C'era una volta
(Andrea Didato)




C'era una volta un Paese non molto lontano da qui, dove la gente avrebbe potuto vivere felice, se non fosse stato per un orribile mostro che terrorizzava gli abitanti.

Quest'orribile mostro uccideva senza pietà e, non contento di ciò, apriva il cranio delle sue vittime e ne succhiava il cervello.

Il primo ad essere ucciso fu un giovane soldato che faceva parte delle guardie di Palazzo. Una sera, smontato di servizio, s'era recato a passeggiare nel giardino del Palazzo per godersi un po' d'aria fresca. La mattina dopo fu trovato in un lago di sangue, con la gola squarciata e un grosso buco al centro della fronte. Quando lo sollevarono per trasferirlo al cimitero, guardarono all'interno del buco e s'accorsero che gli mancava il cervello.

"Chi sarà stato mai?" - si chiesero i buoni villici.

Dopo il soldato, furono trovati morti altri giovani. Non passava settimana senza che il mostro non facesse la sua vittima: sempre barbaramente uccisa e con il cervello portato via.

Giunti alla sesta vittima, il Re Pipino VII convocò Aiace, il Capo delle guardie, il cui nome da guerriero ne faceva un predestinato alla carriera militare. Nella quale era stato agevolato da protezioni politiche e religiose. Lo stesso Re Pipino aveva dovuto assumerlo perché pressato dalla raccomandazione di un potente Cardinale; ma lo teneva in considerazione quanto il due di spade a briscola quando la briscola è a coppe.

"Cosa si sta facendo per liberare il mio Paese da quest'orribile mostro che terrorizza gli abitanti e uccide i giovani più validi tra i miei sudditi?" - disse il Re, tutto d'un fiato.

"Non è un essere umano." - spiegò il Capo delle guardie - "Ho esaminato le ferite sui corpi delle vittime e ne ho dedotto che il mostro possiede zanne ed artigli e un becco lungo e duro con il quale apre il cranio e sugge le cervella."

"Da dove mai è giunto un simile mostro?" - domandò Pipino, sottolineando le parole con reiterati segni di croce.

"E' senza dubbio una creatura diabolica scaturita dall'inferno." - rispose il Capo delle guardie - "Colpisce sia di giorno sia di notte e nessuno riesce a vederlo."

Quest'ultima affermazione non corrispondeva a verità. Al contrario, erano in molti a sostenere d'averlo visto:

"Una massa scura, enorme, più alta della grande quercia."

"Svolazzava sui tetti delle case con grandi ali nere."

"Era grande come un bue con corna di caprone e un grosso becco a punta. E si muoveva saltellando."

"Strisciava per terra emettendo un suono di cembali. Con esso stordisce le vittime prima di ucciderle."

Insomma, le testimonianze erano così varie e contraddittorie da costringere Aiace a non prenderne alcuna in considerazione. Anche per non cadere nel ridicolo, poiché già erano tante le storielle sulle Guardie che i giullari facevano circolare.

Per completezza d'informazione, bisogna precisare che nel Paese s'erano andate sviluppando due distinte correnti di pensiero. Una, fautrice dell'origine soprannaturale del mostro, ipotizzava l'esistenza di un animale mitologico che scaturiva dal nulla e in esso rientrava dopo avere commesso l'atroce misfatto. A questa teoria sembrava avere aderito l'armigero Aiace, disposto però, come vedremo in seguito, a rinnegarla e cadere in numerose contraddizioni. L'altra corrente, decisamente minoritaria, sosteneva invece la tesi della natura umana dell'assassino il quale sceglieva le vittime secondo il criterio della similitudine. Oggi si direbbe un serial killer: di giovani, maschi e celibi. Nell'uno o nell'altro caso, tutti erano comunque d'accordo che, in qualche maniera, fosse opera del demonio. Aveva bisogno di anime fresche e se le prendeva: poco importa se inviando un mostro o possedendo la mente di un essere umano.

L'inquietante presenza aveva modificato sostanzialmente le abitudini dei giovani paesani i quali, a parte i soliti spavaldi, evitavano d'andare in giro da soli e disertavano gli abituali luoghi di ritrovo, preferendo rincasare presto e trascorrere le serate in famiglia. Ne derivava un danno economico per i gestori di locali pubblici e sale da ballo le cui rimostranze avevano finito per suscitare l'interesse del Re.

