Per fare un fiore… ci vuole un albero

di Silvio Falcone

 

- In tutto fanno ventisettemiladuecentocinquanta.

- Tenga.

- Non ha moneta?

- Mi dispiace. Ho solo tagli grossi.

- Speriamo di farcela! Pare che gli spiccioli siano scomparsi dalla circolazione. Chissà poi la gente che ne fa! E chi ne paga le spese, siamo noi commercianti, che dobbiamo fare i salti mortali per dare il resto ai nostri clienti. Ecco, a lei. Sono gli ultimi.

- Grazie. Buonasera.

- Grazie a lei! Buona serata.

Infilò il denaro nella tasca della gonna. In fretta raccolse la roba, ammucchiata nello scomparto di là del lettore ottico, la stipò nelle uniche due buste che le erano state date e uscì dal supermercato.

Ogni sera la stessa storia. Riusciva a fare quel poco di spesa per le sue modeste esigenze, giusto a tempo, prima che il supermercato chiudesse. Tutto di corsa. La sua vita, era di corsa.

Da quando aveva deciso di venire in città a stare da sola, non aveva avuto più il tempo per nulla. Ma era felice, viveva la sua vita, ed era tutta sua.

Francesca aveva ventiquattro anni. Era nata in un paesino di quattrocento anime, abbarbicato sul cucuzzolo di una montagna. I suoi genitori erano povera gente, abituata a lavorare per guadagnarsi il pane. Il padre badava alle poche pecore che gli erano rimaste e la madre ai tanti figli che era riuscita a sgravare. Era la più grande di cinque sorelle e quattro fratelli. L'unica che aveva avuto il privilegio di continuare gli studi in città. Si era diplomata ragioniera a pieni voti. Aveva progetti ambiziosi per il suo futuro e tutte le intenzioni di realizzarli.

Era molto carina. Capelli lunghi biondi, occhioni azzurri, il cui sguardo difficilmente si riusciva a sostenere. Aveva le curve giuste nei posti giusti, senza appesantimenti o esagerazioni. Non era altissima, ma assolutamente proporzionata. Un modo di vestire molto semplice, ma con molto gusto. Un modo di vestire che, come per molte ragazze della sua età, lasciava scoperto molto, ma senza malizia e con estrema disinvoltura. Quella sera, indossava una maglietta a righe orizzontali che mostrava gran parte del ventre piatto e una gonna ridotta ai minimi termini, dalla quale sbucavano due gambe perfette, i cui piedi, si infilavano in un paio di sandali con allacciatura alla greca.

Viveva in città da circa due anni, da quando cioè aveva deciso di affrontare la vita con le sole, proprie forze. Aveva fatto una scommessa con il mondo, e aveva deciso di vincerla.

Questa scelta le era costata non poco. I rapporti con i suoi genitori e con i suoi fratelli, da quel giorno avevano subito una brusca sterzata. La loro mentalità di gente semplice non gli consentiva di accettare che una ragazza della sua età andasse a vivere a 300 km dal proprio paese e per di più da sola, senza un marito. Per vivere avrebbe dovuto lavorare e questo significava che non si sarebbe dedicata alla casa e ai figli come aveva fatto sua madre, e prima di lei sua nonna e tutte le donne che si erano succedute nel tempo nella loro famiglia.

Un lavoro l'aveva trovato. Si occupava dei clienti in un centro polidiagnostico. Praticamente rispondeva a telefono e fissava gli appuntamenti. Non era quello che sognava, ma cominciava a muovere i suoi primi passi..

In città aveva vissuto anche una storia con un giovane commesso di un negozio di abbigliamento, Giorgio. All'inizio era tutto bello, poter vivere in totale libertà il loro amore, e alla luce del sole. Ma poi, la convivenza aveva rivelato aspetti del carattere di entrambi, per cui avevano ritenuto più opportuno troncare, prima che la cosa trascendesse. Erano rimasti buoni amici, ma ormai non si incontravano quasi più.

Al momento era, come suol dirsi, libera. E decisamente voleva restarlo per molto ancora. Non voleva intralci sentimentali che le facessero perdere l'appuntamento con il successo. Non aveva ancora ben chiare le idee su che cosa avrebbe fatto, ma di sicuro c'era che, qualsiasi cosa fosse, le avrebbe procurato denaro e potere. Poi sarebbe tornata al suo paese e avrebbe dimostrato ai genitori che aveva avuto ragione lei, la piccola Francesca, Chicca, come tutti la chiamavano.

Uscì dal supermercato con due buste; una per ciascuna mano. Avvertì un leggero brivido di freddo alla schiena. Pur essendo in pieno luglio, l'aria, la sera, era un tantino frizzante. Si avviò verso la sua vecchia R4. L'aveva comprata quattro mesi prima. Le era costata poco. Oggettivamente, valeva poco. Ammaccature di tutti i tipi, facevano bella mostra di sé sull’intera la superficie. Il colore, che in origine doveva essere blù, aveva perso la sua brillantezza rivelando in più parti tracce evidenti di ruggine. Trascorreva più tempo in officina, che sulla strada. Nonostante tutto, era soddisfattissima dell'acquisto e ne andava fiera. La portava a lavare ogni settimana e curava gli interni in maniera maniacale. Era la prima cosa veramente sua.

Aprì lo sportello e poggiò le buste sul sedile posteriore. Sedette al posto di guida e mise in moto.

Il supermercato era un po' fuori città, per ritornare in centro doveva percorrere una decina di chilometri di strada tra i campi, ma ne valeva la pena. I prezzi erano i più bassi di tutta la città. Risparmiando sulle spese di tutti i giorni, riusciva a vestire con gusto e a mettere da parte un gruzzoletto che le avrebbe potuto far comodo in momenti difficili.

