgenti - che evidenziano le rivolte delle valli. Altri nodi
affrontati sono il differente atteggiamento fra Levante e Ponente - quest'ultimo
tanto fedele alla Repubblica ligure da proporre di inviare proprie milizie
per reprimere l'insorgenza del Levante -; la sostanziale refrattarietà
popolare all'ideologia rivoluzionaria francese e la violenta avversione
al giansenismo - particolarmente accentuata nella zona di Sarzana -, dopo
la breve esperienza delle riforme religiose ispirate a monsignor Scipione
de Ricci (1741-1809), vescovo di Pistoia e di Prato; infine, la breve durata
del moto e lo stato di endemica agitazione nelle campagne, che si protrae
fino agli anni del Regno: esemplare è il caso di Val Fontanabuona,
nell'entroterra di Chiavari, che verrà definita dai francesi "la
Vandea ligure". Saggio d'intonazione senz'altro differente rispetto ai
primi della raccolta, perché vi sembrano meno operanti pregiudiziali
teoriche. La sua condivisibile conclusione di fondo è che l'insorgenza
ligure sarebbe stata una reazione difensiva scatenata dall'intera gamma
di realtà che va comunemente sotto il nome di Antico regime - che
nella Repubblica di Genova era rimasto sostanzialmente immune da riforme
"illuminate" - di fronte a un tentativo di modernizzazione troppo rapido
e dalle modalità disorientanti, come nel caso della missione dei
preti "patriottici" giansenisti nelle valli.
Il quadro che Valentino Sani - dottorando
in Storia della Società Europea nell'università statale di
Milano - in Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (pp. 473-494)
traccia degli accadimenti del Ferrarese e della Bassa Romagna ha il pregio
di spingersi fino agli anni del Regno napoleonico e ai fatti del 1809.
Mentre emerge chiaramente che dal momento dell'invasione fino alla caduta
della dominazione francese la zona non conosce soste nell'agitazione popolare,
di essa si possono individuare quattro fasi ad "alta temperatura": le insorgenze
dell'estate 1796, la più nota e sanguinosa delle quali è
quella di Lugo, che coinvolse anche Argenta e Cento; la sollevazione generale
del 1799, al momento della temporanea espulsione dei francesi dall'Italia
a opera delle truppe imperiali e russe, che vede la partecipazione di milizie
d'insorgenti all'assedio di Ferrara e la conquista di Pontelagoscuro, importante
emporio padano; le rivolte contro la coscrizione obbligatoria del 1802-1803
e 1805, quest'ultima culminata nella sommossa del borgo padano di Crespino,
contro cui Napoleone usò una mano particolarmente pesante; e, infine,
i moti nelle campagne conseguenti alla grande insorgenza tirolese del 1809,
che interessano ampie aree della Valle Padana. La repressione di quest'ultima
fu particolarmente sanguinosa, con 63 condanne a morte per "brigantaggio".
L'ampio apparato critico comprende anche riferimenti a non pochi documenti
di archivio. Secondo Sani, il Leitmotiv delle insorgenze ferraresi
- peraltro "[...] fenomeno [non] valutabile in maniera
univoca e omogenea" (p. 476) - sarebbero le croniche rivalità
fra i municipi e la rivendicazione di privilegi e autonomie locali, aggravati
da disagi e conflitti sociali originati da problemi economici.
All'insorgenza toscana del Viva Maria!
del 1799-1800 è dedicata la ricerca condotta da Claudio Tosi Il
marchese Albergotti colonnello delle bande aretine del 1799 (pp. 495-532).
Dopo avere svolto una breve ma utile rassegna della storiografia in argomento
- senz'altro fra le meno esigue, confrontabile solo con quella relativa
alla Santa Fede nel Regno di Napoli -, Tosi sostiene che non ci si debba
concentrare oltre misura sugli aspetti economici e sociali dell'insorgenza
toscana, ma piuttosto, come le più recenti tendenze storiografiche
sembrerebbero confermare, dare - o ridare - spazio all'analisi di tematiche
meno "tangibili", come la sfera della psicologia e delle credenze religiose,
il sentimento d'identità collettiva, la mentalità e la sensibilità
delle diverse e riccamente differenziate componenti della società
di antico regime, come pure vanno approfondite le cause politiche, nel
duplice aspetto strategico-internazionale e tattico-locale. In particolare
andrebbe intensificata l'indagine sul ceto dirigente di un'insorgenza che
presenta caratteri - per la durata e l'estensione, nonché per la
presenza di un élite dirigente non improvvisata - nettamente
diversi da quelli di altri movimenti. In questa prospettiva si situa la
ricerca condotta da Tosi sulla figura del marchese Giovan Battista Albergotti
(1761-1816), leader del moto aretino. Attraverso la ricostruzione
della biografia del marchese e di alcuni membri della sua antichissima
famiglia - quasi completamente schierata in quegli anni contro la Rivoluzione:
solo un membro scelse infatti la militanza giacobina -, come il fratello
Agostino (1755-1825), divenuto in seguito vescovo della sua città,
lo storico si propone di inquadrare il comportamento della classe dirigente
del Viva Maria!, nonché gli eventi di cui essa fu protagonista e
le ragioni delle diverse scelte politiche e militari che essa dovette fare,
rilevandone aspetti sicuramente sconosciuti che arricchiscono e illuminano
l'intera vicenda dell'insorgenza. Emergono così, fra l'altro, l'accortezza
politica e l'abilità militare del nobile toscano, nonché
le doti umane e cristiane che condussero il governo provvisorio aretino
e poi toscano da lui presieduto a instaurare rapporti da tempo sconosciuti
fra potere e popolo, e fra le autorità sociali e i ceti umili. Il
lavoro è munito di un nutrito apparato di note, che fanno riferimento
a una varietà di fonti, fra cui l'archivio privato della famiglia
Albergotti.