Per essere sinceri, a Pipino VII importava meno che niente la sorte dei giovani e dei commercianti. Questi venivano sempre da lui a lagnarsi di scarsi guadagni e troppe tasse: ormai ci aveva fatto il callo. Quanto ai giovani, finché il mostro continuava ad interessarsi di quelli appartenenti al basso ceto, se ne stava fottendo. Pipino preferiva dedicare il suo tempo all'equitazione, alla caccia, ad organizzare feste danzanti a Palazzo e a qualche scappatella extraconiugale. Però, dovendo assolvere la sua parte, emise un decreto:

"E' offerta una ricompensa di 100 ghinee d'oro a chi fornirà informazioni utili alla cattura dell'orribile mostro che semina il terrore nel nostro Paese."

100 ghinee d'oro erano una cifra enorme per l'epoca e i risultati del decreto non tardarono ad arrivare. Una donna si presentò da Aiace:

"Stavo andando su per il monte a cercare finocchio ingranato quando ho visto un essere brutto più del demonio. Appena mi ha visto, è scappato via tra gli alberi correndo a quattro zampe."

"Andate a cercare questo mostro." - ordinò il Capo delle guardie.

I soldati rifecero il cammino indicato dalla donna e ben presto individuarono un essere dalle sembianze vagamente umane, in apparenza impegnato a pascolare pecore e capre. Appena scorse i soldati, s'erse in piedi, mostrandosi in tutta la sua bruttezza. I capelli cespugliosi e la barba incolta lo rendevano più simile ad una bestia che ad un uomo; il suo aspetto animalesco era vieppiù accentuato da una vistosa gobba che gli deturpava la schiena e da un difetto all'arto inferiore sinistro che si presentava più piccolo e più corto dell'altro.

"Seguici senza opporre resistenza." - ordinò un soldato, con voce tremante. Anziché obbedire, quel mostruoso individuo cercò d'allontanarsi con il chiaro scopo di rintanarsi tra gli alberi. Ma la deformità del suo corpo non gli consentiva un'andatura spedita, cosicché i soldati, facendosi coraggio l'un l'altro, presero ad inseguirlo e presto lo raggiunsero e lo circondarono.

"Ti dichiaro nostro prigioniero, in nome di Dio!" - esclamò il soldato più anziano del gruppo, sperando che l'autorevolezza del Mandante quietasse quella bestia. Bloccatolo con solidi legacci, lo condussero a Palazzo a calci e spintoni, fino alla Sala delle Sentenze dove il Re, immediatamente avvertito dell'arresto, aveva riunito i notabili del Paese.

"E' un mostro!" - gridarono i presenti all'ingresso del prigioniero trascinato dai soldati - "Non può essere che lui!"

L'avevano già condannato. Ma il Re voleva che tutto si svolgesse secondo le vigenti regole. Chiamò la donna che aveva avvertito le guardie e le chiese:

"E' questo l'uomo che hai visto sul monte?"

"Si. E' proprio lui." - dichiarò la donna dopo una rapida occhiata, già pregustando come spendere le 100 ghinee. Poi, dimenticando la sua prima versione che voleva l'uomo in fuga verso gli alberi, aggiunse - "Mi ha inseguito ghignando. Per grazia di Dio sono riuscita a fuggire, se no avrei fatto la fine degli altri."

Rivolto all'imputato, il Re domandò:

"Hai sentito? Cosa puoi dire in tua difesa?"

L'uomo cui la natura era stata matrigna e che la vita aveva abbrutito, mostrava di non intendere bene le parole che gli venivano rivolte. Aprì bocca semplicemente per emettere un grugnito che suscitò i brividi dei presenti.

Non restava che emettere la sentenza. In verità, Pipino VII non era convinto della colpevolezza dell'imputato il quale gli sembrava più un sordomuto con scarsa intelligenza che altro. Certo, per essere brutto, era brutto assai: se non era il mostro, poco gli mancava. Il Re guardò le facce disgustate ed impaurite degli astanti e si ricordò le parole del suo educatore:

Un bravo monarca deve entrare in sintonia con la volontà del suo popolo e assecondarla. Eviterà così i mugugni e le sempre pericolose congiure di palazzo.

Si fece coraggio e, evitando di guardare in faccia l'imputato, proclamò:

"In forza della mia autorità, ti condanno a morte."

