Il convento

di Jarno.
Sito web http://members.xoom.it/jarno

I limiti che dividono la vita dalla morte

sono, nella migliore delle ipotesi, vaghi

e confusi. Chi può dire dove finisca

l’una e cominci l’altra ?

The premature burial

E.A.POE

 

Difficile descrivere lo stato mentale in cui sono ridotto. Dubito di poterlo fare con una giusta e serena lucidità. La mia mano trema sul foglio bianco solo al pensiero di scrivere queste righe colme di orrore indicibile, ben consapevole di poter rimanere vittima dei miei ricordi. E’ vero: ho comprato una pistola automatica, più volte sono giunto sul punto di usarla, non so cosa mi trattiene ancora, forse solo la mia bottiglia che tengo stretta tra le mie braccia sperando di trovare ancora un non so quale conforto. Dimenticare questa assurda realtà sarebbe la cosa migliore, ma cerco di trovare una via di fuga a questo mio stato di confusione alternato a momenti di pieno delirio...mettere nero su bianco forse mi potrà aiutare a capire bene cos’è successo...ma non credo che nessuno mai riuscirà a farlo.

Mi dispiace pensare che fatti che vadano al di fuori della realtà non possano essere accettati dalla gente comune. Ma tuttavia forse è meglio così: ci sono cose e posti che le persone non dovrebbero assolutamente conoscere. Ignoriamo tutto ciò che va al di là della comune realtà di tutti i giorni ed abbiamo una visione mentale troppo ristretta. Ed è per questo che la gente mi crederà pazzo dopo aver letto questo farfugliato resoconto che sto per tracciare. Ho il cervello fiaccato ed ho piena coscienza che sarò considerato un visionario, magari una persona da chiudere in un manicomio, ma di questo non ho timore; non ho idea di cosa potrei provare se la porta della mia camera si dovesse aprire e fossi costretto a vedere fisso quegli occhi. Come ho già detto non mi importa di essere creduto, anzi forse preferirei non esserlo, e non so perché, ormai a distanza di settimane, ho intenzione di scrivere di orrori innominabili.

Sono sempre stato un sognatore e fin da ragazzo la mia grande passione sono stati i libri; preferivo chiudermi nella biblioteca paterna rifiutando quel tipo di vita fatta di svaghi e divertimenti che allora mi sembrava così priva di senso. I libri invece...fonti di sapere di storie inenarrabili di avventure straordinarie...la notte...rimanevo lì al buio per ore ed ore a fantasticare e a sognare cose che nessun altra persona avrebbe potuto immaginare. Ammetto di essere sempre stato un ragazzo un po’ schivo...non mi è mai molto piaciuto stare a contatto con la gente...ricordo di intere sere passate nel cimitero di Peaks davanti alla cripta a contemplare la luce del tramonto, il rosso che sembrava luccicare sulle vecchie seppur robuste pareti di pietra...e li’, immerso nel verde degli alti cipressi che si stagliavano in alto, simili a guglie fantastiche situate in un posto lontano, trovavo quella pace, quel silenzio, quella serenità...che ora non ho più. La gente mormorava strane cose sul mio conto ed anche mio padre mostrava turbamento riguardo al modo in cui mi comportavo, era preoccupato della mia sempre più cercata solitudine, ma era troppo impegnato nei suoi viaggi fuori dalla contea per potersi veramente prendere cura di me.

Fino a quando fu proprio mio padre, quando io frequentavo l’università (seguivo gli studi di sociologia ma con scarso successo), a invitarmi a compiere un viaggio estivo nella contea di Graham per cerca di liberarmi da questa (a suo parere) ossessiva introversione e nello stesso tempo, come diceva lui, ad ampliare le mie conoscenze. Sebbene inizialmente restio a questa proposta, la accettai, dato che avevo sentito strane storie sul conto di quei luoghi e le mie passioni fin da ragazzino erano state l’occultismo e la parapsicologia; inoltre mi avevano detto che la cittadina di Kjuswitch nella contea di Graham vantava una delle biblioteche maggiormente fornite dello stato, e possedeva libri assai interessanti non facili da reperire.

Ricordo ancora il giorno della mia partenza. Una calda mattinata d’agosto del 1930. Il treno arrivò con un leggero margine di anticipo rispetto all’orario prestabilito alla vecchia stazione di Peaks e fu così che salì su un vagone semivuoto salutando mio padre anche lui in partenza per un convegno nel West Roul. Ero dunque alle prese io, Sean Kersh, al mio primo viaggio da solo, timoroso di lasciare il mio paese nativo ma allo stesso tempo eccitato da ciò che mi stava aspettando, inconsapevole ancora di quanto sarebbe accaduto in seguito. Salutavo così il vecchio edificio della stazione, le cui pareti erano annerite dal fumo delle macchine a vapore, e guardavo avanti, il verde delle colline di Daws Valley che si stagliavano all’orizzonte, verso la cittadina di Kjuswitch.

L’arrivo se non ricordo male avvenne verso il tramonto, ossia quando il cielo si colorava di rosso e il sole si nascondeva dietro le colline ormai ben lontane. Il treno arrivò quasi a fatica nella vecchia città che fino a mezzo secolo fa era uno dei centri maggiormente sviluppati economicamente nella contea di Graham. Cosa fosse accaduto non è ben chiaro; avevo letto di una disputa religiosa che era avvenuta cinquanta anni or sono...ma le cronache a dire la verità non parlano chiaro...c’è chi parla semplicemente di uno sfortunato tracollo economico dovuto a una crisi riguardante le miniere di carbone, quest’ultima preziosa fonte di guadagno fino a poco tempo fa della cittadina di Kjuswitch...altri sostengono seppur cautamente che tutto ciò sia dovuto a strani fatti che avvennero nel convento poco distante da qui....ma i racconti non vanno oltre. Questo era tutto ciò che ero riuscito a sapere a Peaks, il resto immaginavo di saperlo lì...o almeno ci speravo.

Era proprio vero. Questa piccola città un tempo dispensatrice di ricchezza e di benessere ora presentava un netto declino; lo si vedeva nei vecchi palazzi o in quelli nuovi in costruzione, nelle cave ormai sepolte che si trovavano sulle colline, ma lo si poteva notare soprattutto nei volti dei passanti che sembravano mostrare uno sguardo ostile e diffidente, sebbene probabilmente lo facessero solo nei miei confronti, visto che ai loro occhi risultavo un forestiero. Sullo sfondo, e più precisamente a un centinaio di metri di quota sulla collina, si ergeva un vecchio edificio che non sembrava tanto grande anche se a conti fatti doveva essere abbastanza alto e che dava l’impressione quasi di controllare la zona sottostante...con tutta probabilità si trattava proprio del convento di cui avevo sentito parlare. Decisi però che avrei rimandato tutto al giorno seguente, ero troppo stanco per rifletterci su, e così chiesi a due passanti, due anziani ma distinti signori dal fare tutt’altro che gentile, un consiglio su dove poter passare la notte e poter mangiare un boccone. Seguii la loro stentata indicazione di recarmi a una locanda non distante dal centro di Kjuswitch chiamata Hakton House, e, dopo averli ringraziati, incominciai ad affrettarmi affamato e stanco attraverso le tortuose stradine, che raramente trovavano sbocco in rettilineo abbastanza lungo, verso questo modesto albergo (così i due signori me lo avevano definito).

Mi accolse un uomo di mezza età dai capelli bianchissimi dal fare un po’ sbrigativo, come se avesse fretta di liquidarmi, che mi affittò per un dollaro e mezzo al giorno una camera al secondo e ultimo piano. Essa non era sicuramente una stanza di lusso, il mobilio era quello stretto necessario, un vecchio comò tarlato...un armadio pesante pieno di polvere...una carta da parati ingiallita e sporca che si scrostava con molta facilità...insomma il canuto proprietario non doveva prestare particolari cure al suo albergo.