Le premesse, le origini, e le vicende
delle insorgenze a Roma e nello Stato Pontificio negli anni 1798-1799 costituiscono
l'oggetto del lavoro di Massimo Cattaneo - dottore di ricerca presso l'università
di Napoli Federico II - L'opposizione popolare al "giacobinismo" a Roma
e nello Stato pontificio (pp. 533-568). In un rapido schizzo viene
descritta in esordio la "battaglia delle idee" combattuta dagli ambienti
pontifici ed ecclesiastici romani contro la Rivoluzione francese, anche
se di questa propaganda viene esagerata alquanto la finalità, definita
"terroristica", e sopravvalutata forse un po' la portata, soprattutto se
si pensa alla massiccia e pluridecennale operazione di propaganda messa
in campo dall'avversario. L'efficacia della "profilassi" poliziesca attuata
dal governo di Papa Pio VI (1775-1799) contro le infiltrazioni giacobine
fomentate dagli agenti diplomatici francesi in vista di un rivolgimento
autoctono e in preparazione a una possibile invasione francese repubblicana,
si vide però nel fatto che i nuclei giacobini a Roma ammisero
"[...] nel 1797 di poter contare in città su non più
di settecento simpatizzanti, di cui solo sessantotto pronti a rischiare
personalmente in un eventuale tentativo rivoluzionario" (p. 538). Particolarmente
interessante è la descrizione - anche attraverso la poesia popolare,
utilizzata per veicolare princìpi contro-rivoluzionari - della mentalità
e dei costumi religiosi della popolazione del rione romano di Trastevere,
che sarà l'epicentro del moto del 25 febbraio 1798. Lo svolgimento
di questa viene ripercorso tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle
cause immediate, quanto, infine, nelle modalità di soffocamento
e di punizione adottate dai francesi e sfociate in decine di fucilazioni,
non tutte comminate da tribunali e per di più eseguite con modalità
nuove, cioè senza cornice religiosa, che contribuirono a sconcertare
e irritare ulteriormente il popolo romano. Il saggio contiene una rassegna
della storiografia sull'insorgenza dei territori pontifici, che ha inizio
nel Montefeltro e nelle Marche addirittura al principio del 1797, al momento
del primo impatto bellico fra la Repubblica francese e lo Stato della Chiesa,
e massimo sviluppo nel 1799, anno in cui l'insorgenza del basso Lazio si
collega, anche se non organicamente, al Viva Maria!, a quella dell'Umbria
e al sanfedismo napoletano.
Marina Caffiero - professore associato
di Storia Moderna nell'università di Roma La Sapienza - in Perdòno
per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione
pontificia (pp. 569-602) riporta alla luce aspetti poco noti del periodo
rivoluzionario e napoleonico nei domini pontifici. Lo studio - documentato
anche con reperti di archivio - tratta infatti della politica attuata dal
governo romano dopo la restaurazione pontificia del 1800 nei confronti
dei partecipanti alla vicenda della Repubblica romana del 1798-1799 e dell'atteggiamento
tenuto dal medesimo verso i conati d'insorgenza che caratterizzarono gli
Stati del Papa fra l'inizio del secolo e il momento della nuova conquista
francese, fra il 1807 e il 1808. Nel primo caso, si palesa un atteggiamento
di clemenza che, nonostante gli ammonimenti dei contro-rivoluzionari non
occasionali, sfocia in una serie di misure che si spingono fino a reintegrare
non solo nei diritti civili ma anche negli uffici o, addirittura, a promuovere
a incarichi di responsabilità i protagonisti e i leader giacobini
degli anni della repubblica e della guerra civile del 1798-1799. Misure
tanto impegnative e indiscriminate che vennero lette come espressione di
una condizione di debolezza, peraltro reale a causa della situazione internazionale,
caratterizzata dalla forte pressione francese sullo Stato della Chiesa
dopo il riaprirsi del conflitto con il confinante Regno borbonico. Nella
prospettiva di ristabilire la pace sociale e di stornare da Roma una seconda
invasione - poi comunque subita - il vertice romano preferisce mostrarsi
acquiescente e collaborativo oltre misura con i francesi e allearsi con
gli ex giacobini contro coloro che mettevano a repentaglio la sopravvivenza
dello status quo, ovvero, da un lato - in accordo con la politica
di Parigi -, reprimendo gli elementi più énrages o
anarchistes fra i rivoluzionari italiani, dall'altro lato combattendo
gl'insorgenti dei vari dipartimenti e le formazioni del ribellismo endemico
- il cosiddetto "brigantaggio" -, venutesi a costituire nello scenario
di disordine e d'instabilità sociale degli anni napoleonici. Dopo
un prodromo nella provincia di Frosinone nel 1801, le insorgenze popolari
riprendono e si moltiplicano nel 1806 in sintonia e in prossimità
della seconda insorgenza generale del Regno di Napoli, riesplosa in grande
stile dopo l'occupazione napoleonica. Il governo pontificio giunge a istituire
una congregazione speciale con compiti di controllo e di repressione dei
movimenti popolari: di essa fanno parte sia elementi antigiacobini sia,
significativamente, i maggiori e più noti esponenti del giacobinismo
laziale, che si trovano così a giudicare talvolta persone già
schierate sul fronte loro opposto nei moti di otto anni prima. Dall'esame
degli atti di questa commissione scaturiscono lumi su aspetti poco noti
della vicenda, sui moventi e sull'appartenenza sociale degli insorgenti.
Tutti questi dati rafforzerebbero la tesi di fondo della studiosa secondo
cui l'insorgenza laziale, più che essere letta come conflitto a
sfondo religioso o puramente economico, andrebbe collocata nel quadro di
cronico scontro municipalistico e campanilistico, clientelare e parentale,
che caratterizza l'Italia e gli Stati pontifici e che si riacutizza a causa
dei problemi indotti dall'occupazione francese.