Sulla piazza principale del Paese fu eretto un palco e sopra di esso venne piazzato un enorme ceppo. Tutta la popolazione volle essere presente all'avvenimento, compresi le donne e i bambini: perché il Paese era troppo tranquillo e le condanne a morte costituivano un evento straordinario. Il condannato venne trascinato sul palco da due soldati. Rideva e guardava divertito la folla, come se non si rendesse conto di ciò che l'aspettava. Fu costretto ad inginocchiarsi e a poggiare la testa sul ceppo. Soltanto quando vide giungere il boia che alzò in alto l'enorme scure lucidata per l'occasione, si rese conto che qualcosa non andava e cercò di rialzarsi. Ma non fece in tempo. Il boia calò giù la scure e lo colpì con abilità tra capo e collo. La violenza del colpo fu tale che la testa, spiccata dal busto, volò in aria, finendo in mezzo alla folla degli spettatori i quali sbandarono tumultuosamente emettendo un corale grido di raccapriccio. Per fortuna, un gruppo di giovani ebbe una bella pensata: cominciarono a prendere a calci la testa e passarsela l'un l'altro quasi fosse un pallone, suscitando una risata generale, alla quale s'unì anche il Re. Questi, infine, alzatosi in piedi, declamò:

"Abbiamo liberato il Paese dall'orribile mostro che lo terrorizzava." - e, davanti alla folla osannante, consegnò una borsa con 100 ghinee d'oro alla donna che ne aveva consentito la cattura.

Ma il terrore non era finito.

Biondo era e di gentile aspetto il giovane Eliseo il quale, alla grazia dei lineamenti univa la dote di una voce melodiosa e la straordinaria abilità nel suono del liuto con cui s'accompagnava nel canto. Girava per il Paese ad allietare gli abitanti ed era ospite fisso di tutte le feste, comprese quelle che, numerose, si tenevano a corte.

Lo riconobbero da un anello che portava all'indice della mano sinistra; giacché il suo volto era ridotto simile ad una polpetta sanguinolenta. Però, sulla fronte era ben visibile l'immancabile foro circolare.

"Il mostro l'ha pestato con gli zoccoli." - dichiarò il Capo delle guardie, aggiungendo un altro particolare all'identikit che s'era andato formando mentalmente.

"Un così bravo giovane! Cantava tanto bene." - fu il commento del Re. Intanto, alla notizia del nuovo misfatto, gli abitanti del Paese s'erano riuniti davanti al Palazzo:

"Ci avete ingannati." - rumoreggiavano - "Avete condannato a morte un povero guardiano di capre e intanto il mostro se ne va ancora in giro ad uccidere."

Pipino VII fu costretto ad affacciarsi sulla terrazza e a promettere:

"Offro 200 ghinee d'oro a chi fornirà informazioni utili alla cattura del mostro."

Tempo mezz'ora e un uomo si presentò al Capo delle guardie.

"So chi è il mostro." - dichiarò - "Da alcuni mesi gira per il Paese uno straniero dalla pelle scura e dalla parlata strana che vende tappeti e acciarini a basso prezzo. Fa concorrenza sleale agli altri commercianti e non paga le tasse."

Dopo la prima figura di merda, Aiace voleva essere certo che non si trattasse di un altro falso indizio:

"Che prove hai contro di lui?" - domandò.

"L'ho visto più volte fermarsi a parlare con il musico Eliseo e, la sera prima che questi venisse ucciso, li ho visti allontanarsi insieme."

Era sufficiente per giustificare l'avvio delle indagini.

"Andate a prendere questo straniero." - ordinò il Capo delle guardie. I soldati lo trovarono in piazza, inginocchiato a pregare.

"Vieni con noi." - gli ordinarono, accompagnando le parole a gesti eloquenti.

"Fatemi finire la preghiera." - rispose lo straniero il quale, essendo arrivato da qualche mese, masticava poco di italiano e s'esprimeva in uno stretto dialetto arabo parlato soltanto nelle regioni meridionali della Tunisia.

Gli armigeri gli fecero chiaramente intendere che non potevano aspettare i suoi comodi; nel senso che lo presero sotto le ascelle e lo trascinarono nella Sala delle Sentenze.

"Come ti chiami?" - lo interrogò il Capo delle guardie. E fin qui, lo straniero era in grado di capire, tanto che, prontamente rispose:

"Mustafà El Beduin."

"Ti è stato concesso di venire ad abitare nel nostro Paese e di vivere in mezzo a noi e come uno di noi…" - l'investì il Capo delle guardie, sicuramente in perfetta buona fede perché mal informato; in realtà, tutti i paesani s'erano rifiutati d'affittare una casa allo straniero il quale era costretto a dormire all'aperto o a dividere una stalla con asini e vacche.

"…e tu, per tutta ricompensa, ti trasformi in un mostro e getti il terrore in mezzo alla nostra pacifica popolazione che, prima d'ora, sconosceva cosa fosse la violenza! Perché, dico, perché hai ucciso, deturpando i corpi con l'asportazione del cervello?"

Aiace completò la sua arringa chinandosi verso il Re e sussurrando l'aggravante:

"Per giunta, ho saputo che adora un Dio diverso dal nostro."