Dopo aver consumato un pasto frugale, mi accinsi a disfare i bagagli con l’obiettivo di terminare al più presto data la mia stanchezza; ero desideroso di coricarmi anche perché avevo in programma di svegliarmi alle primi luci del giorno per cominciare le mie passeggiate, i miei studi, le mie ricerche. Avevo quasi finito quando mi accorsi dello spettacolare paesaggio che si poteva intravedere attraverso le tendine della finestra della mia camera: i vecchi edifici barcollanti, le stradine che si intrecciavano, gli orizzonti lontani, ma soprattutto quell’edificio, il convento, che comunicava qualcosa di sinistro e che incuteva timore e fascino allo stesso tempo. Rimasi parecchi minuti a contemplarlo quando mi parve di scorgere delle luci fioche in quel luogo ma dopo qualche secondo scomparvero. Sapevo bene che il convento era disabitato da circa cinquant’anni ed era rimasto in balia della rovina del tempo, probabilmente (così in quel momento pensai) si trattava di un riflesso dei raggi della luna piena che compariva e scompariva dietro le nubi nel cielo.

Un altro pensiero distolse il mio sguardo da quell’immagine. Mi accorsi che per le strade circolava pochissima gente, e anche nell’albergo ci dovevano essere assai poche persone: al piano di sotto non avevo visto quasi nessuno e comunque il pavimento di legno traballante o le sottili pareti avrebbero permesso di sentire anche flebili rumori, ma niente di tutto questo. La cittadina di Kjuswitch che di giorno era (o per lo meno mi era parsa) abbastanza attiva, si spopolava di sera. Cosa alquanto strana visto che ci trovavamo in un periodo estivo e molto favorevole al turismo.

La mattina la dedicai alla visita di Kjuswitch. Già alle primi luci dell’alba la piccola città si popolava e notai che era il mercato la zona maggiormente frequentata. Era chiaro che dopo il declino di cinquant’anni fa gli abitanti si erano dovuti arrangiare in qualche modo, e il commercio sembrava l’unico modo per potersi risollevare. Superato il mercato con il suo relativo viavai e il nauseante odore di pesce, proseguì la mia giornata attraverso la strada principale di Beck Street dove si poteva incrociare qualche passante che camminava a passo veloce e a testa bassa come se dovesse nascondere qualcosa o dovesse addirittura nascondersi da qualcosa. Potevo notare ai margini della strada qualche bancarella gestita da strani commercianti che sembravano avere il viso molto provato da chissà quale fatica; fu in una di queste che riuscii a reperire una mappa abbastanza recente e dettagliata di Kjuswitch e dei suoi dintorni. In qualche vecchio edificio costeggiato raramente da antichi palazzi signorili, si trovavano al piano terra qualche piccola e tutt’altro che invitante bottega, o un caffè, luogo in cui spesso potevo notare anziane persone dal volto spento, indugiare davanti a un bicchiere di whisky. Fu sulla mappa che vidi che la biblioteca non era molto distante da dove mi trovavo, ma decisi di aspettare poiché preferivo recarmi lì verso le luci del tramonto, ossia quando la città sarebbe tornata alla sua serale solitudine e la biblioteca sarebbe stata magari semivuota. Verso le 7 come avevo previsto le strade sembravano abbandonate come se ci fosse una qualche sorta di coprifuoco, e così mi recai nella biblioteca dando ti tanto in tanto uno sguardo furtivo alle mie spalle per osservare se qualcuno mi stesse seguendo. Pensai che avrei dovuto prestare attenzione visto che ero un forestiero e che quindi potevo essere l’oggetto preferito di qualche ladro, sebbene non avessi molti soldi con me.

La biblioteca sembrava l’unico posto che non avesse subito gli effetti del tempo e della crisi economica e il grande e pesante portone di legno dell’edificio sembrava dovesse dare accesso a chissà quali conoscenze. Al banco d’ingresso trovai un uomo sulla trentina chino su di sé tutto assorto sui suoi fogli e intento a compilare schede ed altre scartoffie. Una volta accortosi della mia presenza mi apparve il volto di un uomo dagli occhi molto piccoli e sottili che mostrava un’espressione sulle sue labbra quasi di sofferenza; probabilmente pensai che ciò fosse dovuto alle condizioni in cui lavorava. La luce tenue, specie a quell’ora del pomeriggio, non facilitava la lettura, e le finestre che si trovavano in alto erano piccole, e comunque i raggi di sole che filtravano erano oscurati dai giganti scaffali di legno massiccio che potevo vedere a qualche metro da me. Le poche lampade che riuscivo a intravedere erano poi troppo fioche per permettere una lettura ottimale.

Non avevo intenzione di dire al bibliotecario che cercavo qualcosa sui fatti accaduti cinquanta anni fa, temendo la sua reazione di curiosità e di diffidenza, così gli spiegai cercando di essere il più convincente possibile che ero uno studente universitario e che per una ricerca cercavo materiale sulla nascita e sullo sviluppo della contea di Graham. Lui mi fissò dritto negli occhi come per vedere se quanto stessi dicendo fosse vero, e sembrò che il suo sguardo fosse volto anche a scrutarmi per cercare in me qualcosa che mi tradisse o che nascondessi. Senza che dicesse una sola parola annuì con un leggero movimento della testa come se questa azione gli costasse chissà quale fatica, poi il suo volto si coperse di un’espressione alquanto ostile quasi di sfida, ma di colpo tornò ad assumere lo sguardo apatico che aveva contraddistinto l’uomo nel momento in cui lo avevo osservato per la prima volta. Con un piccolo gesto della mano mi fece cenno di seguirlo, e così feci, non riuscendo a fare a meno di notare la sua bassa statura, cosa di cui in precedenza non mi ero accorto, ma soprattutto la sua andatura lenta e claudicante. Sembrava un uomo assai provato dalla vita e lo sguardo che leggevo in volto ne era la conferma.

Mi indicò che ciò che mi interessava l’avrei potuto trovare allo scaffale in alto lungo il secondo corridoio. Lo ringraziai, e lui, senza che mutasse espressione, dopo avermi detto con voce flebile e scostante che la biblioteca avrebbe chiuso tra venti minuti, se ne andò zoppicando lentamente per tornare alle sue occupazioni.

