VIAGGIO ALL’ INFERNO.

di Loki

Credo, ma soprattutto spero, che, dopo aver abbandonato la casa tutto sia finito, perciò mi accingo a raccontare quello che ho visto, o che ho creduto di vedere, nel mio breve soggiorno alla casa di Cervinara. Non obbligo nessuno a credermi, d’altronde, come io stesso ho detto, non posso essere sicuro di ciò che mi è accaduto, potrei aver sognato, dato che fui ritrovato steso a terra con un segno di una botta sulla fronte, ma quando guardo la bruciatura nel palmo della mia mano destra mi convinco che quella notte qualcosa sia veramente successo e non solo per la bruciatura; la stanchezza che avevo alle gambe, come se avessi camminato nella melma per ore e ore e soprattutto il ricordo che ho di quel luogo, fisso e limpido nella mia mente e che mai sparirà da essa, come mai un cadavere inumato nel cemento armato si staccherà da esso.

Prima di iniziare a narrare la mia curiosa e insolita storia però, permettete che io mi presenti: mi chiamo Angelo Mancino, sono nativo di Napoli e nel corso della mia esistenza non ne ho mai voluto sapere di mettere la testa a posto. Sia nello

studio che nel lavoro non sono mai stato molto bravo e, quando mio padre decise di osservare le radici dei cipressi, anziché i loro rami, mi ritrovai praticamente senza niente che potevo sfruttare per vivere e da allora ho cambiato molte abitazioni, molti lavori, molti amici e qualche volta anche la personalità, che è poco distante dall’identità.

Dopo aver passato due anni in carcere per truffa, mi misi a fare il contrabbandiere, ma neanche la ebbi fortuna, o forse non ero abbastanza bravo, fui di nuovo arrestato e rimasi al fresco per altri due anni. Di nuovo libero, cercai un lavoro onesto e ne trovai uno come scaricatore di porto, ma lo persi dopo qualche anno in seguito a una rissa; dal porto sono passato all’ospedale, dove vi ho fatto le pulizie per molto tempo e così via.

Così arrivai a ventisei anni e il mio vecchio era morto da circa dieci primavere quando, dopo aver pagato un debito e dopo aver vinto una più che discreta somma al totocalcio, comprai un giornale di annunci e lo aprii al settore riguardante la vendita di case e alloggi. Si signore, volevo sistemarmi e trovare un lavoro qualsiasi, anche come spazzino, anche se, in effetti i soldi che avevo vinto erano troppi solo per la casa e avrei potuto anche viverci con quelli, al solo pensiero che un giorno, anche se lontano, mi sarei di nuovo ritrovato con pochi quattrini, già da adesso un senso di inquietudine mi assaliva e poi, a dire il vero, quella vincita mi aveva infilato nella mente una certa voglia di condurre una vita diligente, anche se in genere in questi casi avviene l’incontrario.

Dopo aver letto una quindicina di annunci, a dir poco scandalosi, non che disonesti e osceni, i miei occhi si posarono su di un’inserzione che diceva così:

Vendesi piccola casa con giardino nei pressi di Cervinara (Benevento) per 100.000.000 L. Per informazioni telefonare al 8611122.

Sicuramente non si trattava di un altro annuncio "scandaloso", anzi, se la casa era come io me l’aspettavo, visto che conoscevo la zona, si trattava di un prezzo convenientissimo, per cui immediatamente mi alzai dallo sgabello del bar sul quale ero seduto e non appena vidi una cabina telefonica mi fermai per contattare i venditori.

Mentre componevo il numero telefonico accumulai in testa un mucchio di pensieri; finalmente avrei finito di fare quello schifo di vita, mi sarei sistemato e avrei vissuto come, se non meglio, delle altre persone. Questo mio entusiasmo fu però smorzato dalla cupa voce che mi rispose a telefono, la quale mi richiamò alla realtà e cioè al fatto che l’affare non era concluso.

La voce era quella di una donna, che mi confermò l’annuncio sul giornale e con la quale mi accordai per un appuntamento, durante il quale avremmo discusso dell’affare.