Accese i fari e, dopo aver fatto la gimcana tra le ultime auto ferme al grande parcheggio, imboccò la strada che l'avrebbe riportata a casa.

Quella sera aveva deciso di andare a dormire presto. L'indomani aveva un colloquio per un lavoro di contabile in una grossa azienda manifatturiera della zona.

Mentre guidava, ripassò mentalmente le cose che avrebbe dovuto fare prima di andare a letto e, soprattutto, quello che avrebbe fatto l'indomani mattina.

Mentre scorreva mentalmente il proprio guardaroba, per scegliere l’abbigliamento più adatto alla circostanza, il motore della R4 cominciò a tossire.

- No! Proprio adesso no! Ti prego, non ti fermare proprio adesso! Arriviamo in città. Se ti fermi qui, qui rimaniamo!

Il buon senso ci insegna che, parlare ad un insieme di congegni, cilindri e candele, non sempre dà i risultati sperati. Anche quella volta il buon senso ebbe ragione. Dopo qualche metro l'auto si fermò del tutto. L'indicatore del carburante era sotto lo zero. Semplicemente era finita la benzina.

Non era la prima volta che le capitava, e non sarebbe stata l'ultima. Ogni volta, però, era capitato dove facevano a gara per darle una mano. Adesso, invece, era sola, su una strada illuminata soltanto dalla luna che, pigramente, mostrava il suo quarto in crescita. Sola, in mezzo alla campagna.

- Merda! Come faccio adesso? Qui non passa un cane. E se pure passa qualcuno, nella migliore delle ipotesi, mi scambia per una puttana e va oltre.

Provò a rimettere in moto. Ma, oltre a qualche sussulto che la fece sperare, ottenne solo di scaricare quasi del tutto la batteria.

Un'auto di grossa cilindrata passò oltre a velocità sostenuta e, in breve, i fanalini di coda scomparvero dietro la curva che seguiva.

Se non voleva passare la notte in macchina, doveva pensare a qualcosa, e doveva farlo subito. Avrebbe cercato di fermare qualcuno. Era l'unica soluzione. Perché non aveva ascoltato Giorgio, quando le aveva detto di comprarsi un telefonino cellulare?

- Sei una ragazza che vive da sola; viaggi da sola. Può capitare che abbia bisogno di me e non hai la possibilità di rintracciarmi.

Allora non lo prese sul serio. Anzi lo accusò di essere un arrivista, uno di quelli che giudica, e vuole essere giudicato, per come appare e non per quello che è. Quanto aveva ragione! Giorgio aveva sempre ragione. Questo la irritava! Forse era stata la ragione principale del loro allontanamento. Era troppo preciso, educato, lineare nei suoi ragionamenti. Era quello che si dice un bravo ragazzo, l'ideale per un buon matrimonio. Ma Francesca non cercava un marito. Almeno non lo cercava ancora.

Scese dall'auto. Si strinse nelle spalle. Se fosse rimasta in macchina, non avrebbe fatto in tempo a uscire per cercare di farsi notare e fermare qualche automobilista di buon cuore.

Vide i fasci di luce dei fari di un'auto che procedeva verso la città. Appena fu a tiro agitò le braccia. Tutto quello che ottenne fu un dito medio alzato e una nuvola di polvere che la investì in pieno.

Le veniva da piangere. Forse era il caso di avviarsi a piedi. Tutto sommato mancavano circa quattro chilometri al centro abitato. Ma erano quattro chilometri al buio e da sola! Ora stava piangendo. Sentì una lacrima calda scivolarle lungo la guancia e fermarsi all'angolo della bocca. Come poteva uscire da quella situazione? Diede un calcio allo sportello, procurando l'ennesima ammaccatura. Cominciò a passeggiare avanti e dietro, prendendo a calci tutto ciò che le veniva a tiro: pietre, vecchie lattine, la stessa sabbia. Imprecava contro se stessa per aver dimenticato di fare rifornimento e contro l'auto, che accusava di bere troppa benzina.

Sentì un rumore alle sue spalle. Le si gelò il sangue nelle vene. Si girò di scatto. Dietro di lei, solo un giovane platano e tanti cespugli di rovi. Sicuramente qualche bestiola che tornava di corsa alla sua tana. Se non era una bestiola? Se c'era qualcuno dietro i cespugli? Il poco di luna che stazionava nel cielo, illuminava sinistramente il bosco che si stendeva oltre la siepe selvatica, a qualche centinaio di metri.

Decise di rientrare in auto, sarebbe uscita all'apparizione di fari in lontananza, e, se non ce l'avesse fatta in tempo... pazienza. Era sempre meglio chiudersi in macchina, che rimanere lì in balia di qualche matto.

Si avviò verso l'auto, ma non fece in tempo a raggiungerla.

Si sentì afferrare alla vita da qualcosa di duro e allo stesso tempo flessuoso. Sembrava un tentacolo, forse una frusta. Portò istintivamente le mani verso la cosa e si voltò per vedere chi cercava di impedirle di entrare in auto. Si sentì mancare.

Il tentacolo che le avvolgeva la vita, era un ramo del giovane platano, che le si era attorcigliato attorno e ora la trascinava verso l'albero.

Cercò di liberarsi in preda al terrore. Cominciò a urlare, anche se si rendeva conto che nessuno avrebbe potuto sentire i suoi strilli.

La morsa era troppo forte, veniva attratta inesorabilmente dalla pianta.

Un altro ramo si sporse verso di lei, le si infilò tra le gambe e, risalendo la schiena, le si serrò attorno al collo. Non stringeva, non voleva ucciderla, ma le era assolutamente impossibile muoversi.

