Che fosse strana lo avevo capito da subito, ma mai prima di allora mi ero resa conto di quanto quella parola fosse limitata.
"Strana".
In fondo sono solo sei lettere messe una di fianco all'altra, e seppur già il suo significato lascia trasparire un alone di mistero in ciò a cui ci si riferisce, con lei addirittura non assumeva altro che un piccolo spazio tra gli altri, innumerevoli aggettivi che la delineavano.
Quello che c'era in lei non si può definire con una consueta, misera, parola di sei lettere; lei era "diversa", la sua natura si innalzava al di sopra di tutto ciò che è comprensibile alla mente umana o ricercabile su di un vocabolario.
Ricordo bene il giorno che conobbi Evelyn, ero in giardino quando la vidi per la prima volta poiché come sempre tra l'ora di matematica e quella di inglese c'erano quindici minuti di tempo libero per un po' di svago. Me ne stavo per i fatti miei (non che qualche volta me ne fossi stata per quelli delle altre) quando vidi un'imponente e lussuosa autovettura varcare il cancello e soffermarsi proprio di fronte all'ingresso. L'autista aprì una portiera e aiutò una ragazza a scendere, o almeno credetti che lo facesse, poiché quest'ultima lo scansò irritata mentre lui sbatté la portiera imprecando un qualcosa che non potei udire. Fu una giovane signora, molto alta e dall'aspetto austero scesa dalla parte opposta dell'auto, a mettere pace tra i due. Lo fece senza proferire una singola parola, le bastò uno sguardo e un cenno con la mano; la sua autorità era tale che quel solo gesto fu sufficiente a raggelare gli animi bollenti dei due litiganti.
Mi stupì quel singolare comportamento, ero convinta che tutti gli aristocratici (che lo fossero lo dedussi dallo stemma posto sul cofano della vettura) avessero l'eguale temperamento di un manichino e che mai e poi mai potessero rendersi protagonisti di una così spassosa scenetta, o almeno non in pubblico.
La ragazza comunque non perse quell'aria di insopportabile superbia che la caratterizzò sin dal primo istante e insieme alla donna varcò l'ingresso.
Non mi domandai cosa un'elegante e raffinata signorina aristocratica ci facesse in quello stupido e dimenticato da Dio collegio femminile del Nuovo Galles del Sud, non mi importava affatto; per me non era altro che una sciocca smorfiosetta in più da odiare.
Detestavo quel posto, venivo da Adelaide io, ci vivevo con i miei genitori ma quando essi morirono fui affidata alla zia Ghertrude, una grassa e apatica vecchia tanto amorevole da aver perso nell'arco di un solo anno il marito, il figlio minore (scappato di casa a soli dodici anni) e quattro canarini. Il suo incontenibile amore per me la spinse ad assumermi come sguattera prima, e successivamente a scaricarmi in questo raffinato circolo di ragazzette snob, patetiche e bigotte come la loro esistenza.
Il collegio non era molto grande, saremmo state una quarantina di allieve in tutto. L'aspetto esteriore era ovviamente molto confortevole e ben curato poiché il giudizio degli occhi conta ben più di quello della mente, tuttavia ciò che v'era al suo interno era privo di importanza, come lo era il marcio che si insinuava nelle interiora di tutte quelle streghe. La strega superiore era la direttrice, Mrs.Flynn che avevo soprannominato "Terra del fuoco" per il suo ineguagliabile calore umano. Sua consulente e complice era Miss Jackson, l'insegnante di inglese, una zitella isterica la cui frase preferita era -Yvette, se non impari a comportarti come si deve ti sbatto dalla direttrice-.
Va detto che quel -comportarti come si deve- significava comportarsi come loro, quindi la maggior parte del tempo la passavo in un angolo dell'ufficio della strega superiore.
Sulle mie compagne non ho intenzione di spendere una parola di più, riferire che le ignoravo allo stesso modo con cui loro snobbavano me mi sembra più che sufficiente.