Il luogo fissato per l’incontro era un piccolo bar proprio a Cervinara, il giorno il Giovedì prossimo e l’ora le sei di sera. Il lettore può immaginare come passai i giorni che mi dividevano dall’incontro con i proprietari della casa: pensai a come mi sarei trovato nella casa, ai miei nuovi vicini, se l’abitazione era veramente come io me l’aspettavo ed anche alla voce che mi aveva risposto a telefono; una voce molto strana e intrisa di mistero, all’inizio credetti che chi mi parlava a telefono avesse un grave lutto, poi capii che quella era la tonalità di voce normale della donna, la quale, dal canto suo, si lasciò andare anche a qualche risata durante la conversazione e soprattutto quando gli raccontai della mia grande fortuna.

Altro principale argomento dei miei pensieri fu la gente che avrei incontro in quel paese, visto che conoscevo il loro carattere schivo, ma anche molto superstizioso. Conoscevo, e conosco tutt’oggi, le loro pratiche contro il malocchio, contro la fattura ed anche molte leggende che le vecchie si raccontano davanti al fuoco. Una di queste narra che durante la notte dell’epifania, gli spiriti dei morti si alzino dalle loro tombe e, in un’enorme processione, girino per la città, ritornando alle loro case per rivedere i loro cari e che poi il mattino seguente ritornino nelle loro funeste dimore.

Comunque è meglio non perderci in particolari. Come stavo dicendo aspettai la venuta del giovedì impazientemente e al giorno e all’ora prestabilita mi feci trovare al luogo dell’appuntamento.

Ero seduto al bar e godevo della splendida vista del sole calante dietro le montagne del paese, quando vidi arrivare una macchina nera di grossa cilindrata che si fermò proprio vicino ai tavolini del bar e dal grosso veicolo scese dal posto di guida un’ometto tarchiato con un doppio mento che indossava una giacca nera sopra una camicia viola e dei calzoni anch’essi neri, come le scarpe, che luccicavano come un gioiello. Sulla parte posteriore del cranio aveva molti capelli, che erano raccolti in un codino che gli arrivava fino all’altezza delle scapole, mentre davanti non ne aveva proprio.

Dall’altro sedile scese una splendida donna alta almeno un metro e ottanta con dei capelli neri come le piume di un corvo e con gli occhi azzurri come delle acquemarine. Aveva un corpo quasi perfetto, ma la sua bocca era leggermente larga, ciò comunque non guastava con la sua squisita bellezza.

Non so perché, ma capii subito che si trattava dei venditori, perciò gli feci cenno con una mano che io ero la e che li aspettavo e la donna mi rispose con un cenno anch’essa e venne a sedersi vicino a me, insieme a quello che, come seppi quando si presentò, era suo marito.

Subito dopo la presentazione venne immediatamente al sodo e mi dettò meglio le condizioni dell’affare, dopo avermi fato vedere una foto della casa, dalla quale potei costatare che si trattava di una costruzione meravigliosa: davanti c’era un portico con al centro una scala, che portava alla porta d’ingresso, e due colonne ai lati dell’ultimo gradino subito dopo le ringhiere della scala, lateralmente vi erano alcune finestre, anche se la foto non mi permise di contarle il tetto era spiovente e delle piante rampicanti si attorcigliavano alle colonne e alle ringhiere. Mi bastarono pochi secondi per capire che non avevo avuto cattivo fiuto, perciò subito gli firmai un’assegno, poi gli chiesi se potevo vedere la casa da vicino e la donna mi rispose di si, aggiungendo che potevo venire in macchina con loro.

Il tragitto non fu lungo, ma durante i pochi minuti che viaggiai in macchina con loro mi vennero alcuni dubbi, non riguardo alla casa, bensì riguardo agli, ormai, ex proprietari. Ebbi modo di costatare innanzitutto che l’omino non parlava l’italiano, ma una lingua che mi ricordava di più lo slavo; la moglie lo capiva e durante il viaggio ebbero una furiosa discussione in quella lingua. Dal canto mio non capivo sostanzialmente lo slavo, ma, siccome in passato ho avuto a che fare con alcuni zingari, riuscii a captare qualche parola, soprattutto quelle dette dalla donna, che parlava più lentamente. Le parole che capii erano: regno, sotterraneo e palude.

Non ebbi molto tempo di riflettere sulle parole dette dalla donna poiché in brave tempo arrivammo alla mia nuova casa. Adesso potei osservare anche la zona in cui essa si trovava, una zona montagnosa, soprattutto alle spalle della casa dove c’era una pineta che terminava in una montagna, mentre di fronte c’era una strada con dei lampioni e dall’altro lato della strada della campagna, nella quale si trovava un casolare pericolante senza tetto. Ai lati c’erano altre case simili alla mia e devo dire che regnava in tutta la zona un silenzio placido, il tipico silenzio della natura interrotto dal canto degli uccelli e da altri animali.