La panoramica dell'Insorgenza italiana
termina con Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale
(pp. 603-622), una sintesi della reazione popolare nel Regno borbonico
tracciata da John A. Davis, del Dipartimento di Storia dell'università
del Connecticut. Già noto per altri studi sul medesimo soggetto
e buon conoscitore delle fonti storiografiche italiane, anch'egli propende
per una interpretazione dell'insorgenza meridionale che vada oltre le pure
ragioni di ordine economico, spostando il fuoco della ricerca sul mutamento
indotto, sovente a forza, nella società di antico regime e tenendo
conto della grave crisi della monarchia napoletana, che sarebbe all'origine
anche dell'opzione di alcuni maggiorenti per la Rivoluzione allo scopo
di garantire comunque l'ordine civile. Una particolare attenzione andrebbe
riservata alle vicende micro-sociali, perché sarebbero i municipi
- con le loro vicende e i loro retaggi infiniti di rivalità e di
conflitti, che trovano nuovo alimento nella situazione di "rottura" di
un equilibrio degli anni napoleonici - a sostanziare, più delle
macro-strutture istituzionali, l'Insorgenza meridionale. Lo studioso anglosassone
ritrova questa serie di problemi nelle scelte operate dal leader
della Santa Fede, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), analizzandone
accuratamente la condotta durante e dopo l'insorgenza.
3. Conclusioni
Il fascicolo di Studi Storici
fornisce contributi sostanziosi e sufficientemente obiettivi, e sembra
rappresentare un promettente inizio di riflessione sul fenomeno dell'Insorgenza
italiana, ma evidenzia anche un atteggiamento di fondo che si presta a
non pochi rilievi.
La principale osservazione è
che un po' in tutti i contributi tendano a persuadere il lettore dell'esistenza
di una ricerca - e di non trascurabile spessore - sull'Insorgenza, che
viene data addirittura per scontata, anzi si lascia intendere che, al suo
interno, vi sarebbero articolazioni, correnti e scuole diverse, su cui
peraltro si innesterebbe al presente un tanto vigoroso quanto esecrato
"revisionismo" - i cui contributi sarebbero per lo più scadenti
sotto il profilo scientifico -, promosso strumentalmente da ambienti ideologizzati
in senso nostalgico-reazionario e mirante a inquinare il recupero d'identità
in corso nel mondo culturale e politico italiano.
Già nel 1995 Giuseppe Galasso,
uno dei maggiori storici italiani contemporanei, aveva sostenuto dalle
colonne della rubrica culturale del più autorevole quotidiano nazionale
(4) che erano "sciocchezze" le pretese di coloro che
lamentavano come le insorgenze fossero state sottoposte all'"oblio e
al disconoscimento [da parte di] una gretta storiografia nazionale,
liberale, democratica" (5). Al contrario, sosteneva il professore
napoletano, "[...] i movimenti controrivoluzionari sono stati
in Italia largamente studiati in opere e saggi dovuti spesso ad autori
anche illustri" (6) e poi, "[...] nessuno ha mai
disconosciuto l'"eroismo" di quelle Vandee italiane" (7).
Altro che "sferzante giudizio" sul "revisionismo" - così
lo reputa, citandolo, Massimo Cattaneo (p. 568, nota 94) - vien da dire!
Si tratta invece di affermazioni che, nella più benevola delle ipotesi
suonano superficiali, quando non mistificanti. Le cose stanno in realtà
assai diversamente e non riesco a persuadermi che il curatore di una delle
più prestigiose collane di storia d'Italia lo ignori.
L'Insorgenza non è stata per
nulla "largamente" studiata. Mancano di essa tuttora quattro dimensioni
essenziali. In primo luogo la ricerca e l'analisi delle fonti primarie
- documenti degli archivi civili e religiosi, in primo luogo -, capillarmente
estesa al territorio italiano, come richiede lo studio di una realtà
così disaggregata e legata a fattori locali. è assente poi
del tutto una elaborazione a livello generale delle fonti e, quindi, una
storiografia di respiro nazionale sul tema. Quindi non si può nemmeno
parlare di una tradizione o di una scuola storiografiche, neanche di esiguo
spessore, sulla quale potere innestarsi. Infine - per tacere della informazione
culturale, ossia dei mezzi di comunicazione sociale - manca il necessario
"travaso" delle acquisizioni storiografiche nel piano di formazione culturale
del cittadino medio, ovvero nei programmi scolastici. Non è solo
in questione la mancanza di "un aggiornato quadro d'insieme",
come rileva la Rao nel saggio
di apertura (p. 326) - che non è solo colpa "della frammentazione
e dispersione delle fonti documentarie degli Stati preunitari" (p.
325) -: è in questione la conoscenza tout court del fenomeno,
che dipende in buona sostanza dalla non volontà di dare rilievo
nei fatti e nelle interpretazioni a questa pagina non secondaria della
biografia della nazione italiana. Forse solo per il Mezzogiorno - e concordo
qui in parte con la studiosa lucana - si può parlare di una storiografia
di una qualche portata: ma l'Insorgenza dell'Italia meridionale ha avuto
tratti talmente macroscopici da rendere impossibile ignorarne o affievolirne
la memoria. Ma anche in questo caso la ricerca scientifica si è
mostrata finora carente e stereotipata almeno nelle interpretazioni, anche
se forse si profilano segnali di cambiamento: la prospettiva accennata
nel saggio di John A. Davis - il legame fra insorgenza e crisi generale
della monarchia borbonica - costituisce per esempio una pista di ricerca
innovativa e promettente. E prova di tale condizione è proprio il
fatto che gli studiosi della rassegna, invece di limitarsi a "glossare"
criticamente studi già esistenti, hanno dovuto "scavare", e non
poco, in archivi assai poco "battuti" e in neglette storie locali per lo
più datate per mettere insieme le informazioni offerte al lettore.