Ben presto fu a contatto con il tronco. La pancia graffiata dalla ruvida corteccia e il viso incollato alle sue nodosità. Ne sentiva l'odore aspro e pungente.

Un terzo ramo cominciò a risalire lungo le gambe, questa volta con delicatezza, quasi ad accarezzarla. Arrivò alle cosce e continuò a salire, fino ad insinuarsi nelle mutandine che strappò di colpo. Sentì il fresco dell'aria sulle natiche nude.

Era terrorizzata. Cercava di liberarsi, ma otteneva di avvinghiarsi sempre più all'albero.

Un quarto ramo si insinuò tra la sua pancia e il tronco e, strappata la maglietta, mise a nudo i seni che, strofinati sulla corteccia, cominciarono a sanguinare.

L'albero la stava palpando in tutti i punti più segreti del suo corpo, insinuandosi con i propri rami, negli angoli più nascosti. Le era rimasta solo la gonna che, per le sue dimensioni e per il fatto che si era arrotolata al primo ramo, era come non averla.

Francesca urlava, piangeva, si dibatteva, ma otteneva solo di ferirsi maggiormente.

A un tratto avvertì qualcosa crescere in mezzo alle gambe, qualcosa di caldo e liscio. Qualcosa che le si insinuò tra le cosce e la penetrò. Avvertì un gran dolore e questo qualcosa crescere a dismisura, poi sciogliersi in un liquido denso e caldo che la inondò.

Svenne.

Quando riaprì gli occhi, si ritrovò distesa, in una stanza in penombra. Aveva la bocca secca. Un sapore amaro in gola. La testa le batteva e faticava a tenere gli occhi aperti. Seduta in un angolo della stanza, una donna in divisa leggeva una rivista.

Un lenzuolo la copriva fino al mento. Sotto doveva essere nuda; sentiva il contatto della stoffa sulla pelle. Provò a muoversi e si rese conto di avere un ago infilato nel braccio. Ebbe la conferma dal contenitore di soluzione fisiologica sospeso, il cui tubicino si perdeva sotto al lenzuolo.

Cercò di parlare, ma ne uscì solo un lamento.

La donna in divisa si girò verso di lei, posò la rivista ed uscì dalla stanza. Rientrò subito dopo, seguita da un'infermiera e da un'altra donna vestita in borghese.

L'infermiera le si avvicinò sulla sinistra; sollevò leggermente il lenzuolo, per controllare l'ago. Regolò la farfalla del flusso e le sentì il polso. La donna in borghese rimase sulla porta e aspettò che l'infermiera uscisse prima di avvicinarsi. Prese l'unica sedia della stanza e l'avvicinò al letto su cui era distesa Francesca. Fece un cenno all'agente che uscì richiudendosi la porta alle spalle. Si sedette e le sorrise.

Era molto bella, bruna e occhi nerissimi. Aveva un sorriso rassicurante. Si presentò.

- Sono Daniela Monetta, e sono un'ispettrice di polizia. Posso darti del tu?

Senza aspettare la risposta, proseguì.

- Siamo in ospedale. Sei stata portata qui, dopo che un'automobilista ti ha ritrovata svenuta sulla strada che porta alla zona industriale. So che te la sei vista brutta! Un medico ti ha visitata. Io sono qui per ascoltarti... se ne hai voglia. Altrimenti ti faccio riposare ancora un po', e quando ti senti meglio ne riparliamo.

- Cos'è successo?

- Questo, dovresti dirmelo tu. L'hai visto in faccia? Lo conosci? E' successo contro la tua volontà?

- Che cosa?

- Francesca, sei stata violentata! E i segni che hai su tutto il corpo, non fanno certo pensare che la cosa ti abbia divertito. Se ci dai una mano, lo prendiamo quel bastardo...

- Non sono stata violentata da nessuno.

- Vuoi dire che hai fatto l'amore con il tuo ragazzo e che lui per farti divertire, ti ha ridotto il corpo a una grattugia e che poi, giacché aveva un appuntamento urgente, ti ha lasciata a riposare, nuda, coperta di sangue e di lividi, per terra, di notte.

- Non ho fatto l'amore con nessuno!

- Ma lo vuoi capire che se ti tiri indietro, quel farabutto farà la festa ad altre ragazze? Se non sporgi denuncia, noi non possiamo procedere, e quello stronzo la passerà liscia!

- Nessuno mi ha violentato.

- Ti prometto che non faremo chiasso intorno alla cosa. Terremo lontani i giornali. Francesca, se non ci ribelliamo, uomini come questo continueranno a fare i loro sporchi comodi. E noi donne dovremo sempre subire.

- Io non ...

- Il referto medico ha accertato che c'è stato un rapporto completo e, dalle escoriazioni riscontrate, non è certo stato un rapporto d'amore.

- Signora, io le ripeto che nessuno mi ha violentato e non intendo sporgere alcuna denuncia.

- Ok! Ok! Adesso riposa, ne riparliamo quando ti sentirai meglio. Io torno questa sera. Comunque, se vuoi parlarmi prima, rivolgiti all'agente che resta qui fuori. Io sarò da te in un batter d'occhio. Francesca, pensaci bene! Non ti farà tornare indietro, ma farà in modo che altre ragazze non passino la tua brutta avventura. Nel frattempo vuoi che avverta qualcuno? I tuoi genitori, il tuo ragazzo, un’amica...

- No! No, nessuno! Grazie, nessuno!

Le sorrise e uscì, richiudendosi la porta alle spalle.