"Non importa." - concesse Pipino che amava atteggiarsi a liberal - "Anche il Santo Padre ha detto che gli uomini vanno giudicati dalle azioni e non dalla loro fede religiosa. Ascoltiamo cos'ha da dirci."

Mustafà El Beduin non aveva compreso una parola di tutta la prolusione accusatoria; dal tono della voce del Capo delle guardie e dallo sguardo severo degli altri, aveva intuito però che per lui si stava mettendo male. Allora, parlò. E, se il primo imputato non era stato in grado di spiccicare un verbo, Mustafà parlò moltissimo. Raccontò della vita infame che passava al suo paese e della speranza di rinascita che l'aveva spinto ad emigrare; disse che aveva scelto l'Italia perché gli avevano detto che gli italiani sono brava gente e che invece aveva scoperto che ce n'erano tanti che giocavano a fotti compagno; e narrò di quegli italiani che spendono e spandono, vantandosi di un acquisto costoso, ma poi chiedono lo sconto su un acciarino da quattro soldi. Parlò, parlò e parlò, dicendo tutto quello che gli veniva in mente; ma, per sua sfortuna, pensava in arabo e nella medesima lingua s'esprimeva.

"Ma che cazzo sta dicendo?" - si domandarono in molti; invece, Pipino VII il quale aveva studiato a Firenze, pensò la stessa frase ma la pronunziò già edulcorata:

"N'intesi alcunché del suo profferire." - disse - "Veruno c'è capace di comprendere?"

La domanda era rivolta a chiunque fosse stato in grado di rispondere. Il più pronto fu Aiace:

"Mi sembra chiaro." - spiegò - "Cerca di ingannarci parlando una lingua sconosciuta come fanno le streghe e gli indemoniati. E' scritto nel Manuale di stregoneria che usavamo all'Accademia. Nelle notti di luna piena si trasformano in esseri metà uomo e metà animali e si dilettano ad uccidere per puro godimento."

Pipino, non ancora convinto, si rivolse sorridendo a Mustafà:

"Sei tu il mostro?" - gli domandò. E Mustafà, ingannato dal sorriso del Re, per assecondarlo, annuì.

"Ha detto 'si'?" _ fece stupito il Re, guardandosi intorno; e poi:

"Hai detto 'si'?" - ripeté, chiedendo conferma a Mustafà il quale, nel dubbio, annuì ancora.

"Allora, peggio per te." - concluse il Re.

Fu chiamato il boia, il quale si presentò con il braccio destro fasciato e appeso al collo.

"C'è un'altra testa da tagliare." - gli disse il Re.

"Mi dispiace: non posso." - rispose il boia, mortificato - "Sono caduto da cavallo e ho una spalla fuori uso. Non riesco neppure a tagliare il pane, figurarsi una testa."

Un mormorio di delusione accolse le sue parole. C'era d'aspettare la guarigione del boia, oppure chiamarne un altro da un Paese vicino: nell'uno o nell'altro caso, l'esecuzione doveva essere rimandata a chissà quando. Il boia lasciò passare qualche minuto, il tempo che la tensione raggiungesse il giusto livello.

"C'è sempre un'alternativa nella vita." - rassicurò - "Alla Scuola per boia ce ne hanno insegnate tante di tecniche per dar corso alla giustizia."

Fu alzata una forca nella piazza del Paese. Il boia scelse personalmente la corda, elastica ma resistente per come si deve, e preparò un bel nodo scorsoio che ondeggiava mosso da una leggera brezza, quando la folla cominciò a radunarsi per assistere allo spettacolo.

Mustafà El Beduin venne condotto sul palco, scortato da due soldati in alta uniforme e con le mani legate dietro la schiena. Il boia, con gesti solenni, gli pose il cappio attorno al collo.

"State uccidendo un innocente." - furono le ultime parole di Mustafà. Ma furono gettate al vento, perché le disse ancora in arabo e nessuno lo comprese.

La botola s'aprì sotto i suoi piedi e il condannato calò giù scalciando l'aria, mentre il cappio si stringeva al suo collo a strangolarlo. A questo punto, come in ossequio ad un'abile regia, Mustafà, dimenandosi disperatamente, riuscì a liberare le mani e s'afferrò alla corda, cercando di sostenersi e risalire verso alto. Ma la canapa, abbondantemente insaponata, non gli consentì una solida presa; le mani scivolarono, il cappio si strinse inesorabilmente e Mustafà rimase penzoloni a gambe larghe.

Prima uno, poi due e poi via via tutto il pubblico espresse il suo entusiasmo lasciandosi andare in un applauso scrosciante che si protrasse per parecchi minuti. Peccato che Mustafà fosse già morto, perdendosi così la meritata standing ovation.