Si potrebbe chiedere: dove sono gli autori 3/4
l'equivalente dei Saitta, dei Vaccarino, degli Zaghi -? dove
sono i testi? dove sono gli schemi esplicativi
da rimettere in discussione? dov'è la "scolastica" accademica in
questo àmbito? Posso personalmente testimoniare che nel 1973, quando
iniziai a elaborare la mia tesi di laurea sul tema delle insorgenze nella
Lombardia del 1796, al primo accostamento alla materia non riuscii a mettere
insieme più di due opere di sintesi, quella di Lumbroso - del 1932,
che è parziale e copre il solo Triennio Giacobino (8)
- e il volume di Jacques Godechot La Contre-révolution, doctrine
et action, del 1962 - che si ferma al 1804 e che è stato tradotto
in italiano solo nel 1988 (9).
Quello che non si vuole ammettere
è che siamo in realtà di fronte a una oggettiva rimozione,
di origine non recente e tenacemente reiterata - e rafforzata dalla gramsciana
conquista dell'egemonia culturale -, di un evento che non è un banale
accadimento sporadico, ma, come riconosce ancora - ma perché solo
adesso? - la Rao, autrice di molteplici studi sul periodo rivoluzionario
in Italia, un fenomeno che "[...] ebbe un ruolo centrale nella
vita politica italiana alla svolta fra Sette e Ottocento, non solo, ma
anche negli orientamenti dei repubblicani del triennio 1796-1799 e nella
politica napoleonica, e ancor più nell'immaginario e nella riflessione
storiografica dell'Ottocento. Basti ricordare il peso che avrebbe esercitato
nel pensiero e nell'azione degli uomini del Risorgimento, da Mazzini a
Pisacane, nel dibattito sulle vie da seguire per realizzare l'indipendenza
e l'unificazione politica italiane" (p. 327) (10). Una realtà,
fra l'altro, costata agli italiani, secondo una stima per difetto,
in quanto limitata all'inizio del 1799 - che la studiosa del Mezzogiorno
suppongo conosca, in quanto fornita da uno dei protagonisti delle vicende
della Repubblica Napoletana, il generale francese Paul-Charles Thiébault
- almeno sessantamila vittime (11),
un dato ancora più impressionante se lo si confronta percentualmente
con la popolazione dell'epoca (12) e se si pone mente che non
è dovuto a qualche malaugurato evento naturale - un terremoto, un'inondazione
-, bensì è il prodotto di una volontà umana applicata
alla realtà.
Di fronte a questa obiettiva carenza
storica non mi sembra lecito, oltre tutto, squalificare i tentativi - magari
anche ideologicamente orientati - di chi, con i mezzi di cui ha potuto
avvalersi, non certo comparabili con quelli di cui dispone la storiografia
istituzionale, ha cercato di ricostruire la fisionomia di un momento della
storia italiana che, come confermano i lavori ospitati da Studi Storici,
rivela sempre più nitidamente la sua portata nei fatti e nelle conseguenze.
Non si sa davvero che cosa pensare
davanti a un simile "peccato" di omissione riguardo a un fenomeno sul quale
non può, come minimo, non "inciampare" qualunque percorso di ricerca
serio, né si vede dove possa condurre questo modo di fare storia.
Che "magistero" può esercitare? Che futuro può aiutare a
costruire? Quale contributo può fornire un atteggiamento scientifico,
non solo viziato dall'ideologia, ma tendenzialmente ostruzionistico, in
un frangente nel quale l'Italia ha bisogno di ogni contributo volto a farle
ricuperare integralmente la propria memoria storica, civile e religiosa
per potere così meglio ridefinire la propria identità e per
formulare nuove regole con cui perseguire il proprio "bene comune"?
Ma vi sono altri rilievi di merito,
che riguardano i giudizi espressi sull'interpretazione generale dell'Insorgenza
e sui contributi finora forniti dagli ambienti che vengono definiti del
"cattolicesimo reazionario e intransigente" (p. 326). La prospettiva
delineata da Massimo Cattaneo - ovvero il "[...] progetto di
incidere nel processo di formazione di un nuovo paradigma repubblicano
elaborando una nuova memoria storica nazionale, anche a partire dal recupero
di ogni forma di "sanfedismo", in quanto testimonianza di una rimpianta
unità tra valori religiosi e valori pubblici, di una società
organicamente "ordinata", tradizionalista e impermeabile alle detestate
ideologie liberali e di sinistra" (p. 561), che trova accoglienza da
parte di testate di forze politiche conservatrici, nella fattispecie il
Secolo d'Italia e i cui prodotti confluiscono in "dizionari del
pensiero forte" - sembra correttamente ricostruita e, anche se evocata
in chiave tendenzialmente polemica, non si vede che cosa vi sia d'illegittimo
nel "tentare di incidere" "da destra" nell'elaborazione culturale
che prelude alla formulazione di un nuovo assetto repubblicano. Né
che cosa vi sia di ignobile nel rifarsi ai valori evocati, non espungendo
dal curriculum del nostro Paese neppure il "sanfedismo" - forse
l'emblema dell'omissione e della contraffazione perpetrate nei confronti
dell'Insorgenza -, che certamente va valutato criticamente - e severamente,
anche nei suoi aspetti meno "rosei" -, ma riguardo al quale va rifiutata
la vera e propria "leggenda nera" - che mostra ogni giorno di più
la corda - che è gli è stata costruita addosso nel tempo,
sì che l'aggettivo "sanfedista" viene utilizzato ancora oggi più
come "clava" ideologica, che per designare una posizione ideale.