Entrati nell’abitazione potei vedere anche il giardino, che nella foto non potei vedere: anch’esso era meraviglioso anche se non enorme. Era costituito da un manto erboso alto non più di cinque centimetri, vicino alle inferriate vi erano degli oleandri, mentre ai piedi della casa c’erano dei gerani e una stradina pavimentata partiva dalla fine delle scale e terminava davanti al cancello piccolo, quello per le persone, affianco al quale c’era quello elettrico per le auto.

Dentro era formata da quattro stanze, più o meno ampie. Vi era una spaziosa cucina, con un vano cottura e un vano destinato alla consumazione, due camere da letto non molto arredate e un bagno di medie dimensioni. La cucina stava al primo piano, mentre le altre stanze stavano al secondo piano e si ci arrivava tramite una scala a chiocciola.

Mentre la donna mi guidava nella visita della cucina, esaltandone i pregi come fanno i venditori, il marito, l’omino, mi disse in un italiano imperfetto una strana frase:

- Signore, se vuolete un consiglio, non scendate mai in viscere di questa

costriuzone -

La frase dell’omino scatenò una furiosa lite in slavo fra lui e la moglie, ma questa volta non capii neanche una parola del discorso, anche se l’entusiasmo dell’acquisto della casa non mi fece riflettere sull’importanza della frase dell’omino e della successiva lite, cosa che avrebbe potuto salvarmi dalla mia spaventosa esperienza.

Sapevo che per poter abitare definitivamente nella casa dovevo aspettare del tempo, perché c’erano varie carte da sistemare, perciò dovetti aspettare tre mesi prima di potermi stabilire in quella casa e quando vi entrai per restarvi definitivamente era già Dicembre.

La casa era davvero confortevole e soprattutto esteticamente bella, non era infatti la solita casa di campagna arredata stile country, bensì una casa arredata in modo esistenzialista: le pareti erano bianche, mentre il mobili erano neri e le poltrone e il divano grigi. Inoltre c’era un altro particolare che distingueva quella casa, era il tombale silenzio che l’avvolgeva. I vecchi proprietari mi avevano detto che gli spessi muri e i doppi vetri insonorizzavano abbastanza bene l’abitazione, ma una cosa era sentirlo dire e una cosa era provarlo praticamente. Nelle gelide e ventose giornate di Dicembre a volte mi affacciavo alla finestra e restavo per molto tempo a osservare gli alberi spogli e secchi che si piegavano sotto la forza del freddo vento senza che udissi alcun rumore ed era quel silenzio sepolcrale che talvolta mi faceva innervosire, o forse più precisamente spaventare, e allora di corsa mettevo su un disco oppure accendevo la televisione, solo per rompere quel silenzio.

A volte, mentre ero disteso sul letto a rimuginare tanti pensieri, avvolto nel totale silenzio, pensavo alla strana bellezza di casa mia, una bellezza che amavo paragonare a quella di una donna eccentrica, che si differenziava dalle altre per la sua originalità ed anche per il suo carattere difficile; la mia casa infatti, se da un lato mi piaceva per il suo arredamento, ordinato ma non minuzioso, dall’altro lato mi spaventava per il suo silenzio, inoltre a volte mi sembrava di vedere con la coda dell’occhio delle ombre che strisciavano lugubremente lungo le pareti, ma quando mi voltavo per vederle meglio scoprivo che in realtà non c’era niente.

Decisi di cercare di scordare le ombre, ma ci fu un avvenimento che richiamò alla mia mente gli strani avvenimenti che caratterizzavano quell’abitazione, un avvenimento che si verificò in una serata fredda ma non ventosa, quando abitavo in quella casa da circa tre settimane. Erano le nove di sera e stavo per mettermi in pigiama e vestaglia, per cui mi recai all’armadio e l’aprii per prendervi gli indumenti serali. Dato che non riuscivo a trovare il pigiama spostai tutti gli abiti, fino a svuotare quasi del tutto l’armadio e sul fondo di quest’ultima vi trovai delle incisioni fatte probabilmente con un coltello che formavano una frase:

Per amore della vita, non sprofondare sotto l’armadio

Questa scritta mi diede molto da pensare, anche se poteva essere stata scritta da un’idiota qualsiasi la mia mente si ostentava a ritenerla un qualcosa di allegorico, se non addirittura di magico. Masticai per qualche minuto quel pensiero nella mia mente, poi mi sembrò che qualcosa mi penetrasse nel cervello e con una voce stridula mi bisbigliasse: E’ vero ! E’ vero! . Riuscii anche a vedere la forma di quell’entità, stampata davanti ai miei occhi come un essere avvolto in un sudario nero che gli copriva anche la faccia.