I buoni cittadini ritornarono alle loro case rasserenati; ma si illudevano: il bello doveva ancora arrivare.

Gualtiero era un giovane fabbro, abilissimo nel ferrare i cavalli, tanto che lo stesso Re lo chiamava a corte e gli affidava i suoi purosangue. Attratti dal latrare di cani, alcuni passanti entrarono nella sua bottega e lo videro riverso per terra, con la pancia aperta da un lungo squarcio e gli intestini sparsi per il pavimento. Scacciati gli animali randagi che si contendevano le viscere di Gualtiero, s'avvicinarono a lui per constatarne l'avvenuto decesso con rituale asportazione del cervello tramite trapanazione del cranio.

A qualcuno venne una geniale idea:

"Dev'essere stato Leprotto."

Tale Leprotto era un giovinetto gracile e malaticcio che fungeva da saltuario aiutante del fabbro Gualtiero. Era nato con il labbro superiore aperto a metà che gli rendeva la bocca simile al muso di una lepre: da cui il soprannome.

Le guardie lo sorpresero in casa, intento a praticare suffumigi medicamentosi.

"Non vado a bottega da due giorni." - si giustificò con una voce più nasale del solito - "Riesco a stento a respirare."

La scusa sembrò così banale da configurarsi quasi come una confessione.

Il Re perlustrava le stalle in preda alla preoccupazione, non sapendo a chi affidare i suoi cavalli adesso che Gualtiero era venuto meno, quando Aiace lo raggiunse per dargli la notizia.

"Abbiamo già arrestato il colpevole. Tutto è pronto nella Sala delle Sentenze."

"Ma, stavolta, siamo sicuri?" - obiettò Pipino.

"Giudicherà lei stesso." - assicurò Aiace con la solita sicumera.

Appena il Re si trovò davanti a Leprotto non seppe se mettersi a ridere o a piangere.

"Grandissimo coglione che non sei altro! Mi vuoi far fare un'altra cazzata?" - avrebbe voluto dire. Ma il decoro del suo rango gli impose un linguaggio più consono alla circostanza; cosicché, disse:

"Vero è che si dice 'non c'è due senza tre', ma è mia convinzione che tre errori di fila non siano degni della mia persona."

"Maestà, il qui presente imputato è fortemente sospetto." - obiettò Aiace, quasi scandalizzato dai dubbi del monarca.

"Ma sospetto di che? D'essere il mostro?" - sbottò Pipino, incapace ormai di contenere la sua ira - "Ma non hai detto tu stesso che il mostro deve avere artigli, zanne e un becco acuminato? M'hai fatto pure il disegnino!"

"Spesso i mostri si celano sotto un aspetto innocuo." - spiegò Aiace, senza rendersi conto d'esprimere una sacrosanta verità.

"Ma l'hai guardato bene? Vorresti farmi credere che questo…"

"Mezzasega" era la parola giusta, ma al Re non venne in mente:

"…filiforme individuo sia stato capace di far fuori Gualtiero il fabbro. Quello lì, con una mano sola lo smontava, lo rimontava e lo smontava un'altra volta."

Non disse proprio così, giacché l'idea di smontare e rimontare presuppone la conoscenza di aggeggi meccanici allora inesistenti. Ma il concetto, comunque, era questo.

"E poi, l'hai guardato in faccia? Non sai che chi ha il muso di lepre non può fischiare e non è in grado di succhiare neppure un uovo? Come avrebbe fatto a succhiarsi il cervello di… A quanti siamo arrivati?"

"Otto, Maestà." - rispose Aiace, prontamente.

La conversazione s'era svolta a distanza da Leprotto il quale, sorvegliato da due guardie armate, continuava a tossire e soffiarsi il naso, cercando di comprendere dai gesti del Re quale sarebbe stata la sua sorte.

"Lasciatelo libero." - ordinò Pipino, facendo cenno a Leprotto d'avvicinarsi. Appena questi raggiunse il trono muovendosi a piccoli e indecisi passi, gli indicò l'uscita dicendo:

"Vai. Per questa volta t'è concesso d'andar via."

Non poteva certo chiedergli scusa a nome della monarchia!

"Grazie, Maesta!" - esultò Leprotto gettandosi in ginocchio e, avvinghiatosi alle gambe del Re, cominciò a baciargli gli stivali.

Pipino lo guardava commosso ed imbarazzato; e anche un poco soddisfatto perché il gesto di quell'uomo stava a dimostrare che i sudditi lo amavano.

"Smetti, adesso." - concesse - "Torna alla tua casa. E non approfittare più oltre della tua fortuna."