Riguardo invece al "revisionismo"
che affliggerebbe la storiografia sviluppata nella prospettiva predetta
- che tenderebbe a "[...] sollecitare una totale riscrittura
della storia italiana ed europea dal XVIII al XX secolo "dal punto di vista
degli sconfitti"" (p. 367) e che viene evocata a più riprese
nei vari saggi, ancora in veste di giudizio di merito e con intenti non
del tutto benevoli -, occorre subito premettere che anche in questo caso
una definizione comunemente accettata di questo termine non esiste. Proprio
in questi giorni Ernst Nolte, il "padre" del revisionismo contemporaneo,
ne ha fornito una definizione a mio avviso "aurea", scrivendo: "[...]
considero tratti distintivi di ogni revisionismo serio e perlomeno orientato
in una direzione scientifica la critica documentata all'unilateralità
e alle lacune della veduta "ufficiale" e la volontà di attenersi
ad una maggiore obiettività" (13).
Se tale è il "revisionismo",
muoversi in tal senso sarebbe non solo lecito, ma doveroso. Anzi esso dovrebbe
assumere quell'atteggiamento "militante", che viene lamentato ancora
da Massimo Cattaneo nei confronti dello storico cattolico maceratese Sandro
Petrucci (14) - pur da lui apprezzato dal punto di vista "tecnico"
-, perché renderebbe "opaco sul piano interpretativo" (p.
561, nota 82), il lavoro di ricerca. Ma non si può non domandarsi
a che cosa dovrebbe applicarsi nella fattispecie dell'Insorgenza la "revisione"
denunciata, ovvero quali paradigmi scientifici unilateralmente invalsi
si dovrebbe sottoporre a "revisione", dato che essi non ci sono. Non
che manchino "vedute ufficiali" - che affiorano per esempio quando
si rompe il silenzio -, ma esse sono costituite per la gran parte da giudizi
non approfonditi, derivati da orientamenti ideologici pregiudizialmente
contrari, senza riscontri fattuali resi superflui dalla maramaldesca consapevolezza
che chi ne è oggetto è uno "sconfitto", sia storico che nella
"battaglia delle idee".
Non sembra, ancora, accettabile ricondurre,
come fa lo stesso studioso, con una intentio palesemente squalificante,
il "revisionismo" sulle insorgenze alle prospettive "cattolico-integralista,
neo e postfascista, monarchico legittimista" (p. 567), senza fornire
definizione di tali realtà. Il cosiddetto revisionismo nasce invece
da un atteggiamento di domanda di verità e di obiettività
e come spontanea e costruttiva reazione alla percezione di una monumentale
ingiustizia inferta a uomini, nostri antenati, la cui le cui scelte vanno
giudicate e anche - se necessario - condannate, ma la cui memoria ci appartiene
e dobbiamo recepirla o riscoprirla con atteggiamento di profonda e amorosa
pietas.
Venendo infine alla tesi secondo
cui gli storici "revisionisti", ergo "di destra", "revisionano"
tutto, ma salvano sempre e solo l'opera dello storico nazionalista e fascista
Giacomo Lumbroso (1897-1944) (15), viene spontaneo domandarsi
a che cosa si poteva riallacciare fattualmente chi volesse conoscere,
anche solo ieri, qualcosa della reazione delle plebi contro la Rivoluzione
francese in Italia, dato che null'altro di fatto esisteva a un primo
accostamento, se non all'opera dello storico fiorentino. Ho già
avuto modo di mettere in luce questo aspetto nell'introduzione alla riedizione
del suo "vecchio e ben noto - ma a quanti? - studio" (p.
325) apparsa nel 1997. In tale sede mi sono altresì sforzato di
non operare il minimo "ricupero" né delle prospettive storiografiche
- che giudico oggettivamente insufficienti e forzate sotto il profilo ermeneutico,
anche se vanno lette nel clima culturale italiano fra le due guerre mondiali
-, né tanto meno delle prospettive dottrinali di Lumbroso, ma di
effettuare solo un'operazione di ricupero documentale. Vedo però
purtroppo che il punto è stato frainteso, se Paolo Preto sostiene
che la mia nota biografica e la mia prefazione al volume "[...]
ribadiscono la prospettiva storico-politica nazionalista (risalente a Niccolò
Rodolico [1873-1969])" (p. 350).
Tentando un giudizio d'insieme sui
contenuti del fascicolo monografico di Studi Storici, si può
osservare che, dal punto di vista delle interpretazioni i diversi studiosi
sembrano essere accomunati, oltre che dal rigetto delle forzature nazionalistiche
dei primi decenni del secolo, dall'esigenza di guardare al fenomeno con
una visuale sempre più ampia e spregiudicata, abbandonando interpretazioni
più o meno rigidamente mono-causali a sfondo "infrastrutturale"
- di cui potrebbe essere modello, nel caso della storia contemporanea,
il gramsciano Giorgio Candeloro (1909-1988) -, e muovendosi verso una visione
maggiormente interdisciplinare, esigita peraltro da una realtà così
complessa e disomogenea quale è l'Insorgenza. Se questo cambiamento
sia un semplice tentativo di "noyer le poisson" - annegare
il pesce, ovvero di diluire al massimo una realtà, facendole perdere
sostanza -, come sembra stia accadendo riguardo ad altre tematiche (16),
sia cioè frutto del prevalere
di una visione "debole", tendenzialmente portata a frammentare e relativizzare
l'interpretazione generale dell'Insorgenza, oppure segno di un progresso
salutare non è possibile al momento affermarlo. Certo, l'assenza
di una sintesi di qualche spessore fra i saggi della raccolta, come pure
il fatto che l'orizzonte spaziale e temporale evidenziato dagli studiosi
sia sempre piuttosto ristretto sembrerebbero fare propendere per la prima
ipotesi. Su tale atteggiamento maggiormente
"aperto" la convergenza di studiosi di altra origine e collocazione anche
militante può già fino da ora essere più ampia, soprattutto
da parte di quegli studiosi che partendo da diverse ipotesi di lavoro e
rifacendosi a certa storiografia francese degli ultimi anni - per esempio
a Jean Dumont, a Reynald Secher e a Jean Meyer (17) - ritengono
che l'Insorgenza vada letta all'interno della logica del processo di genesi
e di affermazione della modernità in Occidente. Uno schema esplicativo
tendenzialmente portato a leggere l'Insorgenza come categoria, piuttosto
che come mero fenomeno, e fondamentalmente "forte" - di qui il suo legame
con il "pensiero forte" -, apparentemente mono-causale, ma in realtà
ampiamente sfaccettata. Una visione sufficientemente flessibile per accogliere
contributi diversi e più idonea a cogliere la verità di un
fenomeno storico multiforme, che, servata distantia, presenta analogie
con una realtà di un'altra epoca, il comune medievale, il quale
si origina spesso per ragioni le più diverse, non in maniera sincrona
nello spazio, ma si afferma più o meno nella stessa epoca in tutto
il continente europeo.