La stanza ripiombò nel silenzio, da fuori arrivavano voci ovattate di infermiere, medici, visitatori che portavano i soliti dolciumi a parenti che non ne avrebbero mai assaggiati.

Nessuno le avrebbe mai creduto. Non ci credeva neanche lei, e, a pensarci bene, non era neanche sicura che le fosse successo veramente. Era tutto così assurdo, ma tutto così vero. Sentiva ancora sulla pelle la stretta dolorosa dei rami che la trascinavano verso l'albero.

Avrebbe dimenticato. Non era successo nulla. Nessuno le avrebbe fatto del male. Non era successo nulla!

Chiamò l'infermiera e chiese di andare in bagno.

La giovane donna le tolse l'ago dal braccio, sollevò il lenzuolo e l'aiutò ad alzarsi. Sotto era effettivamente nuda. Indossò un camice che le era stato portato apposta. Le girava la testa, ma riusciva a stare in piedi e a camminare da sola. Entrò in bagno e richiuse la porta dietro di sé. Si fermò davanti allo specchio. Il volto era rigato da graffi ed escoriazioni. Aprì il camice e le si presentò uno spettacolo raccapricciante. I seni erano ricoperti di croste di sangue raggrumato, la pancia e la vita presentavano escoriazioni profonde. Completava lo spettacolo la tintura di iodio che le ricopriva praticamente tutto il corpo.

Si prese il volto tra le mani e pianse. Fu breve; si ricompose. Fece quello per cui era entrata nel bagno, tirò lo sciacquone ed uscì.

L'infermiera era vicino al letto.

- Signorina ha bisogno di qualcosa?

- No, grazie! Quando potrò tornare a casa?

- Questo lo dirà il medico. Comunque le sue ferite sono tutte superficiali, per cui credo che domani potrà già essere dimessa. Tenga presente però, che ci vorrà del tempo perché le scompaiano quei brutti segni che ha sul corpo.

- Quando posso parlare col medico?

- Tra circa un'ora ha il suo giro. Verrà da lei. Io vado. Se ha bisogno di me, chiami col pulsante che è vicino al suo letto. Buongiorno.

Il medico passò puntuale e le confermò che l'indomani sarebbe ritornata a casa.

L'ispettrice si ripresentò la sera, ma non riuscì a farle sporgere denuncia, né ad avere una descrizione del violentatore. Del resto non era certo facile descrivere un albero.

Il giorno dopo Francesca rientrò nel suo appartamentino. Due stanze, cucina e bagno. Ai vicini disse di aver avuto un incidente con l'auto e, a parte i primi giorni, in cui tutti si preoccupavano di chiederle come stava, ben presto la cosa fu dimenticata. Da tutti, ma non da lei.

Non dormiva più. La notte, quelle poche volte che riusciva a chiudere gli occhi, si svegliava urlando. Aveva sempre davanti l'albero con i suoi rami, simili a tentacoli, che la ghermiva e la stuprava.

Dopo una settimana rientrò al lavoro. Anche in ufficio, la versione ufficiale era incidente d'auto. L'ispettrice aveva mantenuto la sua parola; non aveva fatto trapelare nulla. L'aveva già telefonata due volte, per incontrarla. Francesca aveva sempre rifiutato. Non aveva rivelato a nessuno il suo segreto.

Tutti in ufficio avevano attenzioni particolari per lei. Anche Filippo, un medico che da tempo le faceva una corte spietata.. Lui aveva più attenzioni degli altri. Una sera capitò che dovesse far tardi e la sua macchina era di nuovo dal meccanico. Filippo si offrì di darle un passaggio e lei accettò.

Durante il tragitto fu gentilissimo e comprensivo. Francesca aveva bisogno di non pensare. Arrivati sotto casa, si lasciò convincere a farsi accompagnare fin nell'appartamento.

- Abiti in una casa molto carina. Piccola, ma calda, accogliente.

- Non ho trovato di meglio. E' quello che mi posso permettere.

- Rispecchia la tua personalità. Hai saputo renderla piacevole, complimenti.

- Grazie! Vuoi mangiare un hamburger con me?

- Volentieri!

Cenarono insieme; poi fecero all'amore. Aveva bisogno di sapere se era ancora capace di andare a letto con un essere umano. Doveva dimenticare la sua avventura.

- E' stato bellissimo! - le mentì quando la salutò sulla porta con un bacio. Lei sorrise e gli chiuse la porta alle spalle. .

Francesca era rimasta gelida, con i begli occhioni fissi al soffitto. Mentre Filippo stendeva le sue mani su di lei, sentiva i rami attorno alla vita, sui seni. Sentiva graffiarsi le cosce e le natiche. Quando lui la penetrò sentì lo stesso dolore e per poco non svenne.

La consapevolezza del fallimento fu la classica ciliegina sulla torta. Non che gliene importasse nulla di Filippo, o di come lui potesse considerarla. Ma aveva avuto la conferma che qualcosa in lei era cambiata, qualcosa che non sarebbe mai più tornata come prima.

Quella fu l'ultima volta che Filippo toccò Francesca, se ne guardò bene. Rimase molto gentile, ma a debita distanza.

Passarono ancora due settimane. Un evento indesiderato le si parò davanti, come una martellata in piena fronte. Il suo appuntamento mensile subiva un consistente ritardo. Il rischio di essere rimasta incinta era quanto mai reale.

Un figlio da Filippo? Un senso di panico si aggiunse al suo stato già profondamente provato. Si trovava di fronte alla scelta di liberarsi dello scomodo fardello, o di dover affrontare una gravidanza, con tutte le conseguenze che essa comportava, non ultima quella di dover dividere la sua vita con un altro esserino, che l'avrebbe certamente impegnata a tempo pieno nel prossimo futuro. La seconda ipotesi in fondo non le dispiaceva. Lui non avrebbe mai saputo che era suo figlio. Ma lei avrebbe avuto uno scopo, qualcuno che l'avrebbe aiutata a dimenticare.