"Viva il Re!" - gridò Leprotto, alzandosi in piedi e, per fare onore al suo nome, s'allontanò saltellando proprio come una lepre.

"Adesso, che facciamo?" - domandò il Re ad Aiace, pur conscio ormai di non potere fare affidamento sul suo collaboratore. Il quale, presuntuoso come tutti i mediocri, prese a dispensare perle di saggezza:

"Il popolo non può attendere. Il popolo ha fame di giustizia e s'attende d'avere consegnato un colpevole."

"Anche noi siamo stanchi di attendere." - mugugnò Pipino - "E abbiamo fame di giustizia e voglia di condannare un vero colpevole."

Parlava al plurale com'era solito quand'era incazzato; e fissava Aiace immaginandolo nella gabbia degli imputati e condannato alla pena capitale; da eseguire sulla pubblica piazza mediante squartamento ad opera di quattro cavalli.

Una morte troppo rapida. Devo chiedere al boia se ne conosce qualcuna più lenta e dolorosa. Che so? Un bell'impalamento!

Intanto Aiace continuava inesorabile a martoriare le palle del povero Pipino:

"Occorre allora che sua Maestà faccia qualcosa di decisivo per risolvere la questione." - esortò, come se fosse colpa del Re se il mostro era ancora in circolazione.

"Che cosa posso fare?" - mormorò Pipino, rassegnato alla sofferenza - "Posso aumentare la taglia a 500 ghinee d'oro…"

"Non credo che basterà." - l'interruppe Aiace.

"Cosa, allora! Sarei disposto ad offrire ciò che ho di più caro al mondo…".

Pipino si fermò a riflettere sulle parole che gli erano sfuggite di bocca:

"Già… Si… E' vero… Possiamo provare."

Il Re Pipino VII aveva un'unica figlia, la principessa Elvira, fanciulla di rara bellezza, in età da marito; anche se, per carattere o per innata pudicizia, sembrava disinteressarsi degli affari di cuore. Trascorreva le giornate dedicandosi al ricamo e alla lettura e, soltanto per insistenza del padre partecipava alle feste danzanti che il monarca organizzava per proprio diletto e nella speranza d'individuare un buon partito per la figlia. I corteggiatori certo non mancavano. Elvira era bionda di capelli che portava lunghi e acconciati in delicati boccoli; aveva gli occhi celesti della madre, di chiara origine normanna e il portamento fiero di antichi avi guerrieri; e una bocca delicata dalle labbra piccole ma carnose. Tralascio di descrivere il resto, ma, insomma, ci siamo capiti: era un bel bocconcino, degno di figurare come protagonista di qualsiasi favola.

Il Re emise un bando che fece circolare per tutto il Paese:

Udite! Udite!

Qualunque uomo, abitante nel nostro Paese o anco foresto, si dimostri capace di affrontare ed uccidere il mostro che da mesi uccide, mutila e terrorizza la popolazione

AVRA' IN MOGLIE LA PRINCIPESSA ELVIRA

CON TUTTI GLI ONORI CHE NE CONSEGUONO

Così ha deciso il nostro sovrano Pipino VII.

Gli onori cui faceva riferimento il bando consistevano nel divenire Re alla morte di Pipino. Obiettivamente, di più non si poteva chiedere al sovrano il quale s'aspettava che accorresse un esercito.

Si presentarono soltanto in tre: Casimiro, il figlio del mugnaio, e due nobili rampolli di casata decaduta, notoriamente pieni di debiti.

Casimiro era un giovane volenteroso, dallo sguardo vivace ed intelligente ma dalla scarsa muscolatura, tenuta in allenamento dal quotidiano trasporto di sacchi di farina.

I due nobili che, per strana coincidenza, si chiamavano Achille e Patroclo, erano legati tra loro da affettuosa amicizia. Nulla di riprovevole, per carità! Per quanto se ne sapeva, le loro tendenze sessuali e il loro comportamento di vita non si discostavano dal normale. Sempre che si possa considerare normale la vita che conducevano. Trascorrevano il giorno cavalcando e cacciando; di sera facevano il giro delle taverne a bere ed ubriacarsi e concludevano la notte intrattenendosi carnalmente con donnacce di malaffare.

Però, erano inseparabili. E insieme furono trovati in un fienile poco fuori del Paese dopo essere stati irreperibili per tre giorni.

Achille aveva la gola aperta da orecchio a orecchio. Patroclo presentava un taglio che andava dall'inguine all'ombelico. Ed ambedue erano rimasti privi del cervello, asportato attraverso un forame frontale.