Nella densa massa dei dati proposti
è possibile cogliere anche spunti e stimoli meritevoli di ulteriori
approfondimenti. Per esempio, il lavoro di Claudio Tosi sul Viva Maria!
fa scoprire che anche fra i contro-rivoluzionari non erano assenti prospettive
di mutamento dello status quo e di ricongiunzione alle forme socio-politiche
precedenti le riforme illuministiche dei prìncipi settecenteschi.
Ancora, lo stesso studio, forse nell'ottica di superare la visione delle
"masse" contadine come soggetto indistinto e monolitico, contiene un primo
tentativo di biografia di un leader contro-rivoluzionario - quella
del marchese aretino Giovan Battista Albergotti -, che può costituire
un valido esempio per analoghi lavori.
La rassegna edita dall'Istituto Gramsci
presenta anche contenuti, espliciti o impliciti, meno felici.
In primo luogo si rileva in pressoché
tutti i lavori una pregiudiziale aprioristicamente negativa verso l'elemento
religioso nella genesi e nello svolgimento dei vari episodi di insorgenza,
che si traduce nella sua pratica espunzione oppure nella sua "riduzione"
o nel suo appiattimento sociologico. Se è vero che il fattore religioso
non è stato sempre l'unico movente delle reazioni popolari, è
altresì indubbio che esso è sempre e ovunque presente e trascurarlo,
oppure posporlo a realtà apparentemente "più profonde", significa
non tenere conto dell'assoluta primarietà delle credenze e dei riti
nella cultura ancora omogeneamente cristiana, delle popolazioni della penisola
alla fine del Settecento, elaborando interpretazioni quanto meno inadeguate.
Dalla lettura dei diversi saggi,
ma soprattutto da quella del saggio introduttivo, non emerge poi un aspetto
importante dell'Insorgenza italiana, ovvero la sua appartenenza a un quadro
europeo. Nel periodo napoleonico la resistenza popolare contro i francesi
in difesa della tradizione religiosa e civile si manifesta in tutte le
nazioni cattoliche, che si trovano all'improvviso esposte a un processo
di modernizzazione e di secolarizzazione ad alta intensità, non
preparato, come altrove, dalla Riforma. Dal Belgio, alla Spagna, dalla
Svizzera, fino all'isola di Malta, ovunque la Rivoluzione francese avanza
dietro alle armi napoleoniche, le popolazioni, i ceti umili, si sollevano,
rialzano i simboli religiosi e le insegne delle "piccole patrie", dando
vita a sollevazioni, come quella spagnola, di vasta portata. Non dare sufficiente
rilievo a questa dimensione transnazionale, trascurando gli studi - unici
a tracciarne il profilo, anche se in maniera incompleta - di Jacques Godechot
significa menomare la possibilità di comprendere adeguatamente l'Insorgenza
italiana, rischiando di ridurla a una ripresa di "beghe" fra municipi in
perenne e atavico conflitto fra loro. A questo riguardo, mentre va osservato
che le lotte campanilistiche trovano nuovo vigore - come proprio
l'amico Sandro Petrucci ha messo in rilievo (18) -proprio in
conseguenza dello sconvolgimento di equilibri plurisecolari a opera della
"totale organizzazione" (19) della società di
allora attuata dalle repubbliche giacobine - nella fattispecie dalla Repubblica
Romana -, non si può non ricordare come, almeno per l'insorgenza
dell'Italia centrale del 1798-1799, non ci si trovi affatto di fronte a
episodi - anche numerosi, ma del tutto particolaristici e scoordinati fra
loro - di difesa della "piccola patria", ma si manifesti invece un'embrionale
unità di intenti e di lotta fra gl'insorgenti.
Tralascio ogni considerazione in
merito alla liceità - che non viene mai posta in dubbio nella raccolta
- da parte della Repubblica francese di aggredire, di spogliare e di "democratizzare",
violando diritti costituiti plurisecolari, stati neutrali e pacifici, come
pure sull'esproprio di risorse finanziarie e di tesori artistici cui i
francesi sottoposero nel Triennio i popoli italiani. Osservo invece che,
mentre nel panorama delineato affiora in più punti la denuncia della
"bestiale ferocia" degli insorgenti - che non è assolutamente né
ordinaria, né generalizzata: se ad Arezzo nel 1799 vengono uccisi
e bruciati tredici ebrei, nell'insurrezione di Pavia del 1796 i cinquemila
contadini insorti non provocano una sola vittima, né fra i giacobini,
né fra i francesi -, non emerge sufficientemente, o forse non emerge
affatto, quanto brutale siano state la repressione e le rappresaglie perpetrate
dai francesi - ma anche dalle milizie cisalpine e "italiche", evocando
immagini di un diverso e più recente collaborazionismo - contro
una popolazione il più delle volte inerme. Le loro vittime sono
forse da considerare ovvi e forse dovuti "contributi" al "riscatto" delle
popolazioni italiane? Che cosa pensare dell'assordante silenzio sulle sofferenze
dei tanti minores - perché privi della cultura e dei mezzi
per fare conoscere le proprie ragioni - di allora e il rilievo tributato
ad avvenimenti oggettivamente insignificanti, ma di diverso segno "politico"?