Era stupefacente, pensai, che una così piccola città potesse avere una biblioteca tanto grande e fornita, tanto da poter rivaleggiare con molte altre di questo stato. I tre corridoi erano lunghi più di una decina di metri su i quali scorrevano file di scaffali alti circa tre metri. La disposizione dei libri era precisa ed accurata, nonostante ci fosse un mucchio di polvere su ogni ripiano; probabilmente questa biblioteca, anche se sinceramente non so spiegarne il motivo, non doveva ricevere molti visitatori. Sullo scaffale che mi interessava trovai numerosi libri, tutt’altro che recenti, e tutti riguardavano più che altro la nascita della contea (ma sfogliando vidi che non si parlava mai dei fatti avvenuti cinquant’anni fa), delle miniere di carbone e del loro sfruttamento. Dando una rapida occhiata vidi che non c’era nessun riferimento alla crisi avvenuta mezzo secolo prima, quasi come se questo tracollo non fosse mai avvenuto, o come se si volesse nasconderlo per chissà quale motivo...forse era l’orgoglio dei cittadini che non aveva permesso ai fatti di venire alla luce. Ma la crisi c’era stata, c’era stata eccome... Quando ormai avevo perso le speranze e stavo pensando che la mia visita in biblioteca fosse stata un viaggio a vuoto, scoprì sul piano alto dello scaffale un piccolo armadietto nascosto appena da una pila di libri. La mia curiosità mi spinse a salire sulla scaletta posta non lontano da me, facendo attenzione a non destare sospetti nel bibliotecario. Fare rumore era abbastanza facile in questo posto silenzioso, ma a mio vantaggio avevo il fatto che l’uomo era parecchio lontano da me e che probabilmente era talmente assorto nelle sue occupazioni che non mi avrebbe sentito. Si presentava davanti a me un armadietto di legno marcio e con una targhetta di carta ingiallita con la scritta quasi illeggibile "Archivio ‘81". Spinsi la riluttanza che quella strana calligrafia mi ispirava e così tentai di aprirlo; non mi fu difficile forzarlo, prestando però particolare attenzione ad essere il più silenzioso possibile. Trovai davanti a me un mucchio di giornali ben conservati e ripiegati e cominciai a sfogliarli assicurandomi di tanto in tanto che il bibliotecario rimanesse seduto sulla sua scrivania. Proprio come diceva l’etichetta, i giornali riguardavano l’anno 1881...l’anno in cui molte miniere erano crollate ed altre erano state chiuse dando vita poi a quel declino di cui ho già accennato. La cosa che mi saltò agli occhi fu che alcuni articoli erano cerchiati a penna per evidenziare evidentemente episodi di rilievo. Il primo, datato 12 febbraio, era un trafiletto intitolato: "Misteriosa morte nel covento alle porte di Kjuswitch". Potevo leggere notizie come...."le 2 suore novizie sono morte in circostanze ancora poco chiare [...] l’orrida morte fa pensare a un delitto efferato, le teste completamente fracassate hanno reso non facile il riconoscimento dei corpi"; o ancora in un articolo di due giorni dopo: "La polizia brancola ancora nel buio, si deve ancora indagare sul movente del delitto, ma sopratutto se l’omicidio è stato compiuto da una suora o da qualche cittadino o forestiero presente nel convento [...] non si conosce ancora l’arma del delitto"; o ancora una settimana dopo: "improvvisa morte della superiora del convento [...] trovata senza vita all’alba lontana dalla sua camera, non ci sono segni di violenza [...] la polizia non esclude una connessione tra questa morte e i due delitti di una settimana fa". Nello stesso giornale del giorno, in una colonna del giornale evidenziata da una matita nera riuscivo a leggere : "Crollo improvviso a pochi metri di profondità della miniera sulla collina, si ignorano le cause [...] dieci minatori sono morti sorpresi dal crollo improvviso che ha sepolto tutta la miniera [...] il sovraintendente agli scavi respinge ogni accusa affermando che i lavori di estrazione erano condotti in assoluta sicurezza e in ogni caso non si stavano effettuando in profondità [...] si indaga sulle possibilità del crollo che è parso alquanto strano visto che è avvenuto in superficie e che la zona era adeguatamente sostenuta mediante pesanti bastioni di legno". I giornali locali delle settimane dopo non parlavano altro di vari delitti orribili (e insoluti) avvenuti nel convento o di sparizioni di suore che non erano state più trovate; queste notizie erano accompagnate da altre che riguardavano altre miniere chiuse da inspiegabili crolli. Si parlava difusamente nel quotidiano del 28 marzo che la polizia avrebbe chiuso il convento nel pomeriggio per una questione di sicurezza e per portare avanti le indagini al meglio...ma la cosa che più mi stupì fu il fatto che lo stesso giornale del giorno seguente non riportava alcuna notizia al riguardo. Il convento era stato chiuso? Che fine avevano fatto le suore rimaste in vita? Le miniere di carbone erano state tutte occluse dai vari crolli che si erano succeduti? Niente di tutto questo. Non un’allusione a questi fatti. Mi chiedevo davvero il perchè...era successo qualcosa che era meglio non menzionare? Sarebbe stato meglio non conoscere? Ma la mia curiosità mi spinse oltre. Notai con profondo timore che non c’erano più giornali.....la raccolta si concludeva con quello del 29 marzo. Ma nonostante provassi un certo orrore al riguardo ero deciso ad andare avanti...ne volevo sapere di più di questa storia, se erano state trovate le cause alle morti e ai crolli, ma se sopratutto erano stati individuati i colpevoli o il colpevole. Inoltre era chiaro da quei giorni, il convento non era stato più riaperto. Mentre riflettevo sul da farsi, constatai che mancava poco tempo alla chiusura della biblioteca e che quindi mi dovevo affrettare. Mentre ripensavo a quanto avevo letto ricordai che tre suore dal nome rispettivamente Sue Zart, Guenda Samuel e Sara Fraser erano state interrogate dalla polizia sugli orridi fatti di sangue avvenuti nel convento. Forse, se erano ancora in vita, avrei potuto sapere qualcosa da loro.

All’improvviso sentii dei rumori di passi irregolari e con tutta probabilità doveva essere il bibliotecario che veniva ad avvertirmi che la biblioteca stava chiudendo. Feci in fretta a chiudere l’armadietto e a scendere la scaletta, quando mi apparve quell’uomo dall’aspetto malandato e dal volto apatico che con poche parole gentili (alla sua maniera) mi invitò ad andarmene. Gli dissi, per cercare di catturare la sua attenzione (avevo paura che guardasse sullo scaffale in alto), che avevo trovato molte cose utili per la mia ricerca, e lui cercò di ostentare un sorriso di compiacimento. Mentre tornava indietro gli chiesi, forse un po’ avventatamente, che ne era stato delle miniere di carbone, ossia se si era saputo il perchè dei crolli. Di colpo i suoi passi si fecero sempre più incerti fino a quando si fermò del tutto. Si voltò e davanti a me mi si presentò un uomo diverso: lo sguardo apatico e stanco fece posto a un’espressione piena di orrore, i suoi occhi che mi erano parsi fino ad allora così piccoli e spenti si spalancarono e sembrarono persi nel vuoto, proiettati chissà dove. La voce flebile e tremolante che aveva contraddistinto il bibliotecario divenne più imponente e decisa: "La biblioteca sta chiudendo...farebbe meglio ad andarsene! Lei non è gradito qui...la gente di Kjuswitch non ama i visitatori troppo curiosi! Farebbe bene a condurre i suoi studi altrove!" Queste parole mi urtarono non poco, e senza neanche fiatare affrettai i miei passi verso l’uscita facendo attenzione a non incrociare il suo sguardo così cambiato che mi incuteva un forte timore nel petto. Se fossi stato mio padre avrei di certo ascoltato il consiglio dell’uomo, ma mio malgrado, nonostante la paura che mi ispirava questo paese, ero deciso a non fermarmi qui ed ero pronto ad andare avanti. Era chiaro che mi dovevo muovere con la massima cautela ma nello stesso tempo era necessario non prolungare troppo la mia permanenza qui, dato che probabilmente la gente si sarebbe incuriosita ancora di più...e ciò non sarebbe stato un bene! Il desiderio di scappare da questo strano posto che di sera diventava lugubre e solitario era purtroppo superato dalla mia insana voglia di indagare e di far venire i fatti alla luce. Quella sera, mentre mi trovavo nella mia camera a fissare quegli strani bagliori rossastri che spuntavano dalla collina, riflettei sull’eventualità che quelle tre suore fossero ancora in vita. Una strana idea mi balenò nella testa...ricordai che il proprietario della locanda aveva in uno dei cassetti della sua scrivania un libro dalla copertina verdastra che ogni tanto tirava fuori. Ero sicuro che non fosse il registro dell’albergo, ma si doveva trattare con ogni probabilità di un elenco telefonico degli abitanti di Kjuswitch...non ero molto fiducioso che lì avrei potuto trovare ciò, o per meglio dire, colei che stavo cercando...ma valeva la pena provare. Una volta tornato alla locanda attesi che la notte calasse del tutto e che il proprietario si ritirasse nella sua camera, per poter scendere giù e dare un’occhiata. Dovetti fare molto piano per non fare rumore visto che le assi delle scale di legno non erano perfettamente assestate. Con una mano tastavo le pareti dall’intonaco scorticato per evitare un’eventuale rovinosa caduta, con l’altra sorreggevo una piccola lampada ad olio che mi permetteva una visuale di un paio di metri, mentre i miei passi erano piccoli ma effettuati con estrema cautela. Giunto all’ingresso della locanda, nel pieno buio spezzato solamente dalla fioca la luce della mia lampada, mi avvicinai alla scrivania e mi sedetti sulla sedia che si trovava subito dietro proponendomi di destare di tanto in tanto lo sguardo per cercare di notare movimenti o presenze. Con somma gioia e sorpresa constatai che il cassetto era aperto e che conteneva proprio il libro che mi auguravo di trovare. Incominciai a scorrere i nomi con un certo nervosismo con la speranza, mista a un insolito sentimento di paura, di trovare uno dei nomi che ormai erano ben stampati in testa. E inoltre in questa camera fredda e spettrale volevo andarmene al più presto. Delle prime due suore, ossia di Sara Fraser e di Guenda Samuel, non ne trovai traccia, ma lessi di una certa Susan Zart. Naturalmente mi soffermai a pensare che Susan potesse essere l’equivalente di Sue, ma non potevo affermarlo con sicurezza. E delle altre due? Non erano più a Kjuswitch? Erano morte? In fondo adesso dovevano avere una certa età...la cosa che mi sfiorò in quel momento fu che comunque era meglio riporre il libro al suo posto e avessi rimandato i miei pensieri in un altro luogo, ben più sicuro, sempre che ce ne sia uno...