Quello stesso giorno, prima dell'inizio della lezione di storia, qualcuno bussò alla porta dell'aula; era "Terra del fuoco" che teneva fieramente per mano la ragazza vista prima. La presentò alla classe con il nome di Evelyn, disse che veniva da molto lontano e che il nome del suo casato era tra i più importanti ma non ne specificò né il Paese, né la famiglia di provenienza. Tutti da allora la conoscemmo semplicemente come Evelyn.
Alzai lo sguardo dal mio taccuino degli scarabocchi e la osservai meglio di quanto avevo fatto precedentemente; elegante lo era di sicuro, il suo portamento e gli abiti sontuosi, ma pensai che non fosse un granché in quanto a bellezza. Era poco più alta di me ma decisamente più in carne, le labbra e gli occhi grandi, due guance pienotte da bambina e i capelli di un castano ramato. Il tutto dava l'aspetto di una giovane viziata in piena salute fisica ed economica.
Squadrò con gli occhi tutta la classe, forse per accertarsi che fosse di suo pieno gradimento, poi incrociò il mio sguardo. Mi fissò per un istante con un ironico sorrisetto stampato sulle labbra.
V'era un banco vuoto accanto al mio, e uno vuoto nella fila alla mia destra; quando l'insegnante le disse di scegliersi un posto si avvicinò a me con fare sinuoso, ma infine si sedette a quell'altro, quello alla mia destra e, senza che io facessi nulla contro di lei, mi aggredì con un' insolente linguaccia.
Non mi irritò quel suo comportamento, ma mi stupì, eccome, vedermi data tutta quella confidenza da una persona di quel genere. Di solito le mie compagne, visti i miei abiti semplici e i miei modi "rozzi" mi evitavano come la peste.
E infatti per tutto il resto della giornata non mi diede alcun segno di considerazione, ma la osservai attentamente; osservai tutti i suoi gesti, i movimenti, mi incuriosiva il suo modo assente e distaccato di stare con le altre compagne. Le trattava come se nessuna di loro fosse alla sua altezza, si burlava dell'ammirazione che suscitava ai loro occhi, le snobbava squadrandole tutte dall'alto al basso con indifferenza mentre la circondavano di attenzioni e gesti cortesi per attirare (invano) la sua simpatia, elogiandone la bellezza e l'eleganza.
Quale singolare sensazione di piacere mi dava l'osservare l'aria smarrita e umiliata di quelle smorfiose ogni volta che ella torceva il naso stizzita, quale sensazione di profondo godimento nel vederle trattate come loro avevano sempre trattato me.
Il mattino dopo, durante l'ora di musica, dovevamo provare i pezzi da suonare al saggio; l'insegnante avrebbe poi dovuto eleggere la migliore per il gran finale. Non v'era naturalmente alcun dubbio su chi sarebbe caduta la sua scelta: la giovane Sheryl, figlia di un importante diplomatico inglese, deliziosa come il deserto nell'ora più calda, era certamente la migliore. Stava esibendosi sotto gli occhi della professoressa in delirio mistico quando, proprio di fronte a me, all'improvviso apparve lei, Evelyn, col suo solito sorrisetto ironico e la sua aria da superba canaglia. Mi osservò per tutto il tempo e quando i miei occhi sfuggivano alla sua vista veniva a cercarli insistentemente.