Si tace delle migliaia di morti dell'Insorgenza a Milano, a Pavia, a Verona,
a Lugo di Romagna, a Firenze, a Roma, a Napoli, in Abruzzo, nelle Calabrie
e si assorda invece il cittadino con quelle, pur reali, ma incomparabilmente
più lievi, per fare un esempio, dei "quattro" "martiri dello Spielberg".
Eppure la fase finale dell'Insorgenza precede solo di pochi anni quest'ultima
vicenda.
In conclusione, se il numero monografico
di Studi Storici rappresenta, com'è lecito credere, una "galleria"
delle ultime tendenze della ricerca - almeno di una certa "scuola", ma
non poco significativa - in merito alle insorgenze popolari nel periodo
napoleonico, se ne trae l'impressione e l'auspicio che la storiografia
sul tema esca finalmente dalla minorità e si avvii verso una maggiore
consapevolezza. Soprattutto pare che l'Insorgenza abbia trovato spiragli
di interesse in una parte del mondo accademico. È questa, se non
l'unica, almeno la via decisiva per giungere a una conoscenza adeguata
del fenomeno. L'importante è che questo interesse non venga inquinato
e fuorviato dalle sopravvivenze ideologiche - magari travestite da pensiero
"debole" -, e che iniziative private o non istituzionali, invece che essere
declassate o combattute, trovino incremento e sostegno da parte di chi
è istituzionalmente preposto a "fare" storia e a promuovere la cultura.
La prossimità della ricorrenza del secondo centenario della fase
clou dell'Insorgenza italiana e della sua, anche se temporanea,
vittoria, il 1799 - in vista della quale va senz'altro collocata l'iniziativa
realizzata da Studi Storici -, può essere un'opportunità
da non perdere.
Oscar Sanguinetti
(apparso in Cristianità n. 282, anno XXVI, ottobre 1998, pp. 9-19)
NOTE
(1) Le insorgenze popolari nell'Italia rivoluzionaria
e napoleonica, numero monografico di Studi Storici, anno 39,
n. 2, aprile-giugno 1998, pp. 325-622 (Edizioni Dedalo, Bari 1998), £.
25.000.
(2) La rassegna contiene alcune affermazioni
inesatte riguardo allo storico Giacomo Lumbroso, che viene detto attivo
"agli inizi di questo secolo" (p. 376), cosa che pare difficile,
essendo egli nato nel 1897, e definito "[...] un intelligente
conservatore di matrice positivista che ci ha lasciato alcune ricerche
assai ben documentate sulle insorgenze antinapoleoniche nella pianura padana"
(ibidem). A riguardo, mentre è condivisibile il giudizio
relativo all'"intelligente conservatore", non è evidente
da dove si possa dedurre una matrice positivista in Lumbroso; né
sono note ricerche "assai ben documentate" dello stesso riguardo
alla pianura padana, avendo egli trattato tale argomento nel quadro della
sua - peraltro unica - opera di sintesi I moti popolari contro i francesi
alla fine del secolo XVIII (1796-1800) (2a ed. rivista,
a cura di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; 1a ed.,
Le Monnier, Firenze 1932), dedicata alle insurrezioni dell'intera Penisola,
nella quale dà invece più ampio spazio, come doveroso, all'insorgenza
dell'Italia centrale e del Regno di Napoli.
(3) Cfr. Giuseppe Ricuperati, Il Settecento,
in Pierpaolo Merlin, Claudio Rosso, Geoffrey Symcox, e Giuseppe Ricuperati,
Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in
Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, UTET, Torino 1994,
vol. VIII*, pp. 441-834.
(4) Cfr. Giuseppe Galasso, Un'eroica Vandea
non si nega a nessuno, in Corriere della Sera, 13-9-1995; cfr.
anche ISIN, Istituto per la Storia delle Insorgenze, Perché l'attenzione
all'Insorgenza, comunicato del 2-12-1996, in Cristianità,
anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, p. 6.
(5) G. Galasso, art. cit.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) Cfr. G. Lumbroso, op. cit.;
tale tesi è all'origine del mio Le Insorgenze contro-rivoluzionarie
in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con
una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996;
cfr. recensione di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno
XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 26-30.
(9) Jacques Godechot, La contre-révolution,
doctrine et action (1789-1804), PUF, Parigi 1961, trad. it. sulla 2a
ed. fr., La Controrivoluzione. Dottrina e azione. 1789-1804, Mursia,
Milano 1988.
(10) Viene irresistibile chiedere: ma in quale
liceo o aula accademica si insegna, non solo che Giuseppe Mazzini (1805-1872)
si sia posto il problema delle insorgenze del periodo napoleonico nel quadro
della sua elaborazione teorica, ma che esse siano esistite tout court?