Così feci, assicurandomi di lasciare la stanza in assoluto silenzio, e di riporre gli oggetti che si trovavano al suo interno nella posizione originaria. Risalì le scale con una certa ansia voltandomi di tanto in tanto per verificare che nessuno si fosse accorto della mia presenza. A quanto pare nessuno mi aveva notato e con un certo sollievo potei entrare nella mia camera e chiudere la porta con il chiavistello. Spensi la lampada, la cui luce era sempre più flebile, e mi stesi ancora vestito sul letto; caddi in un sonno profondo e strani sogni mi rivelarono luoghi sconosciuti, montagne invalicabili, palazzi inaccessibili, ma che per non so quale motivo sembravano possedere una qualche familiarità.

La luce dell’alba entrò con prepotenza nella mia stanza il mattino seguente; nonostante fossi ancora stanco ero ben lieto che la notte, con il suo alone di solitudine, fosse passata tranquillamente.

Verso le 8 scesi rapidamente le scale, detti il mio freddo buongiorno al proprietario della locanda, probabilmente ignaro di quanto era accaduto in nottata, e uscii verso le strade di Kjuswitch dirigendomi verso l’abitazione di Susan Zart. Davanti a me si presentò lo stesso scenario degli altri giorni: persone che camminavano frettolosamente a testa bassa, anziani signori seduti in uno squallido caffè e sporchi barboni appoggiati al ciglio della strada. Quello che vedevo suscitava in me una forte ripugnanza che poteva essere vinta solo osservando il cielo terso e la luce del sole che si presentavano davanti a me. Arrivai all’indirizzo in questione in poco tempo. I miei occhi scrutavano questa piccola casetta grigia che si trovava in Untown Street; era chiara che colui, o per meglio dire, colei che ci abitava, doveva essere tutt’altro che ricca. Bussai alla porta e dopo la seconda volta venne ad aprire una donna il cui aspetto le conferiva probabilmente più anni di quelli che effettivamente aveva. Vestita di un sudicio abito nero e bianco da cameriera, con lo sguardo che sembrava essere stupito da questa visita inattesa, con voce rauca mi sussurrò: "Chi sta cercando? Lei chi è?" Pensavo che la soluzione migliore fosse quella di non rivelare la mia identità ma spacciarmi per un altro. Così presi coraggio e con voce decisa affermai: "Sono il nipote di una vecchia amica della signora Susan Zart...sono sicuro che sarà assai contenta di vedermi... se ha la cortesia di annunciarmi..." La cameriera (o almeno sembrava che lo fosse), prima mi guardò con curiosità cercando di scorgere un volto noto in me, poi mi fece un cenno di seguirla e mi condusse lungo un corridoio caratterizzato da un vecchio mobilio e da pareti sporche. Bussò a una delle porte che si trovavano sulla destra, e subito la aprì. Davanti a me potevo vedere un’anziana signora di spalle dai capelli bianchissimi, seduta su una piccola poltrona dal color verdastro. La camera era brutta ed arredata malissimo, ma la luce del sole che penetrava attraverso le opache finestre dava maggior ospitalità alla stanza. "C’è una persona per lei signora Zart" - affermò la cameriera - "questo ragazzo dice di essere...", ma prima che potesse finire di parlare l’anziana donna il cui nome doveva corrispondere a Susan Zart la interruppe e incominciò a parlare con una voce forte e imponente, forse un po’ strana per la sua età: "E’ un’estate particolare questa...poche giornate di sole ma sempre un cielo coperto e carico di piogge....scommetto che oggi non c’è una nuvola...non è così?" Prima che potessi risponderle, la signora riprese a parlare facendomi un segno con la sua magra mano di avvicinarmi, mentre la cameriera richiuse la porta alle sue spalle: "Non capita di avere molti forestieri qui...che cosa l’ha attratto a questo posto solitario?" Titubante sul da farsi, capii che doveva trattarsi di una domanda retorica. Mi accorsi poco dopo che la vecchia donna era cieca ma aveva un forte intuito. Con le sue rugose mani mi studiò il volto per qualche secondo e poi, riprendendo fiato, affermò: "Ah...la mia giovinezza...una parte che ormai ho rimosso dalla mia mente...troppe cose sono accadute in passato...cose che pochi sanno...cose che nessuno dovrebbe sapere...- prese un attimo di pausa e riprese - "prendere i voti non è stata una bella idea, ma i miei genitori me lo hanno imposto...non avrebbero mai potuto immaginare che..." Si interruppe di colpo, ma poi continuò a parlare, sebbene di argomenti riguardanti la sua infanzia che non mi potevano interessare. Cercai più volte di indirizzare le sue parole sui fatti avvenuti mezzo secolo fa, ma la vecchia signora riusciva sempre a sviare il discorso per discutere di fatti insensati, e incominciavo a dubitare della sua integrità mentale. All’improvviso, mentre la seguivo sempre con minore attenzione, mi afferrò bruscamente il polso con una forza spaventosa, anormale per una donna con più di settanta anni e con un corpo gracilino. Senza diminuire la presa, incominciò a borbottare frasi incomprensibili tra sé e sé per poi pronunciare ad un alto tono di voci le seguenti parole: "Ci ha visto! Ci sta vedendo! Ne è consapevole! Passa il tempo ma Lei è sempre qui...non mi lascerà...e se non vai non lascerà neanche te! Fl’hat...Ghtagn...Deyhmoj! E’ ancora lì! Si insidia in quel posto dimenticato! Quei bagliori rossi nella notte! Sono cieca da più di dieci anni ma riesco ancora a vederli! Occhi che ti fissano...se ti fissano sei perduto! Le sue mani! Non sono assolutamente di questo mondo! Le miniere! Passaggi per posti innominabili! Io li ho visti! Non volevo! Mi ci ha portato Lei! Guglie altissime, montagne smisurate! Si perde cognizione del tempo e dello spazio! E’ impossibile riuscire a comprendere! Povere sorelle! Ridotte così! Ha rubato l’anima di quelle povere ragazze e le ha portate in quel posto dall’orrore ancestrale! E’ più vecchio del mondo! Esiste da prima che il mondo fosse abitato dagli uomini! I minatori erano scesi troppo in profondità! Non si può accedere senza il Suo volere in quel posto maledetto! I crolli non sono un caso! Il convento è stato il luogo dove ricavare nuovi adepti! Prendeva i corpi...e mio Dio! Che fine facevano! Io sono scappata ma la mia punizione è restare qui in questa anticamera dell’inferno! Un giorno verrà fuori! Ghtagn...Sytiè...Kafthan!" Le parole di Susan Zart fluivano rapidamente e io la guardavo preoccupato anche perchè avevo il timore che la cameriera si sarebbe indispettita udendo queste parole pronunciate ad alta voce. La vecchia donna si fermò un momento, allentò la presa nei confronti del mio polso e poi, tenendosi ben salda sulla poltrona sulla quale era seduta, incominciò a tremare. Il suo sguardo era rivolto verso la sudicia parete come se stesse proiettando quel mosaico di ricordi che stavano lentamente tornando alla luce. I suoi occhi rimanevano chiusi ma era chiaro, osservando il suo volto e le sue espressioni, che era in preda ad un orrore indescrivibile. Con una voce più calma riprese a dire: "Ne è passato di tempo ragazzo mio...e se tu sei saggio faresti bene ad andartene al più presto...Lei è malvagia con i suoi abitanti...ma è imperdonabile con i forestieri troppo curiosi! Ti racconterò una cosa che ha dell’assurdo...Nel lontano 1634 sulle colline non distanti da qui si svolgevano riti innominabili e messe nere che facevano capo a una misteriosa setta guidata da una donna il cui nome era Asaph. Ma la gente del posto non vedeva bene tutto ciò e così impiccò la donna e tutti i suoi adepti. Lo so che è una leggenda...ma lei giurò che sarebbe tornata...e questa volta per sempre...si sarebbe insidiata in un luogo sacro...e il marcio avrebbe avuto il sopravvento! Il convento appunto! Lo costruirono quando ormai l’episodio fu bello che dimenticato! Ma gli anziani mormoravano contro l’edificazione del convento e ne avevano ben ragione! Poco più di cinquanta anni fa, quando io ero poco più che una giovane suora, entrò nel convento una donna...e ti assicuro che il volto era molto simile a un ritratto trovato nei vecchi manoscritti che raffigurava la persona di Asaph! Da quel momento non c’è stata più vita a Kjuswitch! Le miniere di carbone, l’unica fonte economica sono state distrutte e innumerevoli morti sono avvenute all’interno del convento e non! La polizia non poteva fare nulla! Il convento fu chiuso e le poche suore rimaste scapparono...molte persone sono morte nelle indagini...una volta un minatore scampato ai crolli, John Roha, si recò con il suo cane nel convento ormai abbandonato...nessuna notizia...una settimana dopo furono ritrovati i resti dell’animale ai piedi della collina. Aveva gli arti mutilati e si trovava in uno stato di decomposizione assai avanzato! Ho provato a spiegare quale orrore si annidasse sulle colline ma non c’è stato verso...nessuno mi ha creduto! Hanno solo ipotizzato che i molteplici delitti fossero opera di qualche efferato assassino...ma non era così! Poche settimane, in una notte buia, sono calate le tenebre e una nebbia fittissima...di colpo capimmo che non era sano proseguire le indagini...il caso fu archiviato...tutti dimenticarono l’accaduto...nessuno ne parlò più per il bene di ogni abitante...bisognava conservare il segreto per salvaguardare la propria vita! Il distacco e la stranezza delle persone è dovuta proprio a questo fatto! Un giorno l’orrore sotterraneo salterà all’esterno e sarà la fine per tutti! Il convento è il luogo dove si prepara tutto ciò, capisci? Kjuswitch è vuota e solitaria di sera perchè la notte è troppo pericolosa! Nessuno con la testa sulle spalle oserebbe uscire! E nessuno troverà mai il coraggio di abbattere quell’edificio ormai in rovina! Quei bagliori rossastri di cui ti sarai sicuramente accorto caro ragazzo, non sono un’illusione ottica! Hanno un significato ben preciso! Lei è ancora...è ancora..." Smise di parlare. Tese l’orecchio per avvertire eventuali rumori e dopo poco riuscii ad avvertire dei passi lungo il corridoio che piano piano si avvicinavano. Doveva trattarsi della cameriera. Prima che questa entrasse nella camera in cui ci trovavamo, la vecchia mi rivolse ancora poche parole: "Vai finchè sei in tempo...non è affatto il caso di restare...ricorda quello che ti ho detto!" Dopo un istante la cameriera entrò senza bussare nella stanza e con voce rauca e stanca disse: "E’ l’ora di prendere le medicine signora Zart...le sarei grato ragazzo se andasse via, adesso..." Senza dire una parola, né alla cameriera né alla vecchia signora, mi affrettai verso l’uscita, percorsi da solo velocemente il corridoio e in un attimo mi ritrovai all’aperto, in questa giornata di sole che non sembrava affatto il teatro di orrori e di fatti apparentemente inspiegabili.

