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Fidelizzazione del personale

Il problema che si affronta riguarda la fidelizzazione del personale, ossia il mantenimento delle professionalità più importanti, essenziali o di difficile reperimento sul mercato.

Non è sufficiente, infatti, erogare un emolumento in busta paga (comunque denominato) per assicurarsi le prestazioni del personale, con la garanzia della sua permanenza in servizio o della ripetibilità delle somme nel caso di mancato rispetto dell’impegno preso.

Né, a mio avviso, questa garanzia può essere offerta da un accordo, individuale o sindacale, che preveda un meccanismo del tipo: "Ti pago per rimanere x anni, se vai via prima, mi devi x lire".

A conclusione di una ricerca sulle diverse, possibili, tipologie di accordo che consentano di raggiungere il risultato auspicato, è nostra opinione che la soluzione migliore sia quello di stipulare al momento della costituzione del rapporto di lavoro o anche in un momento successivo, non soggiacendo alle particolari formalità della legge 230/1962 in tema di contratto a termine (arg. ex Cass. 10460/1990) una clausola di durata minima del rapporto.

L’apposizione di detta clausola non contrasta con le norme del contratto a termine, né "converte" il contratto di lavoro in un contratto a termine. Detta clausola, anzi, ha una sua precisa funzione proprio nei rapporti a tempo indeterminato, dove il datore di lavoro voglia garantirsi non già una durata massima, ma una salvaguardia dell’investimento effettuato, o che intende effettuare, nella professionalità del lavoratore (es. frequenza corsi di formazione professionale esterni, stages formativi presso altre strutture, momenti di didattica intra aziendale, ecc.). Per gli assunti ex novo la pattuizione della clausola può essere motivata anche solo dall’interesse del datore di lavoro a voler "fidelizzare" il lavoratore; questa motivazione non è sostenibile nel caso in cui il lavoratore sia già stato assunto, potendosi facilmente obiettare che una simile esigenza non sorge durante il rapporto ma preesiste ad esso e deve essere pattuita al momento della sua costituzione.

La clausola in questione non impedisce il recesso per giusta causa (o anche per altri fatti specificamente concordati: arg. ex Cass. 3639/1983) ma spiega la sua efficacia nei casi di recesso disciplinati dall’art. 2118 cod. civ. (e quindi, sostanzialmente, nel caso di licenziamento per giustificato motivo o di dimissioni non per giusta causa: Cass. 1435/1998; Cass. 10043/1996;Cass. 924/1996). La giurisprudenza ha anche affermato che debba essere valutato l’interesse del datore di lavoro a usufruire delle future prestazioni lavorative, nel caso di impossibilità sopravvenuta, escludendo o riducendo l’indennizzo a carico del medesimo datore nel caso in cui dette prestazioni non risultino proficuamente utilizzabili (Cass. 4437/1995).

Le conseguenze del recesso sono diverse a seconda di chi vi dia causa:

  1. se recede il datore di lavoro (non per giusta causa), l’indennizzo da corrispondere al lavoratore è pari al numero di mensilità mancanti alla data di scadenza del termine di durata minima, detratto l’aliunde perceptum (Cass. 10043/1996 cit.; Cass. 924/1996 cit.). A questo si aggiungono le sanzioni previste per l’eventuale recesso illegittimo.
  2. se recede il lavoratore (non per giusta causa), l’indennizzo dovuto è pari al danno causato al datore di lavoro e non è necessariamente commisurabile all’importo delle retribuzioni perdute, potendo essere più elevato o più ridotto in base al concorso di più parametri oggettivi (es. rilevanza delle mansioni svolte dal lavoratore, danno causato dalla perdita della specifica professionalità, ecc.: v. Cass. 1435/1998 cit.). Per forfettizzare la misura del risarcimento del danno, è opportuno pattuire una clausola penale, che esonererà il datore di lavoro dall’onere della prova del danno subito, operando come una presunzione di danno. Ciò non comporta, peraltro, che la penale non possa essere ridotta dal giudice, se ritenuta eccessiva, né esclude che il datore di lavoro possa richiedere il danno ulteriore ex art. 1382, comma 1, cod. civ.

La clausola in questione non costituisce una clausola vessatoria (cfr. Cass. 1435/1998 cit.) e non deve essere necessariamente approvata specificamente ex art. 1341 cod. civ.

Un risultato analogo a quello che si desidera ottenere può anche essere dato dalla stipula di un patto di non concorrenza, che per essere valido deve soddisfare tre requisiti:

  1. forma scritta, a pena di nullità
  2. corrispettivo (congruo) al lavoratore per l’impegno assunto
  3. limitazione nel tempo (massimo 3 anni, 5 se dirigenti) e nello spazio (non deve essere tale da impedire radicalmente ogni attività del lavoratore: suggerirei un ambito provinciale o circoscritto in un dato raggio chilometrico dalla attuale sede di lavoro).

Sia il patto di non concorrenza che il patto di durata minima garantita devono risultare da atto scritto, in cui – possibilmente – sia enunciata la causa del negozio (lecita) e da cui derivi una attribuzione economica supplementare al lavoratore a fronte dell’impegno aggiuntivo che questi si assume. Il patto dovrebbe essere specificamente approvato per iscritto dal lavoratore, non solo con una semplice sottoscrizione ma in atto separato, con una manifesta ed inequivoca adesione della volontà. Entrambi gli impegni devono adeguatamente essere retribuiti. Il compenso potrebbe anche utilizzato come alternativa alla concessione di superminimi individuali.

Una soluzione ottimale potrebbe essere la seguente:

  1. per i dipendenti in forza, la sottoscrizione di un patto di non concorrenza;
  2. per i dipendenti assumendi, l’impegno all’atto dell’assunzione, di una durata minima garantita del rapporto di lavoro.