Finita la sua esibizione, Sheryl venne sommersa dai soliti applausi e complimenti; fu allora che Evelyn mostrò le sue prime singolarità. Non solo non applaudì affatto, ma sembrò addirittura seccata da tutto quell'entusiasmo nei confronti di Sheryl. Il suo viso si contorse in una smorfia di irritazione e rabbia trattenuta a stento, si piantò di fronte all'insegnante dichiarando di non capire tutto quell'entusiasmo e di poter fare -dieci, venti,cento volte meglio di lei- Improvvisamente il sangue si raggelò nelle nostre vene, non appena la professoressa la incitò con un -vediamo allora cosa sai fare- ella si avvicinò al pianoforte scansando violentemente Sheryl con una sola mano, si sedette sullo sgabello, chiuse gli occhi e senza neanche sgranchirsi le dita incominciò a suonare la melodia più incredibile che avessimo mai sentito. Non apparteneva a nessun compositore conosciuto, sembrava anzi l'avesse composta ella stessa data la padronanza che ne aveva. Con gli occhi perennemente chiusi, le sue mani scorrevano sui tasti lievemente e velocemente, quasi fossero le dita stesse ad emettere quelle incantevoli note. I miei occhi si imperlarono di lacrime, quella melodia aveva ipnotizzato tutte quante, perfino il pianoforte stesso sembrava esserne soggiogato.
Quando la musica terminò eravamo così assorte e magicamente rapite che in un primo istante non ce ne accorgemmo nemmeno, fu l'applauso di Miss Jackson, attratta dalle note come un topo dal piffero, a farci ritornare con i piedi a terra e a scatenare un entusiasmo generale nei riguardi di Evelyn.
Fu naturalmente scelta lei per il gran finale del saggio; Sheryl era già stata gettata nel dimenticatoio.
Quel giorno, nell'ora di educazione artistica iniziammo lo studio del ritratto della figura umana, ci fu dato quindi il compito di sceglierci una compagna come modella. Per quel che mi riguarda, io non dovetti fare alcuna scelta poiché fu lei a scegliere me. Lo fece con un profondo e doloroso pizzicotto ben assestato sul mio braccio. Mi voltai irritata: era ovviamente Evelyn che mi fissava con quei suoi occhioni grigi da bambolina ingenua. Mi chiese di ritrarla e io inconsciamente obbedii.
Ero ormai troppo incuriosita e affascinata dai suoi modi, volevo conoscere chi fosse veramente.
Si sistemò comodamente su una poltroncina; in quel momento non fui più così sicura di riuscire a ritrarla, così particolare, misteriosa, terribilmente a suo agio, e io nervosa, insicura. Mi chiese di iniziare, lo feci ma, stranamente, non appena posai il carboncino sulla tela la mia mano sembrò proseguire da sola; non ero io a muoverla, ne ero certa, io non avevo mai disegnato così bene.
Il suo volto era radioso, la stoffa della divisa copriva parti del suo corpo che gli insolenti raggi del sole adagiati sulla sua candida pelle cercavano di accarezzare. Solo allora, poco a poco, mi resi conto di quanto fosse straordinariamente bella; la mia mano indugiò sui suoi occhi perlati, incorniciati da sottili sopracciglia di velluto, le labbra carnose, perfette, morbidamente adagiate sul viso aggraziato, guance lisce, soffici, impreziosite da due fossette infantili e birichine. Il corpo morbido, molto femminile, già maturo per una ragazza di quindici anni.
Quando terminai osservai bene il ritratto; era perfetto nelle linee, nei colori, nelle sfumature...semplicemente perfetto.
Quella fu la prima volta che mi guadagnai davvero un bel voto, chiesi ad Evelyn di poter appendere il ritratto nella mia stanza ed ella acconsentì.
Dopo di allora passammo molto tempo insieme, cambiò perfino di posto e si spostò nel banco accanto al mio.
Divenimmo inseparabili, non c'era nulla che facessi senza di lei, fingevamo di studiare, giocavamo a rincorrerci, all'inizio prendevamo in giro quelle smorfiose delle nostre compagne e lei spesso si lasciava andare a pesanti commenti, anche molto più perfidi dei miei. Poi ci rendemmo conto che Noi eravamo molto superiori a loro, quindi decidemmo di ignorarle completamente.
A volte, nei rari momenti di libera uscita in cui potevamo recarci in città, mi spingeva verso strane bancarelle di vecchi libri e ne acquistava uno. Sapeva sempre con certezza quale scegliere, comprava solo libri "proibiti" e molto espliciti verso certi argomenti. Poi la sera, quando tutti dormivano, sgattaiolava fuori dalla sua stanza, si infilava sotto le mie coperte e me li leggeva. Leggeva bene quel genere di storie, senza imbarazzo, ma anzi con molta malizia ed eccitazione.