Durante tutto il giorno pensai alle parole della signora Zart, parole che mi martellavano la mente. Il racconto sembrava verosimile sotto certi aspetti, ma da un altro lato riflettevo sul fatto che ci doveva essere una spiegazione scientifica a tutto questo. La donna era molto anziana e probabilmente voleva solo prendersi gioco di me; forse il fatto di rimanere in quella piccola stanza in tutta solitudine la portava spesso a fantasticare e ad immaginare cose inconsuete. Cresceva in me quindi il forte desiderio di andare ancora più a fondo nella vicenda. Sarei salito su per la collina e sarei entrato nel convento. Ero sicuro che avrei trovato solo un vecchio edificio abbandonato e niente più. L’assassino ormai doveva essere morto e probabilmente la polizia aveva archiviato il caso solo perchè non aveva trovato indizi sufficienti per seguire una pista. In ogni caso l’avrei potuto sapere solo recandomi lì. Pensai che il momento migliore per andare nel vecchio convento era la sera. Avrei sicuramente preferito andarci di giorno, alla luce del sole, ma verso l’ora del tramonto nessuno si sarebbe accorto di me, visto che a quell’ora le strade sono pressochè deserte. E ci sarei andato quella sera stessa. Mi recai alla locanda e comunicai al proprietario che sarei partito nel pomeriggio. Pagai quanto era dovuto, presi tutta la mia roba, una borsa non troppo pesante che potevo portare sulle spalle, e uscii dall’albergo, notando nell’espressione del proprietario un certo sollievo.

Passai in qualche squallida bottega (ne andai in più di una per non destare sospetti) per comprare un po’ di cibo ed un paio di torce che mi sarebbero potute risultare molto utili. Calata la sera, quando ormai non c’era in giro più nessuno, mi incamminai lungo il sentiero che portava al convento. Avevo calcolato che ci avrei impiegato circa mezz’ora per arrivare al vecchio edificio. Confesso di aver provato paura durante il mio cammino e più volte mi guardai indietro con il desiderio di tornare sui miei passi, ma non lo feci. Non scorgevo alcuna luce provenire dal convento che tra l’altro non avevo mai visto da vicino, e ciò mi incuteva un timore maggiore. Ma sembrava tutto così tranquillo. Il sentiero era avvolto da un misterioso silenzio che era spezzato molto sporadicamente dal verso lontano di qualche animale notturno e dal costante rumore dei miei passi lungo la ghiaia e i sassi del sentiero. Spesso mi voltavo per vedere se qualcuno mi stesse seguendo, ma non scorsi nessuno. Purtroppo la torcia che avevo in mano non mi permetteva di illuminare lunghe distanze e così sarebbe stato più facile che qualcuno mi avesse notato, anziché il contrario. Ma mi sforzai di non pensarci. Riflettei sul fatto che non c’era niente da temere e che tra pochi minuti sarei arrivato al vecchio edificio. Il sentiero si fece sempre più difficile e aspro allungandosi in salita per lunghi tratti, fino a quando arrivai alla meta. La scena era veramente spettrale. L’unica cosa che mi provocò un certo sollievo era che il convento non era molto grande e che quindi l’avrei potuto visitare in fretta. La pianta dell’edificio doveva essere molto simile a un ferro di cavallo capovolto; due lunghi corridoi collegati da un altro ben più piccolo. L’edificio era costituito da pesanti blocchi di pietra spesso coperti da piante rampicanti che si allungavano lungo i due piani, ed alcuni di questi si trovavano sul terreno come se fossero caduti; e sembrava che fossero lì da chissà quanto tempo. Lo stesso valeva per alcune inferriate che si trovavano sulla soffice erba; ma queste probabilmente erano state proprio abbattute.