Passati i primi momenti di sbandamento, si abituò sempre più all'idea, e quando le analisi glielo confermarono, ne fu felice. Aveva fatto la sua scelta. Ai genitori avrebbe trovato il modo di dirlo.

I primi cinque mesi di gravidanza passarono abbastanza bene. A parte le nausee e i malori che normalmente avvertiva. Passava interi pomeriggi a leggere riviste specializzate e libri sulla gestazione o sulla crescita dei bambini. Aveva visitato tutti i negozi di articoli per l'infanzia e per le mamme in attesa. Aveva realizzato un discreto corredino e si preparava ad accogliere il piccolo ospite nel migliore dei modi.

Filippo non seppe mai che Francesca aspettava un figlio suo. E lei aveva quasi dimenticato la sua avventura, non era più neanche certa che le fosse davvero successo. Sembrava che la vita tornasse a sorriderle.

Fino a quel 12 gennaio.

Era distesa sul letto a guardare la TV, il solito quiz demenziale. Sentì per la prima volta muoversi qualcosa nella sua pancia, che da qualche settimana era cresciuta in modo più evidente.

Sui libri e sulle riviste aveva letto che intorno al quinto mese si avvertono i primi movimenti del feto, e quindi era del tutto normale che li avvertisse. Ma un conto era leggerlo e un conto sentirli dentro di lei.

Qualcosa le si muoveva dentro. Qualcosa che non aveva niente a che fare col proprio corpo. Un estraneo, un essere che aveva una vita propria. Qualcosa che era entrata in lei e stava crescendo. Qualcosa che un essere umano le aveva depositato dentro e che ora si muoveva.

Qualcosa che un essere umano o... un albero aveva depositato dentro di lei.

Per la prima volta il pensiero che potesse essere incinta dell'albero le affiorò alla mente. Perché non ci aveva pensato prima? Perché non si era liberata di quella cosa quando era ancora in tempo? Il bambino che aveva imparato ad amare fin dal primo momento che era in lei, era diventato una cosa. Di colpo, l'essere che lei sentiva parte di sé, era diventato un corpo estraneo. Come poteva essere incinta di un albero? Cosa avrebbe partorito? Una pianta? Un bambino con i fiori al posto delle mani e le radici al posto dei piedi?

Si alzò dal letto e corse in bagno. Si spogliò e si mise davanti allo specchio. La sua pancia era normale, leggermente gonfiata, ma normale.

Tutta la fatica che aveva fatto in quei cinque mesi per dimenticare, era stata annullata da un semplice movimento del feto.

Tornò a letto senza rivestirsi, incurante del freddo che in pieno gennaio penetrava anche in casa. Restò tutta la notte in attesa di un altro movimento, con gli occhi fissi sulla pancia, quasi avesse potuto vedere attraverso.

La mattina dopo telefonò in ufficio e avvertì che non sarebbe andata al lavoro. Subito dopo telefonò al suo ginecologo e prenotò una visita con ecografia. Doveva sapere cosa aveva nella pancia. L'appuntamento le fu fissato per il pomeriggio stesso.

Passò le ore che la separavano dalla visita girovagando per le strade della città. Camminava senza una meta precisa. Immaginava dentro di sé le creature più mostruose che la mente potesse partorire. Finalmente arrivò il momento dell'ecografia. Il medico l'accolse con la solita dolcezza e la solita gentilezza. Dopo le abluzioni di rito, la invitò a stendersi sull'odioso lettino e la visitò accuratamente.

- Tutto in perfetto ordine, signora. La gravidanza procede in maniera eccellente.

- E' sano dottore? E' normale?

- E' un po' presto per dirlo, ma certamente ci sono tutti i presupposti perché lo sia. Se si vuole accomodare su quest'altro lettino, procediamo con l'ecografia.

Francesca si stese. Un'infermiera le spalmò del gel freddissimo sulla pancia. Il medico cominciò a farle scorrere sopra il terminale della macchina e si videro delle immagini confuse muoversi sul video. Per lei erano incomprensibili, ma lui sembrava capire tutto, e ogni tanto le indicava un organo o l'altro del suo corpo o di quello del bambino. Alla fine le consegnò una videocassetta facendole i complimenti.

- Tutto a posto, stia tranquilla. Lei avrà un bel bambino.

Tornò a casa stordita e confusa. Non si fidava di nessuno. Come poteva stare tranquilla! Cosa sapeva lui di quello che le era successo? Chissà quanti esami faceva ogni giorno. Ormai era routine. Dava tutto per scontato. Vedeva quattro macchie verdastre su un monitor e tutto era a posto! Probabilmente, se avesse saputo la sua storia, avrebbe fatto ricerche più accurate. Ma non poteva saperlo. Nessuno doveva sapere di quella maledetta sera.

Appena entrata in casa, corse a inserire la videocassetta nel lettore e sedette davanti al televisore, senza neanche togliersi la giacca a vento che aveva indossato per uscire. Sul video cominciarono a susseguirsi le stesse immagini che aveva già visto allo studio del ginecologo.

Passò tutta la notte davanti a quelle immagini. Vide e rivide la cassetta un centinaio di volte. E ogni volta era certa di aver riconosciuto un particolare che facesse pensare ad un essere vegetale nella sua pancia. La mattina dopo aveva gli occhi gonfi, un atroce mal di testa e la convinzione che stava facendo crescere dentro di lei una pianta o qualcosa che avesse i caratteri dell'uomo e dei vegetali: un mostro.