Parlavamo molto, di ogni sorta di argomento e nonostante avesse la mia stessa età sembrava molto esperta, vissuta. Mi raccontava di posti lontani, culture misteriose, uomini affascinanti e donne bellissime. E mi parlava del potere del Fascino, un potere che poche persone possiedono, ma che è molto forte. -Il vero potere sta nel Fascino- mi diceva, e io rimanevo incantata mentre l'ascoltavo, le chiedevo sempre se l'avesse incontrato, se avesse avuto modo di vedere il Fascino, ma a queste mie insistenti domande ella rispondeva vagamente con malinconia.
Diceva di averlo incontrato tempo prima, prima ancora dell'inizio della Guerra e che ne era stata vittima poiché nulla è più attraente e maledettamente ingannevole del Fascino. Mi sentivo come una bambina nei suoi confronti, volevo sapere tutto e subito, volevo che mi descrivesse il Fascino, volevo conoscerlo anch'io.
Un giorno, stanca delle sue continue divagazioni, dissi di voler incontrare il potere del Fascino come aveva fatto lei; fu allora che per la prima volta mi cinse a sé con fare sinuoso e, accarezzandomi il viso, disse:
-Tu vaneggi. Non sai di che parli. Verrà il momento in cui lo conoscerai, amore mio, e capirai così come ho capito io. L'amore conosce le vie più misteriose, anche le più infide. Quando lo incontrerai capirai e allora sarà troppo tardi, mi apparterrai. Non sarai più tua, come io non sono più mia-.
Mi incuriosivano questi suoi discorsi, mi incantavano, anche se allo stesso tempo lei mi faceva paura. Mi faceva paura la sua stretta possente, il suo sguardo stranito e ammaliante. Così come avevo paura dei suoi baci.
Se con lei potevo parlare di qualsiasi argomento, le sue origini e la sua famiglia erano fuori discussione. Una delle tante cose che avevamo in comune era l'assoluta solitudine a cui le nostre famiglie ci avevano abbandonato, non ho mai più visto quell'austera signora che l'aveva accompagnata, ed ero certa che lei non ne volesse parlare: cambiava sempre discorso quando cercavo di farle delle domande e allora, un po' scocciata e delusa, mi mettevo a pettinarle i capelli. Era un piacere per me accarezzare quelle soffici ciocche di seta, leggermente mosse, un po' selvagge ma allo stesso tempo tanto raffinate da poter essere raccolte in qualsiasi tipo di acconciatura senza che facessero una bizza.
Spesso giocavamo a fare le principesse, mi prestava i suoi abiti più belli e i gioielli, sapeva truccarsi con cura come le dame dei ricchi salotti francesi. Si comportava come una giovane donna, sensuale, attraente, di una bellezza infantile e torbida al medesimo tempo.
Lei il Fascino lo possedeva di sicuro ed io ne ero ormai soggiogata.
C'era una cosa che preoccupava la direttrice e le insegnanti più della mancanza di legami tra le allieve, ed era che costoro legassero troppo. Fu così che la costante vicinanza e la "profonda, intima, amicizia" tra me ed Evelyn iniziò ad allarmarle. Cominciarono con il rimproverarci e stizzirci ogni volta che ci vedevano assieme, praticamente sempre. Io questo non lo sopportavo, come non lo sopportava Evelyn, ci era impossibile tollerare che qualcuno potesse anche solo pensare di dividerci. Né loro, né nessun' al mondo poteva capire ciò che si era creato tra me e lei. Lei era quella parte di me che mi era sempre mancata, era il mio tutto, il solo vederla mi faceva stare bene, mi piaceva ascoltare le sue parole, farmi cullare dalla sua voce, accarezzare dalle sue mani.