Analizzai il fatto che non sarebbe stato complicato entrare nel convento visto che avevo già notato un paio di ingressi sprovvisti di porte; ed inoltre parecchie finestre erano prive di vetri o comunque molti vetri erano rotti. Mi dava un leggero sollievo pensare, per superare la paura di quel posto, che nessuno ci avrebbe mai potuto abitare. Feci prima un sopralluogo lungo il perimetro dell’edificio e infine, prendendo coraggio, varcai la soglia di uno dei due ingressi sprovvisti di porte. Si doveva trattare di un’entrata secondaria visto che avevo già notato un portone più grande, ma ben sprangato, che doveva fungere da ingresso principale.

Inutile descrivere il senso di ripugnanza che mi incuteva quel vecchio convento. Il buio pesto era appena spezzato dalla luce della mia torcia che non mi consentiva affatto una perfetta visione e come se non bastasse dovevo farmi largo tra ragnatele e sopportare quell’insopprimibile odore di polvere, muffa e non so cos’altro. Gli unici abitanti che sembravano gradire questo ambiente erano i topi. Tutto era silenzio. Potevo solo sentire lo strascicare dei miei passi sul pavimento pieno di polvere. Sembrava veramente che nessuno ci fosse mai entrato da cinquant’anni. Mi chinai sulle ginocchia, avvicinai la torcia e con grande sollievo potei vedere che non vi era nessuna orma impressa, se non qualche sporadico segno, probabilmente lasciato da qualche topo. Si trattava di un luogo malsano e lugubre e la visione del sole, attraverso una finestra dai vetri colorati, ormai scomparso all’orizzonte non mi era certo di aiuto. Mi pareva incredibile che un luogo sacro fosse diventato la dimora di chissà quale demone. Asaph era tornata per vendicarsi? Il convento era il luogo dove Lei svolgeva riti innominabili? Erano vere le parole della vecchia signora Zart? Erano domande a cui non potevo rispondere, e cercavo assolutamente di non doverci pensare. Procedevo a passi lenti abituandomi a poco a poco a quell’aria che si respirava. Incontravo di tanto in tanto qualche camera completamente vuota sprovvista di porta, e date le dimensioni, si dovevano trattare di stanze in cui le suore si ritiravano per dormire. Qualche metro più tardi una porta assai più larga e robusta colpì la mia attenzione. Reggendo la torcia tra il collo e la scapola spinsi senza troppe difficoltà i due battenti di legno e di colpo mi ritrovai in una stanza molto diversa da quelle che avevo già visto. Presi la seconda torcia dalla mia borsa per farmi più luce e una volta accesa capì dove mi trovavo. Era senz’altro una biblioteca. I libri non si potevano contare. Questo ambiente restava l’unico posto che non avesse subito le mutazioni del tempo, trascurando naturalmente la polvere e la muffa che si respirava. Feci un giro della stanza seguendo le file degli scaffali; con una torcia illuminavo il pavimento davanti a me, e con l’altra i libri che potevo vedere. Spesso dovevo passare una mano sui vecchi volumi impolverati per riuscire a leggere i titoli. I soliti libri che si possono trovare in una biblioteca di un convento, pensai, fino a quando una cosa mi fece raggelare il sangue. Ne trovai un mucchio posti disordinatamente su uno scaffale in alto. Innanzitutto la cosa che mi saltò agli occhi fu il fatto che su quel ripiano c’era pochissima polvere e delle stranissime impronte che non sembravano affatto lasciate da un topo o meno che mai da una persona normale. Doveva trattarsi di qualcun altro. Un nuovo brivido di orrore percorse tutto il mio corpo. Erano libri contenenti riti magici e materiale per svolgere messe nere che si potevano trovare solo in qualche biblioteca specializzata in occultismo e magia nera. Il Necronomicon di Abdul Alhazred, i Libri di Eibon, il Breviario di Asenath! Che cosa ci facevano qua? L’idea che qualcuno di Kjuswitch, magari proprio lo strano bibliotecario che avevo conosciuto, li avesse nascosti qui per metterli al riparo da occhi indiscreti, non mi poteva convincere. Sentivo una forte presenza non lontano da me. Ripresi a camminare seguendo con lo sguardo i libri sugli scaffali fino a quando inciampai in qualcosa che mi fece ruzzolare a terra facendomi sfuggire dalle mani entrambe le torce che si spensero immediatamente. Tutto era completamente buio, non una sola luce. Cercai di non farmi prendere dal panico e alzandomi sulle ginocchia incomincia a tastare il pavimento con la speranza e l’ansia di ritrovare le mie torce. C’era qualcosa aldilà delle mattonelle fredde e impolverate. Potevo sentire una qualche sorta di oggetti ma in quel momento non avrei potuto dirlo; al tatto sembravano candele deformate, la forma era molto simile, ma non la consistenza, dato che erano ben più robuste. Forse qualche vecchio candelabro caduto a terra. Ma ce ne dovevano essere parecchi. Quella zona del pavimento pareva che ne fosse coperta. Successivamente toccai qualcosa di ben diverso e cominciai a capire di cosa si dovesse trattare. Un orrore e una frenesia improvvisa mi fece ansimare e cercai il più rapidamente possibile di ritrovare le due torce. Il mio respiro si fece sempre più rapido e non rallentò nemmeno quando ne ritrovai una, anzi divenne più profondo e il mio cuore prese a battere con maggior veemenza. Quando l’accesi constatai che ciò che aveva ipotizzato era realtà. Potevo illuminare un teschio fracassato all’altezza della tempia destra e numerosissime ossa che mostravano evidenti segni di decalcificazione. La cosa che più mi colpì fu lo sguardo che sembrava avere quel teschio. La mascella spalancata pareva fosse dovuta alla visione di non so quale orrore. Cominciai a indietreggiare scivolando su quella distesa di ossa in preda a una grandissima paura. Per caso incappai nella seconda torcia ma con profondo disappunto constatai che non funzionava più. Ancora intontito per la caduta e per quella ignobile visione, con la forza delle braccia cercai di rialzarmi da terra, ma mentre mi stavo risollevando notai una cosa che catturò completamente la mia attenzione e che sembrò distogliere i miei pensieri da quell’orrore. Un libro, un vecchio libro assai piccolo che si trovava vicino ai resti di quel teschio che non sembrava appartenesse alla biblioteca del convento. Probabilmente doveva essere del malcapitato visitatore. Lo aprii e notai subito delle vecchie pagine scritte con una calligrafia precisa e ordinata che però era stata in parte rovinata dall’umidità del luogo; altre pagine erano state rosicchiate dai topi mentre alcune erano state invece proprio strappate. Un nuovo brivido percorse il mio corpo quando lessi il nome di colui che aveva scritto quelle parole: John T.Roha...il minatore scomparso cinquanta anni fa e di cui non si era saputo più nulla aveva fatto una fine simile a quella del suo cane che fu ritrovato ai piedi della collina. Facendomi coraggio incominciai a leggere quei pochi frammenti leggibili che erano rimasti cercando di capire il senso di quelle parole spezzettate. Riporto testualmente ciò che era scritto: "...giunto da poco...non c’è traccia...la notte...il mio cane mostra segni di inquietudine ma io...buio...mi rendo conto che passare la notte qui non...non mi farò prendere dalla...". Questo era tutto ciò che riuscivo a leggere nella prima pagina...mentre nella seconda: "secondo giorno...non vedo più il mio cane, deve essere scappato....ha visto...forse lo...luce, luce, luce...ti uccide...ma io...bagliori che sembrano spiarti nella...". Niente da fare questo era tutto quello che riuscivo a leggere. La pagina successiva era stata strappata, mentre le rimanenti erano rimaste immacolate. Queste parole che ripetevo nella mia mente non mi aiutavano di certo a capire; qualcosa era certo successo. Qualcosa che John Roha non ha mai potuto raccontare. Ma che magari ha visto. Perchè poi quella pagina strappata? Per quale motivo? Aveva scritto quelle parole probabilmente per lasciare una testimonianza, perchè avrebbe dovuto strappare una pagina? E se non fosse stato lui a farlo? All’improvviso mi balzò in mente un’idea. Presi dalla mia borsa un pezzo di carbone che avevo trovato lungo la strada verso il convento all’altezza delle miniere abbandonate e cominciai a passarlo sulla pagina seguente a quella strappata. Con somma gioia constatai che qualcosa si poteva leggere grazie soprattutto al fatto che John Roha doveva aver calcato parecchio mentre scriveva il suo resoconto. Naturalmente si scorgeva distintamente solo qualche parola, ma pensai che dovesse essere più che sufficiente. Le riporto: "Mi sta cercando...non voglio andarmene senza il mio cane...rossi bagliori, bagliori rossi, luci che...Lei è qui, nessuno può...l’ho vista, l’ho vista e ora so, so....un giorno...mi sta dando la caccia e forse mi....da qui non c’è...l’inferno...un silenzio assoluto, non fa rumore e questo...dove...potrebbe essere...la fine che...". Poche parole che acuirono in me quel senso di orrore che già provavo. Era chiaro che Lei esisteva davvero. Inutile chiedersi se si trovava ancora qui o se viveva ancora, ma era chiaro che dovevo andarmene immediatamente. Avrei dovuto ascoltare la signora Zart, pensai. Ciò che era accaduto al minatore era una prova tangibile che questo posto rappresentava il crocevia per l’inferno. Nella mia mente affioravano i ricordi di quanto il Solitario di Providence affermava: "Vi sono oscure zone d’ombra sui nostri sentieri quotidiani: in prossimità di questi tenebrosi anfratti, a volte un’anima dannata riesce ad aprirsi un varco". E questa anima dannata che era uscita da un mondo sotterraneo e antichissimo era proprio Lei, l’orrenda figura che aleggiava in questo posto maledetto.