La stessa Rao, in un precedente numero della rivista dell'Istituto Gramsci
- cfr. l'articolo Mezzogiorno e rivoluzione: trent'anni di storiografia,
in Studi Storici anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041
-, ha già avuto modo di farsi portavoce della tesi di Galasso nel
contesto della valutazione - peraltro incidentale - di un breve profilo
delle insorgenze contro-rivoluzionarie da me tracciato e comparso nel volume
collettaneo Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia [Piemme,
Casale Monferrato (Alessandria) 1994, pp. 373-407]. Per inciso, la valutazione
risulta del seguente tenore: mentre le mie poche righe vengono rubricate
sotto la voce "[...] impudenti ricorrenti recriminazioni dei
reazionari di turno - prontamente recepite e amplificate dai mezzi
di comunicazione - su un'insorgenza negletta e incompresa",
a carico di chi scrive viene detto che "[...] solo l'incoscienza
può spingere a spaziare in poco più di trenta pagine dalla
Vandea del 1793 al Messico del 1926, e solo l'ignoranza può sorreggere
nell'affermazione che il fenomeno delle insorgenze popolari controrivoluzionarie
sia stato fino a non molti anni fa [...] poco esplorato in ambiente di
ricerca"" (ibid., p. 1010 e nota 108). A riguardo mi limito
solo a rilevare il tono alquanto scomposto della reazione dell'illustre
docente - a meno che non sia stato causato da un improvviso e violento
accesso di idiosincrasia acuta verso le interpretazioni "unitarie" dell'Insorgenza?
-, mentre sotto il profilo sostanziale, mi permetto di osservare che esistono
sintesi di poche pagine riguardo a periodi e a fenomeni storici ben più
ampi. Come ben saprà, il "taglio" del proprio contributo dipende
dal contesto in cui deve situarsi e non sempre lo storico può sceglierlo,
anzi ritengo che le sintesi, per di più del respiro di un articolo
di rivista, siano fra le modalità espressive più difficili.
Ma forse il mio articolo, così esiguo, ha acutizzato, traducendolo
in un improvviso e violento accesso, l'idiosincrasia verso le interpretazioni
"unitarie" dell'Insorgenza da cui la professoressa Rao sembra essere affetta?
Mi sfugge invece totalmente come la studiosa abbia potuto riscontrare che
le tesi dei "reazionari" vengano prontamente recepite e amplificate dai
mezzi di comunicazione: a me pare, al contrario, che le uniche poche volte
che viene rotto il silenzio da parte dei mass media sui "reazionari"
- e si veda proprio la sortita di Giuseppe Galasso sopra ricordata e peraltro
reiterata in successiva occasione - è quando occorre parlarne per
"batterne in breccia", facendo sparare magari "cannoni" di grosso calibro,
le argomentazioni e le azioni. Last but not least, non rilevo fra
quelli addotti dalla studiosa alcun elemento che imponga di rivedere la
mia asserzione, e devo quindi a ribadirla anche in questa sede, soprattutto
alla luce dei primi risultati di ricerche che l'Istituto per la Storia
delle Insorgenze ha promosso relativamente all'Italia settentrionale. Anzi,
il dotto e nutritissimo studio bibliografico della Rao sulla Rivoluzione
nel Mezzogiorno d'Italia rafforza ulteriormente la mia convinzione, quando
confronto l'esiguità dei riferimenti a opere dedicate alla maggiore
delle insorgenze della Penisola, quella del Regno di Napoli - mentre si
afferma contraddittoriamente che occorre "[...] comprendere
[...] come mai tanto ampie e diffuse furono le resistenze e le reazioni
popolari contro i francesi e i loro sostenitori "giacobini"" (ibid.,
p. 997) - con la dovizia dei titoli relativi alla Rivoluzione.
(11) Cfr. Generale Paul-Charles Thiébault,
Memoires du Général Baron Thiébault publiées
sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d'après
le manuscript original par Fernand Calmettes, Parigi 1893-1895, vol.
II, p. 325.
(12) Cfr. Athos Bellettini, La popolazione
italiana. Un profilo storico, a cura di Franco Tassinari, con una introduzione
di Marino Berengo, Einaudi, Torino 1987, che valuta la popolazione a circa
15,5 milioni nel 1750 e a circa 18 milioni nel 1800 (cfr. tabella I, p.
14).
(13) Ernst Nolte, Verità e leggenda
del revisionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi
storici e politici sull'età contemporanea, anno II, n. 5, settembre-ottobre
1998 (Luni editrice, Milano 1998), p. 11.
(14) Il riferimento è al volume Sandro
Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti
antifrancesi del 1797, Sico, Macerata 1996; cfr. la recensione di Francesco
Pappalardo, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996,
pp. 26-26.
(15) Cfr. alcune notizie sulla vita e l'opera
di Lumbroso in O. Sanguinetti, saggio introduttivo a G. Lumbroso, op.
cit.
(16) Cfr., a riguardo, l'articolo di Alberto
Indelicato - cui per inciso debbo l'efficace espressione "noyer le poisson"
- Revisionismo e giustificazionismo, in nuova Storia Contemporanea.
Bimestrale di studi storici e politici sull'età contemporanea,
cit., pp. 143-150.
(17) Di Jean Dumont, cfr., fra gli altri, I
falsi miti della Rivoluzione, con una prefazione di Giovanni Cantoni,
trad. it., Effedieffe, Milano 1989; di Reynald Secher, cfr. Le génocide
franco-français: la Vendée-Vengé, 2a ed.,
P.U.F., Parigi 1988, trad. it., Il genocidio vandeano, con una prefazione
di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu, Effedieffe, Milano
1989; e di Jean Meyer, cfr. La Cristiada, 4a ed. riveduta,
3 voll., Siglo Ventuno editores, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1976.
(18) Cfr. S. Petrucci, L'insorgenza nell'Italia
Centrale negli anni 1797-1798, in Nota informativa (dell'Istituto
per la Storia delle Insorgenze di Milano), anno II, n. 8, gennaio-aprile
1998, pp. 7-24.
(19) Ibid., p. 13: l'espressione è
tratta da un documento "romano" dell'epoca. |