Sentirla cantare era per me la cosa più bella; la notte spesso, sotto le coperte, mi cantava una vecchia canzone che, diceva, le cantava sempre la madre, quando era ancora viva. La sua voce era sottile, squillante, sembrava un angelo. Era il mio angelo e io mi abbandonavo tra le sue braccia e mi addormentavo serenamente.
La notte facevo spesso sogni strani. Sognavo Evelyn ovviamente, ma tutto era diverso, particolare.
Lei era diversa.
I suoi occhi emanavano un gelo ardente, focoso, le labbra divenivano rosse, frementi, affamate di un qualcosa che mi apparteneva. Mi stringeva a sé, come sempre, ma lo faceva talmente forte da impedirmi qualsiasi movimento. E mi baciava. Mi baciava la pelle, le labbra, mi cullava teneramente e affabilmente. Nonostante questo, però, io sentivo dolore, sentivo dolore ad ogni suo bacio come a quei suoi pizzicotti, la cui abitudine non aveva purtroppo mai perso. Delle grida si insinuavano nella mia mente trapanandomi i timpani, erano grida di dolore, di paura. Io avevo paura, non del dolore, bensì di lei; avevo paura di quello che mi faceva.
Di sogni come questi ne facevo parecchi allora, ed ogni volta al mio risveglio mi sentivo sempre più debole, confusa, impaurita. Lei continuava a stringermi, confortarmi, diceva che se le fossi stata vicina presto avrei conosciuto il potere del Fascino, che avrei dovuto soffrire un po' per questo ma che solo standole accanto sarei stata meglio. Così, sebbene le forze stessero pian piano abbandonando il mio corpo, ero felice di averla al mio fianco, di poterla abbracciare e accarezzare.
Il nostro rapporto era diventato così sincero, profondo e intimo che a nessuno era permesso intromettersi.
Evelyn era molto gelosa, almeno quanto lo ero io, ma anche molto possessiva. Guai se qualcuno si fosse avvicinato troppo a me o se io avessi dimostrato interesse per qualcun altro. Ricordo che il lunedì passava una specie di postino che si occupava di portare e ritirare la corrispondenza del collegio. Un giorno costui si ammalò e dovette essere sostituito per un po' di tempo. Lo sostituì un giovane, poco più vecchio di noi, aitante e molto carino. Mi piacevano i suoi occhi di giada e il ciuffo bruno che incorniciava il suo viso dai lineamenti delicati. Anche lui sembrò interessarsi a me poiché miei erano i suoi rari sorrisi e gli inchini.
Evelyn non lo vedeva di buon occhio, anzi, lo squadrava duramente con quello sguardo che solo nei miei sogni avevo visto prima di allora. Ero sicura che lo detestasse e ne ebbi la certezza quando egli si azzardò ad omaggiarmi di una delicata rosa rossa scatenando così le sue ire più furiose. Cacciò il giovane in malo modo, distrusse il fiore calpestandolo e si allontanò di corsa. La dovetti rincorrere fino alla sua stanza prima di riuscire a raggiungerla, lì mi aggredì con frasi della più sfrenata e contorta cattiveria, e altre più confuse che non riuscii a comprendere come -pensavo che volessi essere solo mia- -se solo tu mi appartenessi, non ti permetterei di comportarti così- -non incontrerai mai il potere del Fascino...no, non lo farò, lo terrò solo per me-
Solo allora mi resi conto di quanto tenesse alla parola "appartenenza", di quanto volesse qualcosa che fosse veramente ed esclusivamente Suo. E quella cosa voleva che fossi io. Allora non ci pensai, mi commossi quando ella si sciolse in calde lacrime di profonda tristezza, mi avvicinai e la strinsi a me cercando di calmarla e assicurandole che nessuno al mondo per me era più importante di quanto lo fosse lei e che chiunque altro, compreso il giovane postino, non contava assolutamente nulla. Si tranquillizzò e in breve la questione fu dimenticata.
Quella notte, però, accadde qualcosa che non potrò mai scordare.