Era troppo! Il Re furente, non si tratteneva più:

"Porto la taglia a 1000 ghinee d'oro." - dichiarò con decisione e, ancora più deciso, aggiunse - "A costo di dovere aumentare le tasse."

"E la principessa?" - domandò Aiace.

"Il bando rimane valido." - assicurò il Re - "Ma cosa vuoi che possa fare il povero Casimiro!"

Infatti, morti i due nobili Achille e Patroclo, viziati e dissoluti, ma pur sempre usi alle armi, nessuno pensava che Casimiro potesse essere in grado di catturare il mostro. Lo stesso Casimiro cominciava a nutrire ripensamenti:

"Ma chi me l'ha fatto fare?" - rimuginava tra sé e sé, intento a riempire di farina alcune bisacce nei pressi del mulino del padre. La risposta la conosceva benissimo: la principessa Elvira della cui bellezza s'era invaghito appena l'aveva intravista a distanza sul sagrato della Chiesa. Per colpa di questo repentino innamoramento aveva finanche litigato con la devota Anna: una ragazzina con la quale amoreggiava fin da fanciullo.

"Casimiro!" - si sentì chiamare improvvisamente. Casimiro si volse indietro e trasalì. Il sogno della sua vita era lì davanti a lui. La principessina Elvira lo fissava con gli occhi dolci e lo sguardo amoroso.

"Non ci posso credere!" - pensò Casimiro, scrollandosi di dosso un po' di farina nel patetico tentativo di rendersi presentabile.

"Davvero vuoi affrontare il mostro per amor mio?" - domandò Elvira con voce flautata.

"Da… da… davvero!" - balbettò il giovane il quale era povero ed ignorante, ma cretino certamente no. All'udire il bando s'era fatto avanti d'impeto, ma poi, dopo averci riflettuto, s'era reso conto di non essere in grado d'affrontare un mostro. Tra l'altro, Casimiro era stato dispensato dal servizio militare per insufficienza toracica. Però, di fronte ad Elvira, non poteva fare la figura del cacasotto.

"Lo cercherò. Lo troverò. L'affronterò. E l'ucciderò per te." - riuscì a dichiarare con estrema sicurezza.

"Oh! mi batte forte il cuore al solo pensarci!" - sospirò Elvira; e, presa una mano di Casimiro, se la portò sul petto - "Lo senti come mi batte?"

Casimiro lo sentiva; e cominciava ad avvertire anche altre modifiche in corso nelle parti basse del proprio corpo. Se n'accorse anche Elvira la quale teneva gli occhi pudicamente volti verso il basso.

"C'è troppa gente qui." - disse la fanciulla - "Perché non continuiamo la nostra conversazione altrove."

"Altrove?" - stupì Casimiro.

"Si. All'una di stanotte. Nel casotto da caccia che sta dietro il Palazzo reale."

Il sogno ad occhi aperti di Casimiro continuava.

Rimase a riflettere a lungo, concludendo infine che si trattava di un'occasione da non perdere. Il pomeriggio volò via nei preparativi. Si sottopose a tre bagni consecutivi per togliersi di dosso ogni traccia di farina. Dovette andare in paese due volte, la seconda delle quali per acquistare una confezione di profumo da un litro con la quale si cosparse abbondantemente. Limitandosi ad una frugale cena, s'acconciò per la bisogna e, appena ritenne che tutto fosse stato opportunamente predisposto, s'avviò.

A mezzanotte si trovava già all'interno del casotto di caccia, in trepida attesa. Il locale buio era illuminato dall'esterno dai raggi di una splendida luna piena che suscitava ombre inquietanti. Un'ora sembrò un'eternità per Casimiro che, privo d'orologio, doveva regolarsi ad intuito. Finalmente, all'una di notte, o giù di lì, le sue orecchie percepirono lo scalpiccio di timidi passi.

"Ci sei?" - sentì sussurrare. Un sospiro di vento, il cinguettio d'un usignolo, la voce della principessina Elvira.

"Sono qui." - fece Casimiro in risposta. Elvira gli apparve più bella del solito, illuminata in volto dalla luce argentata della luna che accentuava il naturale candore della sua pelle e le rendeva le guance smorte. Caratteristica questa che, notoriamente, indica segrete attitudini femminili.

"T'ho pensato tutto il giorno." - mormorò Elvira, accostandosi al giovane - "T'ho immaginato su un cavallo bianco come il principe azzurro che ho sempre sognato."