Il bambino che aveva imparato ad amare in quei mesi, le era diventato improvvisamente estraneo e ne aveva paura.

I giorni che seguirono furono caratterizzati dalla crescita della pancia e con essa del terrore e dell'odio verso l'essere che essa conteneva. Si sentiva in trappola, senza via d'uscita. Era in un vicolo cieco, davanti a lei un muro e dietro, il destino che incombeva. Passava giornate intere immobile, a guardare nel nulla. Non riusciva a organizzare la propria mente; non riusciva a concentrarsi per trovare una soluzione a quello stato di cose. Forse, non vi erano soluzioni.

Questo stato d'animo si ripercosse sulla vita di tutti i giorni. Cominciò a mancare sempre più spesso al lavoro. Finché decise di licenziarsi. I soldi che aveva da parte le sarebbero bastati al più per un paio d'anni. La cosa non la riguardava. Stava buttando alle ortiche tutti i suoi sogni e le sue aspirazioni. Il suo unico problema era la cosa che portava in grembo.

Usciva da casa sempre meno; si allontanava di qualche isolato al massimo. Poi finì anche questo. Si chiuse definitivamente nel suo appartamento. Quel poco che consumava lo faceva portare a domicilio, evitando accuratamente di comprare qualsiasi cosa avesse a che fare col mondo vegetale. Aveva bandito dalla sua tavola tutto ciò che avesse a che fare con la verdura. Non usava prodotti cosmetici con componenti vegetali. Non usava più prodotti cosmetici! Evitava detergenti che non fossero rigorosamente risultato di sintesi chimica.

I movimenti nella sua pancia aumentavano. Ogni volta che si stendeva, la cosa che era dentro di lei si assestava e compiva movimenti netti e molto evidenti. A volte vedeva spigolosità ergersi sotto la sua pancia e percorrerla per brevi tratti. La consapevolezza che qualcosa di vivo si stava sviluppando in lei, la sconvolgeva. La sensazione che un essere vivesse la propria vita nel suo ventre, era tremenda. Le tornavano a mente vecchi film horror, nei quali si vedevano creature mostruose strisciare sotto la pelle di esseri umani, oppure esplodere da ventri squarciati. A questi pensieri, puntualmente, correva in bagno o in cucina, e vomitava il poco cibo che stazionava nel suo stomaco.

Era ormai al settimo mese. Il ventre liscio e gonfio le impediva di vestire al solito modo e passava intere giornate nella sua camicia da notte. Il suo aspetto non aveva più importanza. La sua bellezza era ormai sfiorita, scomparsa, lasciando il posto alla maschera di stanchezza e di rassegnazione. Aveva ormai perso del tutto il senso della sopravvivenza. Mangiava poco, perché non voleva nutrirsi e non voleva nutrire il suo ospite. In compenso beveva e fumava troppo. Non si muoveva quasi più, se si escludevano i brevi tratti dal suo letto al bagno o alla cucina, le poche volte che metteva qualcosa sotto i denti. Si lavava il minimo indispensabile e aveva da tempo trascurato la sua figura. I bellissimi capelli biondi si aggrovigliavano ormai in ciocche pendenti, i suoi profondi occhi azzurri erano cerchiati da occhiaie che rispecchiavano le notti passate in bianco, il poco movimento l'aveva fatta ingrassare molto più di quanto la gravidanza necessitasse. Il suo sguardo perso nel vuoto testimoniava la totale perdita di interesse per la vita e per quello che potesse riservarle. Si trascinava per casa sempre con una sigaretta tra le labbra e spesso era ubriaca, distesa sul suo letto a due piazze, che non rifaceva da mesi, a seguire punti immaginari che si inseguivano sul soffitto. Il lavandino in cucina traboccava di stoviglie sporche che ormai aveva rinunciato a lavare, limitandosi a farlo per quelle poche che le servivano a consumare il suo misero pasto.

Le poche volte che riusciva a chiudere occhio aveva incubi terribili. Una notte sognò di fare il bagno. Mentre era distesa nella vasca, vide uscire dalla sua vagina radici che velocemente crescevano e si ramificavano, fino ad avvolgerle le cosce e le gambe. Cercava di liberarsene, di strapparle, ma ad ogni strappo si generavano altre punte, più numerose, che rapidamente le si abbarbicavano contro. Si svegliò in un bagno di sudore, con gli occhi sbarrati. Si spogliò e si esaminò con uno specchietto. Tutto normale, nessuna traccia di radici.

L'esame ecografico aveva confermato il sesso del nascituro. Un maschio! Come l'avrebbe chiamato? Fiore...?

Da tempo non comunicava più con nessuno e il suo unico interesse erano le piante, sulle quali aveva comprato libri e riviste che ricoprivano ogni spazio utilizzabile.

Gli incubi non si limitavano più ad assalirla di notte, ne era vittima ogni qual volta chiudeva gli occhi distrutta dalla stanchezza. Ultimamente era in preda alle allucinazioni anche ad occhi aperti.

Radici appuntite le bucavano la pancia e crescevano rapidamente invadendole tutto il corpo, mentre rami nodosi le forzavano gli orifizi e fuoriuscivano fogliando velocemente. Altre volte vedeva le proprie braccia e le proprie gambe tramutarsi in rami di una non meglio identificata pianta e le proprie dita germogliare e riempirsi di foglie.