Dormivo sola, profondamente, poiché non sempre Evelyn riusciva a venire da me, soprattutto quando di guardia c'era la direttrice.
Stranamente, per la prima volta dopo molto tempo, non sognai Evelyn, bensì il mio bel giovane. Era proprio bello in quella divisa che lasciava trasparire le forme del corpo di un giovane uomo fatto. Mi sorrise e mi strinse la mano tra le sue ma disgraziatamente un urlo lacerante proruppe dal più profondo del suo petto distorcendo i tratti del suo viso e lo vidi cadere in ginocchio, ansimante. Con una mano premeva su un lato del collo e quando la tolse una gran quantità di sangue scorse fuori dalla sua carne lacerata fino a formare una pozzanghera sul pavimento. Gli occhi e la bocca erano egualmente spalancati per la paura e l'orrore, pianse disperatamente e affannosamente come un bambino terrorizzato, allungò un braccio verso di me invocando il mio nome e implorandomi di aiutarlo, poi cadde a terra disteso e non si mosse più. Dietro di lui Evelyn mi osservava con il suo sguardo algido e le labbra grondanti di sangue ancora caldo. Mi svegliai di soprassalto. La paura mi immobilizzava; di fronte a me, il ritratto di Evelyn mi osservava con quegli stessi occhi freddi e scrutatori.
Allora mi resi conto di cosa avevo fatto: non avevo dipinto lei, avevo dipinto il suo sguardo, quello sguardo che non mi avrebbe mai più abbandonata.
Il mattino seguente una terribile notizia investì il collegio, il giovane Russel, sostituto del postino, era tragicamente morto la notte precedente. Sussultai. -Assassinato- fu la parola che il mio corpo, già da troppo tempo indebolito, non riuscì a reggere facendomi cadere a terra priva di sensi.
Quando rinvenni mi trovavo nell'aula-infermeria ed Evelyn era con me, mi accarezzava la testa dicendomi che sarebbe andato tutto bene. Quell'angelo meraviglioso sapeva come confortarmi e farmi stare bene; in quel momento mi resi conto che nulla avrebbe potuto separarmi da lei poiché Noi eravamo ormai parte l'una dell'altra, eravamo una cosa sola.
Presto avrei conosciuto il potere del Fascino, ne ero sicura.
Come quasi sempre faceva, anche quella stessa notte venne a tenermi compagnia, si infilò nel mio letto e mi cinse tra le sue braccia. Sapeva che le forze mi venivano a mancare sempre più e aveva iniziato a starmi ancora più vicina e a rassicurarmi. Mi baciò la fronte e prese a leggermi uno dei suoi meravigliosi libri sensuali come tanto amava fare e che io tanto amavo ascoltare.
Ma il destino sa essere crudele e beffardo; la porta si spalancò improvvisamente e i nostri occhi incrociarono quelli incolleriti e straniti della direttrice. Miss Jackson stava dietro di lei ed entrambe ci osservarono stupefatte e sconvolte.
La direttrice afferrò la povera Evelyn per un braccio scaraventandola giù dal letto, raccolse il libro che era caduto a terra e ne lesse alcune righe. Dovette aver letto proprio quelle più esplicite poiché si fece rossa in volto come mai l'avevo vista prima e iniziò a stracciarlo furiosamente definendolo "osceno e blasfemo, proprio come voi", poi sfogò la sua ira contro di me colpendomi la schiena col suo frustino mentre Miss Jackson trascinava Evelyn nella sua stanza per i capelli.
Ricordo quel momento come il più disperato della mia vita; piangevo, urlavo e mi dimenavo, la direttrice sequestrò tutti il libri, gli oggetti che Evelyn mi aveva regalato e perfino il suo ritratto, dicendomi che sarebbe stato meglio per me se l'avessi dimenticata per sempre. Uscì infine chiudendo la porta a chiave e lasciandomi a terra, devastata dal dolore e dalla paura di perdere il mio amore.