L’unica cosa da fare era adesso scappare e andarmene via da questo edificio sinistro. Dovevo tornare sul corridoio che avevo già passato, e una volta uscito dal convento, avrei ripercorso di fretta il sentiero che conduce a Kjuswitch. Me ne sarei andato definitivamente di lì, sarei tornato a Peaks, nella mia cittadina, lontano da questo paese che nasconde un mistero che non andrebbe mai scoperto.

Raccolsi il libro lasciato dal minatore e lo misi nella mia borsa, così mi avviai verso il grosso portone della biblioteca tenendo saldamente l’unica torcia che mi era rimasta. Detti uno sguardo rapido e furtivo lungo il corridoio, e, dopo essermi accertato che non ci fosse nessuno (almeno fino al punto che la mia torcia riusciva a illuminare), mi recai verso l’ingresso del convento. Dovevo stare ben attento a dove andare visto che da questo corridoio se ne diramavano altri, anche se ben più piccoli. L’importante era imboccare quello dal quale ero venuto, altrimenti non sarebbe stato facile ritrovare la strada giusta, data anche la scarsissima illuminazione di cui disponevo. Era incredibile come questo posto che dall’esterno sembrava di dimensioni non imponenti, al suo interno sembrasse un vero labirinto. Mi feci comunque coraggio pensando in cuor mio che tra poco sarei uscito da quest’edificio e che quindi non c’era nulla da temere. I miei passi erano costanti ed attenti, poiché non volevo correre di nuovo il rischio di incappare in qualche ostacolo. Mi voltavo ogni tanto al minimo rumore che avvertivo, ma nulla, e cercavo di respirare anche più piano per percepire qualsiasi eventuale suono o vibrazione; i miei occhi, abituati ormai alla penombra, cercavano di cogliere qualsiasi cosa, ma sembrava veramente che il convento fosse disabitato da più di cinquant’anni. All’improvviso ciò che vidi mi fermò. Un flebile fascio di luce rossa usciva fuori da una stanza in fondo al corridoio. Rimasi lì immobile per qualche decina di secondi, impietrito da ciò che vedevo. La signora Zart mi aveva parlato di strani bagliori rossi, e lo stesso resoconto scritto da John Roha accennava a qualcosa del genere. Questi pensieri mi passarono nella mente a una velocità pazzesca mentre intanto il fascio di luce rossastra si faceva sempre più forte. Fu la paura a farmi muovere da lì. Notai accanto a me una porta a battenti e subito la aprii e la richiusi dietro di me cercando di fare il minimo rumore possibile. Non fiatai, sembravo in una sorta di stato di apnea, incominciai ad indietreggiare tremando dalla paura. Spensi la mia torcia. Speravo che Lei (se di Lei si trattava) non mi avesse visto, ma sapevo bene che fino a quando non fossi uscito da questo posto non sarei stato al sicuro. Passarono secondi, minuti, lunghi interminabili attimi avvolti nel silenzio. Non avvertivo nulla: rumori, suoni, luci, bagliori, niente di tutto questo. Pensai che avrei dovuto cercare un modo per uscire di qui e subito. Aspettare le luci dell’alba sarebbe stata un’attesa estenuante e poi nulla mi avrebbe garantito che questo posto di giorno sarebbe stato meno insidioso. Presi fiato e accesi la luce della torcia per vedere dove mi trovavo e con sommo stupore mi accorsi che non mi trovavo in una piccola stanza, come le altre che avevo visto lungo il corridoio, ma in un camera ben più ampia che a giudicare dagli oggetti che vedevo si doveva trattare di una cappella o comunque un luogo di preghiera. Mi incamminai verso le pareti opposte alla porta e ne percorsi il perimetro per cercare di trovare un varco o un’eventuale via di fuga. Ma la visione degli oggetti e dei quadri che erano appesi aumentò nuovamente la mia paura. Strane statuette di materiale simile al granito che raffiguravano creature mostruose, simboli su candele e calici che non avevo mai visto prima, altri oggetti intagliati che non avevano nulla a che fare con il mondo religioso...ma soprattutto un quadro di immense proporzioni che si trovava in fondo alla cappella mi fece letteralmente urlare dall’orrore. Un grido straziante e soffocato fendette l’aria e riecheggiò nella stanza. Ciò che vedevo non era umanamente sopportabile. All’improvviso rimasi abbagliato da una luce intensissima che mi fece chinare a terra nel tentativo di proteggermi da quel balenio accecante. La torcia ruzzolò a terra ed io rimasi profondamente stordito e confuso mentre proteggevo i miei occhi con le mie mani. Aspettai qualche istante poi cercai cautamente di riaprirli e ciò che riuscii solo a intravedere mi levò completamente il fiato. Lei era davanti a me! Lei che avevo visto un attimo prima raffigurata in quel dipinto orrendo, ora si trovava ad un passo da me! I suoi occhi...i suoi occhi di un rosso fuoco mi fissavano...mi fissavano intensamente...sembravano riuscire ad entrare dentro di me e ad esplorare la mia anima e la mia mente. I miei occhi erano praticamente ipnotizzati, mentre intanto si levava un fetore fortissimo tipico di qualcosa che si trovava in uno stato avanzato di decomposizione. Il mio sguardo senza volerlo si posò sul suo corpo. Era priva di pelle. Il suo corpo era rivestito da una carne rugosa e viscida di colore marrone scuro che emanava un odore insopportabile che per poco non mi fece svenire. La creatura si trovava in uno stato di decomposizione che non avrebbe mai permesso a nessun mortale di poter vivere...ma Lei sì! Potevo intravedere le sue ossa attaccate a quella carne che pulsava freneticamente. Le vene che si potevano vedere ben distintamente si comprimevano e si decomprimevano incessantemente come se al loro interno scorresse una qualche linfa che le permettesse in qualche modo di rimanere ancora in vita. Le mani erano costituite da lunghe falangi storte che terminavano in artigli, ma era il capo, con quegli occhi rossi, la cosa che terrificava di più. La sua bocca si spalancò e pronunciò dei suoni gutturali spaventosi che ricordavano molto le parole che la signora Zart mi aveva detto a casa sua: "Ghtagn...Sytiè...Kafthan"! L’immenso terrore che provavo in quel momento mi dette una forza che non mi aspettavo. Trovai la volontà di scappare e riuscendomi a divincolare tra le braccia putride della creatura che un tempo doveva essere una donna chiamata Asaph, sfondai senza pensarci la finestra dai vetri ancora intatti che si trovava nella cappella e piombai nel cortile sottostante. Nonostante mi fossi gettato solo dal primo piano, il volo terminò con un atterraggio tutt’altro che morbido sulla mia gamba destra. Ma in quel momento non potevo sentire dolore. Il terrore era ben più forte e devastante. Mentre mi accingevo a rimettermi in piedi potevo ancora notare quel forte bagliore rosso che penetrava dalla finestra della cappella e mente correvo alla disperata lungo il sentiero verso Kjuswitch potevo sentire una risata diabolica alle mie spalle che sembrava essere stata lanciata proprio da Lei. Inutile chiedersi in quel momento se tutto ciò era stato frutto della mia immaginazione e della mia mente ormai fiaccata da quella terrificante esperienza. Continuai a correre zoppicando vistosamente nell’oscurità della notte senza mai voltarmi e senza mai fermarmi, e una volta arrivato a Kjuswitch, che era completamente deserta, proseguii verso la cittadina più vicina, Jakthville. La mia corsa era stata lunga e impressionante. Avevo percorso moltissime miglia senza mai fermarmi e fui ritrovato senza sensi (così mi dissero in seguito) lungo il ciglio di una strada che porta proprio a Jakthville, il mattino seguente. Fu un commerciante, di passaggio lì di buon ora con la sua auto, a notarmi. Mi raccolse e fui portato ancora in stato di semi-incoscienza all’ospedale più vicino. Riportai una forte contusione alla gamba destra e qualche escoriazione sul fianco destro. Il mio stato di shock mi impediva di parlare e ciò che avevo visto era qualcosa di inenarrabile. Mi chiesero più volte chi ero, da dove venivo, cosa mi ero successo, ma io nulla; mi ero leggermente ripreso dallo stato in cui mi trovavo ma limitavo le mie rare parole a poche frasi di circostanza che cercavano in ogni modo di sviare quanto era accaduto. Affermai che ero stato aggredito da un gruppo di ladri lungo la strada per Jakthville ma sapevo bene che non mi avrebbero creduto, visto che la mia versione dei fatti era abbastanza inverosimile. Fui dimesso un paio di giorni dopo, la mia situazione mentale secondo i medici era preoccupante, e così mi prescrissero una serie di cure psichiatriche per cercare di ristabilire il mio equilibrio. La cosa a mio parere non era proprio da prendere in questione. Non volevo assolutamente ricordare quella lunga interminabile notte che aveva completamente sconvolto la mia vita. L’unico mio desiderio era quello di dimenticare, ma non sarebbe stato facile visto che la Sua immagine era ancora stampata nella mia mente.