L'angoscia si era totalmente impossessata di Francesca. Vivere non aveva più senso. Più volte aveva provato a mettere fine alle sue sofferenze, ma quando arrivava il momento, non aveva il coraggio di proseguire. Aveva anche tentato di sopprimere la creatura che cresceva in lei. Si era immersa nella vasca piena di acqua bollente, poi si era fatta investire dal getto d'acqua fredda della doccia. Addirittura si era percossa la pancia, ma puntualmente l'attività riprendeva, sempre più insistente, sempre più netta. Immaginava grovigli di radici che cercavano il modo di uscire e le gonfiavano le pareti del ventre, rivelando spigoli in movimento.

A tutto questo, si aggiungeva il peso e il senso di pienezza che la gravidanza le portava. Trascinava il suo fardello ondeggiando goffamente. Avvertiva la fastidiosa presenza anche quando era distesa sul letto, sul quale riusciva a stare soltanto supina.

Arrivò il giorno che, oltre al senso di pienezza, al peso insopportabile, suonò un campanello d'allarme nel profondo di se stessa. Non era un dolore vero e proprio, ma lo avvertiva a cadenze regolari. Era arrivato il momento. Fu presa dal panico. Il terrore le bloccava gli arti e le impediva di pensare. Il fastidio era diventato dolore, e gli intervalli tra una fitta e l'altra erano sempre più brevi. Sedette per terra, con la schiena appoggiata al letto. Le gambe divaricate con la camicia da notte tesa tra l'una e l'altra, e le mani sulla pancia. Sudava. Stringeva i denti e sudava. Non riusciva a muoversi. L'unico pensiero era sulla creatura che stava per uscire dal suo grembo.

Il garzone del macellaio, che da tempo aveva avuto in affidamento le chiavi dell'appartamento, come tutti i fornitori del resto, la trovò così.

Fu chiamata un'ambulanza che l'accompagnò velocemente al più vicino ospedale.

Il medico che la visitò la fece portare d'urgenza in sala parto, di lì a poco sarebbe nata la creatura. Francesca era terrorizzata. All'incognita di cosa avrebbe partorito, si aggiungeva la naturale paura del parto. I dolori ormai non avevano soluzione di continuità. Sentiva fitte acute, come se una spada le stesse facendo a pezzi l'utero.

Le infilarono un ago nel braccio, dopo averla fatta stendere su un lettino con le rotelle. Si lamentava. Un'infermiera le prese una mano e lei le ficcò le unghie nella carne. Si agitava. Cominciò a muoversi nervosamente. Inutili le raccomandazioni a rilassarsi, a stare tranquilla. Le fecero un'iniezione che in qualche modo la calmò. Entrarono in ascensore.

Il calmante le aveva offuscato la mente e gli occhi non le restituivano la realtà. Distesa sulla barella, le sembrava che il soffitto dell'ascensore fosse lontano decine di metri. Aveva la sensazione di precipitare in un pozzo del quale non si vedeva il fondo. Le mancava l'aria. Tutto le girava intorno. Sentiva il pulsare del sangue nelle vene in perfetta sincronia con i dolori all'utero. Percepiva perfettamente il gonfiarsi delle arterie al passaggio del liquido vitale e desiderava, nel più profondo di se stessa, che esplodessero. L'infermiera le aveva ripreso la mano. Questa volta non le conficcò le unghie, non ne aveva la forza.

Finalmente l'ascensore si fermò, rallentando, e le porte si aprirono. Attraversò diversi corridoi, dei quali vedeva soltanto i soffitti. Arrivarono in sala parto. Un medico con alcuni assistenti e infermieri era già pronto ad aspettarla.

Da qualche parte, in una sala attigua, una donna si lamentava. Fu sistemata sul lettino ginecologico, fu accesa la lampada che la costrinse a stringere le palpebre. Voleva chiudere gli occhi, addormentarsi. Aveva voglia di mollare tutto, lasciarsi andare... morire. Il dolore era insopportabile, non riusciva più a trattenersi dal lamentarsi.

Facce coperte da mascherine e cuffiette, la circondavano. Una di queste l'accarezzava sulla testa. Una voce le diceva di rilassarsi e di spingere. Qualcuno armeggiava nei pressi delle sue parti più nascoste. Un lenzuolo azzurro le copriva la visuale. Udiva, in lontananza, rumore di ferri e voci concitate dare ordini.

Si sentiva squarciare dentro, come se qualcosa volesse esploderle nella pancia. Urlava. Aveva un tampone di garza serrato tra i denti. Ogni volta che chiudeva gli occhi, sentiva i rami sulla sua pelle, il tronco che le graffiava la pancia. Rivisse la penetrazione dolorosa di tanti mesi prima. Le immagini le si accavallavano nella mente. Si agitava.

Le voci venivano da lontano. Rivide l'albero che la ghermiva, aveva la testa di Filippo che ghignava. Poi rivide Giorgio, il suo primo amore, che la accarezzava con dita piene di foglie e di fiori.

Qualcuno aveva cominciato a spingere sulla sua pancia.

Le braccia di Giorgio erano rami, rami che la circondavano e la stringevano.

Il medico adesso urlava di spingere.

Si muoveva convulsamente. Urlava, si agitava. Il dolore copriva ogni suo pensiero, ogni sua intenzione.

Spinse con le ultime forze che le erano rimaste. Si sentì lacerare, diede un urlo acuto, ripiantò le unghie nella carne dell'infermiera e sentì qualcosa che scivolava fuori. Un sollievo. Di colpo era tutto finito. Era dolorante per tutto il corpo, ma era sopportabile.

Lo vide al disopra del lenzuolo. Aveva ancora il cordone ombelicale attaccato. Una creaturina a testa in giù. Qualcuno gli diede una pacca sul sederino ed emise un urlo. Tutti i presenti applaudirono. Glielo adagiarono sulla pancia nuda.