Stetti per un'intera settimana là dentro, senza parlare con nessuno e senza sapere come stesse Evelyn; immaginandola nella mie stesse condizioni, piangente, disperata. Soltanto che le mie condizioni peggioravano di giorno in giorno. Avevo sentito parlare di una strana malattia: la consunzione; non sapevo bene di cosa si trattasse ma ero sicura di esserne affetta.
Una sera, durante una delle mie solite crisi di pianto, vidi Evelyn. Non era frutto della mia immaginazione, era proprio lei. Stava lì, in piedi, bellissima come sempre ma con un alone di infinita tristezza che la devastava.
Non mi chiesi come avesse potuto entrare, non mi importava, lei era lì con me in quel momento, e stavo bene perché ci amavamo come nessun'altro essere al mondo poteva amare.
Si avvicinò al mio letto intonando quella meravigliosa canzone che tanta pace e serenità mi donava. Avvicinò il viso al mio accarezzandomi i capelli, la pelle e asciugandomi le lacrime. Ero quasi completamente assopita quando un forte, insostenibile dolore si espanse per tutto il mio corpo. Era come se due aghi affilati mi penetrassero profondamente la carne. Non potei evitare di urlare con tutte le mie forze poiché la voce uscì dalla mia gola senza che me ne accorgessi.
Udii il rumore della chiave che veniva inserita nella serratura e in quel momento Evelyn si allontanò da me: aveva l'aria impaurita, forse tanto quanto la mia, mi fissava con il gelo di quei suoi splendidi occhi e con le labbra grondanti di sangue.
Il mio sangue.
In quel momento la direttrice irruppe nella stanza con gli occhi spalancati per il terrore, un terrore che non si placò di certo alla vista del mio aspetto. Ordinò infatti di chiamare immediatamente un medico; incurante di tutto mi voltai verso Evelyn, la mia cara, dolce, amabile Evelyn. Nessuno si era accorto della sua presenza, solo io potevo vederla.
Solo io potei salutarla per l'ultima volta.
Il medico arrivò e mi visitò, per la prima volta vidi le streghe preoccuparsi seriamente per me. Già alcune morti erano state registrate negli ultimi tempi nelle zone vicine e i più orribili sospetti si insinuarono nelle loro menti, il pericolo per loro era uno solo e il più terribile: Spagnola.
Il collegio fu fatto prontamente evacuare per evitare qualsiasi contagio ed io fui ricondotta dalla zia Ghertrude che mi fece rinchiudere subito in un ospedale.
Passai dei momenti di terribile sconforto e angoscia, ma non appena i medici scongiurarono i loro sospetti e si resero conto che la mia salute fisica mostrava deboli segni di ripresa, fui congedata e potei tornare a casa.
Non tornai al collegio ma volli a tutti i costi cercare Evelyn. Chiesi alla direttrice, a Miss Jackson e alle altre insegnanti, nessuna di loro seppe darmi informazioni; dopo quella notte nessuno l'aveva più vista e nel registro del collegio non risultava nessuna iscrizione a nome di Evelyn.
Era sparita nel nulla così come vi era apparsa.
Non la rividi mai più ma anche ora, a distanza di quasi dieci anni, non posso fare a meno di scrivere di lei. Non c'è un solo particolare di lei che non ricordi.
Ora so cos'è il potere del Fascino, ne sono perfettamente consapevole, come lo sono del fatto che sono stata vicina a conoscerlo più di qualunque altro essere umano. So quali sono le sue sfaccettature, anche quelle più infide, come mi fu detto.
Anche oggi, guardando negli occhi della mia bambina, so che il Fascino un giorno potrebbe tradire lei come chiunque altro.
E la notte, mentre dormo tra le braccia del mio amato marito James posso ancora sentire la sottile, acuta voce del mio angelo spandersi per tutta la casa e con un brivido ripenso a quello sguardo di ardente gelo chiuso nella soffitta che aspetta solo di essere nuovamente osservato.