Mediante un telegramma avvertii mio padre, il quale nel frattempo era tornato a Peaks, che mi sarei fermato ancora nella contea di Graham per circa una settimana. Non volevo fami vedere da mio padre in queste condizioni e speravo che qualche giorno mi sarebbe servito a seppellire definitivamente questa storia. Viaggiai ininterrottamente, fermandomi in qualche cittadina solo saltuariamente, cercando di distrarmi quanto più possibile, fino a quando dovetti tornare a Peaks. Mi resi conto che stavo meglio. Anche mio padre, vedendomi, non si preoccupò più di tanto, scambiando questo mio atteggiamento di distacco per la stanchezza dovuta al viaggio. Le cose andarono progressivamente meglio nei giorni seguenti e ormai sembravo aver superato tutta quanta la vicenda sebbene non riuscivo a trovare una spiegazione razionale al riguardo.

Ma una notte, un incubo spaventoso mi fece risprofondare nel terrore. Sognai di posti sconosciuti e antichissimi. Costruzioni di incredibili fattura, statue imponenti raffiguranti orrende creature, montagne che si perdevano a vista d’occhio, ma soprattutto mi sembrava di avvertire un leggero ma costante ronzio nella mia mente. Erano suoni stranissimi che dal ritmo dovevano essere parole pronunciate in una lingua irriconoscibile che parevano dovessero comunicarmi qualcosa.

Incubi dello stesso genere, ed anche più spaventosi, si prolungarono nelle notte seguenti. La situazione stava diventando insostenibile e così presi una decisione. Mi sarei trasferito da casa mia. Mio padre si stava lentamente accorgendo di questo mio cambiamento e sapevo che lui non avrebbe sopportato di vedermi nello stato di delirio in cui stavo andando incontro. Gli spiegai, con la poca lucidità rimastami, che era tempo in cui incominciassi a vivere la mia vita, a prendermi le mie responsabilità, e che era mia intenzione trovare un appartamento poco fuori da Peaks. Mio padre tentò invano di dissuadermi ma mi fece promettere che non avrei abbandonato i miei studi. Pochi giorni dopo affittai un piccolo ma accogliente attico in una palazzina a Haus, a una ventina di miglia da Peaks. Mi trasferì sperando che questo mutamento di ambiente mi facesse bene, ma non era così.

Sono qui da più di una settimana ma i miei incubi non cessano, ma anzi diventano ancora più spaventosi. Spesso La vedo nella mia mente in luoghi che mi pare di non aver mai visto e i ronzii che avvertivo ora sono diventati dei suoni sempre più distinti e sembrano riferirmi, nonostante non riesca a capirne il senso, cose terrificanti di cui non vi voglio parlare. Sto diventando schiavo della bottiglia e della morfina, ma mi permettono di non pensare solo per alcuni minuti, cioè fino a quando ricado nei miei ricordi e nei miei sogni spaventosi. E la cosa va avanti. Da giorni inoltre accade una cosa che mi ha fatto raggelare il sangue la prima volta che l’ho vista. Ogni mattina trovo sulla porta d’ingresso dei profondi segni che hanno tutta l’aria di essere stati lasciati proprio dagli artigli di Asaph. Ho provato a parlarne con il proprietario, cercando di illudermi che magari il fatto è stato compiuto da un cane randagio intrufolatosi nel palazzo o magari sono stato vittima di uno scherzo. Il proprietario non ha voluto darmi molta attenzione dato che sono un nuovo inquilino e sospetta persino che sia stato io l’artefice di tutto. Nonostante sia riuscito a convincerlo a fare degli accertamenti su chi è il responsabile, non si è arrivato a nulla. I condomini, con cui ho parlato spesso, mi riferiscono di non aver avvertito nessun rumore. Niente di fatto quindi. Mi hanno sostituito anche la porta d’ingresso ma il mattino seguente l’ho ritrovata ancora più profondamente segnata della volta precedente.

Sono giunto alla conclusione che questo sia un segnale. Presto Lei verrà da me. La cosa mi spaventa a morte ma non posso farci niente, e so che non c’è posto in cui possa fuggire. C’è qualcosa di cui non vi saprei spiegare che mi frena dall’usare la pistola contro di me. Forse porrebbe fine a quest’incubo ma qualcosa mi trattiene, me lo impedisce.

Aspetterò pazientemente, rassegnandomi al mio ineluttabile destino. La scorsa notte i segni hanno scalfito quasi completamente la porta d’ingresso. Questa notte, sento sarà l’ultima. Questa notte La rivedrò e io non posso farci nulla. Scorgerò dei bagliori rossi e potrò sentire un lento raschio infernale. Resterò sveglio stanotte. Aspetterò che entri ed io sarò lì. Mi vedrà rannicchiato su me stesso mentre stringerò saldamente la mia bottiglia che mi aiuterà a non pensare. Sarà una lunga e terribile attesa, lo so. Ma è inevitabile. Mi porterà lontano verso quei posti ancestrali che ho sognato.

Mi ritrovo nel terrore ma nello stesso tempo sono attratto dalla nuova vita che mi si prospetta davanti. Lei tra poco mi troverà e io non sarò più qui. Da domani ogni mia traccia su questo mondo si perderà.

 

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

JARNO

Per inviare commenti scrivermi al seguente indirizzo di posta elettronica: jarno81@freemail.it

La riproduzione di questo racconto su altri siti o su riviste cartacee non può avvenire senza il mio consenso.

Tutti i diritti riservati.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------