Ebbe un senso di repulsione. Il bambino piangeva. Non riusciva a guardarlo, voltò la faccia dall'altra parte. Fu portato via e Francesca cadde in un sonno profondo, senza sogni.

I giorni in ospedale passarono velocemente e abbastanza tranquilli. La maggior parte del tempo dormiva sonni finalmente liberi da incubi. Non aveva più niente dentro la pancia. La sua repulsione verso il bambino, e il suo rifiuto psicologico di accettarlo, avevano fatto sì che non producesse latte. Marco, così tutti avevano deciso di chiamarlo e lei aveva accettato passivamente, fu allattato artificialmente.

Finalmente tornò a casa. E qui ricominciarono i problemi. Erano soli. Lei e Marco.

La prima cosa che fece appena chiuso l'uscio, fu di portare il bambino in camera da letto, spogliarlo e controllare ogni centimetro del suo corpo. Ovviamente era già stato esaminato in ospedale e le avevano detto che era perfetto, sano in ogni sua parte. Un bellissimo e sanissimo bambino. Ma loro non sapevano!

Era alla ricerca di un qualsiasi indizio, una qualsiasi traccia che facesse risalire alla sua vera origine! Gli esaminò le mani, i piedi, le gambe. Era così piccolo e fragile, che aveva la sensazione di romperlo se avesse sbagliato qualche movimento.

Ovviamente trovò quello che si era imposta di trovare.

Ogni grinza, ogni piega del piccino, ogni sfumatura della sua pelle, era attribuita alla paternità vegetale. Alla fine giunse alla conclusione che Marco fosse proprio il figlio dello stupro.

Non poteva sopprimerlo. Era contro ogni sua convinzione morale e, in fondo, era anche suo figlio. Ma non avrebbe abbassato la guardia. Passava intere nottate a spiare ogni movimento del bambino, ogni suo atteggiamento e, quotidianamente, gli controllava ogni centimetro del corpo. Dimenticava spesso di cambiargli i pannolini e addirittura di nutrirlo. Non parliamo poi di lavarlo. Ma era assolutamente puntuale nelle sue ispezioni.

Ripresero gli incubi. I più ricorrenti, le mostravano Marco che si gonfiava e si spaccava in due e, dal suo ventre squarciato, tra fiotti di sangue e brandelli di intestino, usciva una pianta che, come al solito, cresceva velocemente fino a ghermirla.

Passarono così sei mesi, durante i quali il piccolo Marco, nonostante le dimenticanze e le trascuratezze della madre, crebbe. Il colore degli occhi si stabilizzò sul verde. I capelli sottili e appena accennati, erano di un biondo luminoso. Alle zampette di gallina, tipiche dei neonati, si erano sostituite due gambette paffutelle e, dal suo sorriso innocente, spuntavano già i primi dentini.

Di contro Francesca era dimagrita oltre modo. Alla bella ragazza di qualche tempo prima, che faceva girare più di una testa al suo passaggio, si era sostituita una donna abbruttita dalla trascuratezza, inebetita dai troppi vizi e dalle malattie che spesso la colpivano.

Dimostrava almeno 10 anni in più della sua vera età. Fumava 50 sigarette al giorno e, ormai, la sua unica bevanda era l'alcool, di cui abusava quotidianamente. Non aveva più voglia di controllare il bambino. Del resto non gliene importava più niente. Su di lui scaricava la sua rabbia quando era ubriaca. Praticamente, sempre. Lo picchiava ad ogni piccolo accenno di pianto. Lo costringeva ad inutili digiuni. Spesso lo lasciava solo in casa per uscire, andare a bere in qualche bettola e finire la serata nel letto o nell'auto di qualche sconosciuto. Da tempo aveva finito i soldi e, senza lavoro, campava di quel poco che riusciva a rimediare dai suoi incontri occasionali. Scacciata di casa per morosità, viveva in un monolocale a livello strada. La casa, o meglio quel che rimaneva di essa, era in totale abbandono. Sporcizia dovunque, disordine.

Marco cresceva a dispetto dell'assoluto abbandono da parte della madre. Francesca aveva ormai rinunciato alla vita. Aveva dimenticato il suo stupro, ma aveva dimenticato anche i suoi sogni, le sue aspirazioni.

Il poco cibo che riusciva a rimediare, bastava appena a sfamare lei.

Non fece caso al fatto che Marco riuscisse a vivere e a crescere bevendo soltanto acqua. Non fece caso al fatto che il bambino, che aveva ormai tre anni, non profferisse parola alcuna. Non fece caso al fatto che la stanzetta in cui vivevano, brulicasse di piante. Non fece caso alle squame che cominciarono a formarsi sulla pelle del piccolo e ai porri che si formarono sulle dita delle mani e dei piedi. Non si accorse neanche del germogliare di questi porri. Non si rese conto di cosa stesse accadendo quando, con la solita bottiglia in mano, distesa sul letto, si sentì ghermire da tentacoli legnosi che la avvolgevano e la stringevano.

L'ultima cosa che vide, prima che le scoppiasse il cuore, fu il volto sorridente di suo figlio che si confondeva col tronco di una pianta. Forse era un platano.

Nessuno si accorse di quell'ombra che, approfittando dell'oscurità, strisciava verso la campagna.

Nessuno vide quell'ombra fermarsi sul ciglio di una strada e immobilizzarsi distendendo i suoi rami carichi di foglie.

Nessuno, nei giorni che seguirono, notò quel giovane arbusto che ora mostrava orgoglioso la propria vegetazione.

Nessuno! Tranne Cristina che ebbe la sfortuna di fermarsi con l'auto proprio davanti a lui...




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