Virtuali campane cominciarono a risuonare nella testa di Casimiro, mentre Elvira gli era giunta faccia a faccia; ne avvertiva l'inebriante profumo naturale che sovrastava quello che s'era gettato addosso. La principessa sporse in avanti il viso, offrendogli le labbra; ma, ancor prima che Casimiro si decidesse ad accettare il dono, fu lei stessa ad accostare la bocca a quella del giovane in un bacio che dapprima pudico, divenne rapidamente sempre più audace.

Campane a festa scuotevano il cervello di Casimiro il quale avvertiva sullo sfondo il timido rintoccare di un campanellino d'allarme il cui suono diveniva sempre più insistente.

E proprio sul più bello, Elvira frugò sotto la veste e ne trasse fuori un coltellaccio a serramanico che puntò con decisione contro il ventre del giovane, spingendolo violentemente in avanti. Appena Casimiro avvertì il contatto della lama, si ritrasse, portandosi le mani sul ventre:

"Oh Dio, muoio!" - urlò; e cadde riverso per terra.

La risata agghiacciante di Elvira risuonò nel casotto. Si liberò dell'arma e tirò fuori da sotto la veste un robusto cuneo di legno, guardando in giro alla ricerca di qualche oggetto da usare a mo' di martello. Trovato un idoneo mattone se ne appropriò e s'accostò a Casimiro, ponendosi in ginocchio accanto al giovane. Piazzò la punta del cuneo al centro della fronte, alzò in alto in mattone… e sbarrò gli occhi per la meraviglia.

Casimiro balzò in piedi giulivo e festante, annunziando:

"Oplà! Adesso potete venire fuori."

A queste parole, da dietro una transenna di legno, sortirono uno sbalordito Aiace insieme a due soldati e un ancor più sbalordito Pipino VII.

Certamente vi state chiedendo cosa ci facessero nascosti là dietro. Per comprenderlo occorre semplicemente compiere un salto a ritroso di alcune ore.

Allontanatasi Elvira dal mulino, Casimiro, dopo meditata riflessione, s'era recato a Palazzo reale e aveva comunicato al Capo delle guardie:

"All'una di questa notte catturerò il mostro. Però ho bisogno del vostro aiuto."

Aiace, pur con un certo scetticismo, non voleva perdersi la scena; anzi decise di coinvolgere anche il Re.

"Allora, fate così e così." - spiegò Casimiro - "Poco prima di mezzanotte, nascondetevi nel casotto da caccia che sta dietro il palazzo e…"

E il resto lo sapete.

"Non posso credere ai miei occhi!" - farfugliò Pipino tremando per l'emozione. - Perché l'hai fatto, figlia mia?"

La figlia, per nulla impressionata dalla presenza di spettatori, assunse un'aria di noncurante strafottenza:

"E' tutta colpa tua." - si giustificò - "Mi dici sempre che sono senza cervello come mia madre. E allora, io mi prendo il cervello degli altri."

Non erano i tempi nostri in cui tutti sanno di psicologia e discorrono di ansia, depressione e nevrosi correlate. A quell'epoca, neppure il Re s'intendeva di malattie mentali e tutto veniva imputato al diavolo. Il quale, interpellato in proposito, ebbe a dire:

Non ne posso più di queste calunnie. Ognuno si prenda le sue responsabilità. Gli uomini non possono continuare ad affibbiarmi la colpa di tutte le porcherie che commettono. E sia ben chiaro: a farli così schifosi, non sono stato io!!

"Chiamate il Vescovo." - sussurrò il Re - "Ditegli che qua c'è urgente bisogno di lui."

Aiace, pur essendo caduto dalle nuvole, non voleva darlo ad intendere. S'avvicinò a Casimiro e, con il tono di porre una casuale domanda, s'informò:

"Come hai fatto a comprendere che il mostro era la principessa Elvira?"

E Casimiro spiegò:

"Mi sembrò strano che fissasse un appuntamento notturno. Questo avviene nelle favole e nei racconti dei giullari. Nella realtà una principessa non organizza convegni amorosi con il figlio di un mugnaio. 'Questa non è a posto con la testa', mi sono detto; e ho pensato: 'Vuoi vedere che il mostro è lei?'"

"Lo sospettavo da tempo." - mentì Aiace spudoratamente - "Ma adesso è tutto chiaro! La perfida attirava le vittime in un appuntamento galante e, approfittando del momento di smarrimento tipico di queste occasioni, le uccideva e poi… Che grandissima troia!"

La tro… pardon, la principessa fu condotta segretamente in un monastero dove passò il resto dei suoi giorni.

Casimiro intascò le 1000 ghinee d'oro e sposò la fedele Anna che gli aveva confezionato la maglia metallica utilizzata per ripararsi dalla coltellata.

Nel Paese tornò la tranquillità e vissero tutti felici e contenti.

04 luglio 1999




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