Questa serie di avvenimenti mi paralizzò per un buon tratto di tempo, ma, quando la luce si spense da sola e poi si riaccese subito, immediatamente fuggii da quella casa e mi fermai sotto a un lampione, fuori al cancello della casa a fianco. Rimasi rigido e immobile sotto quella fonte di luce, il buio, come una gabbia, mi circondava e io vi potevo scorgere dentro orde di diavoli e esseri provenienti dall’oltretomba che mi scorgevano con occhi sporgenti e rossi di sangue; allungavano le mani, ma alla vista della luce subito si ritraevano indietro, digrignando rabbiosamente i denti da vampiro. Rimasi in questa condizione pietosa fino alle prime luci del giorno seguente, quando mi decisi a rientrare in casa.

Passai l’intera giornata a riflettere sull’accaduto, senza toccare ne cibo ne acqua, pensando al significato della frase incisa nell’armadio e alla terribile "visione" che avevo avuto e alla fine della giornata mi decisi di spostare l’armadio e di vedere che cosa c’era sotto, visto che, forse, la parola sprofondare indicava ciò che c’era sotto all’armadio e perciò poco prima del tramonto, con l’aiuto di un piede di porco spostai il pesante mobile dal muro, per soddisfare la mia scellerata curiosità.

All’inizio fui deluso, poiché non vidi nulla, poi per caso scoprii che alcune mattonelle si muovevano e che si potevano spostare, quando lo feci vidi che sotto di esse c’era una botola e che la botola si poteva aprire facilmente forzando la serratura con il piede di porco.

Ero preso dal mio lavoro, quando un lampo mi balenò nel cervello e prima ricordai della frase incisa nell’armadio, poi quella pronunciata dall’omino; entrambe alludevano alla pericolosità di discendere sotto questa casa, ma la voglia di scoperta mi offuscò i lumi e come la povera Pandora, che aprì incoscientemente il vaso contenente i mali del mondo, così io aprii quella botola e mi ci infilai dentro, portando con me una candela, visto che la pila elettrica era senza batterie, e il piede di porco.

Il cunicolo in cui mi incamminai era largo poco più di un metro e alto altrettanto, era pavimentato, ma i pavimenti erano ricoperti da uno spesso strato di polvere, per cui, camminando a carponi, mi sporcai come un maiale che si rotola nel fango. Durante il cammino dovetti evitare alcuni topi, i quali, con una voracità terribile, tentarono di azzannarmi le mani. Alla fine arrivai in una stanzetta dove potei alzarmi in piedi e, con mia angosciante sorpresa, notai che in quell’ambiente vi erano alcune candele accese attorno a un ’ altarino, sul quale vi era deposta la testa in legno di un uomo capra. Lungo le scure pareti vi erano disegni che nel corso degli anni si erano rovinati e che rappresentavano uomini metà umani e metà caproni che con dei tridenti infilzavano degli uomini nudi. All’interno della stanzetta c’era un odore di muffa e di cera che quasi mi stordiva l’olfatto, vi regnava inoltre un silenzio ancora più terribile di quello che si udiva nella casa e sembrava quasi di non trovarsi sulla terra e neppure nello spazio, ma in un luogo situato in un’altra dimensione, dove, gli stessi demoni che mi guardavano quando ero sotto il lampione, si divertivano a girarmi intorno e a punzecchiare la mia anima con i loro tridenti, proprio come nei dipinti sui muri, forti di essere a casa loro.

Notai che, proprio sulla parete opposta a quella dove c’era l’uscita del cunicolo, c’era una piccola porta semi aperta, dalla quale fuoriusciva una piccola corrente d’aria gelida che faceva tremare il fuoco sulle candele. Stavo per avvicinarmi alla porta, per vedere cosa c’era oltre ad essa, quando qualcosa mi spinse in modo deciso da dietro e mi introdusse forzatamente oltre la porta, chiudendomela alle mie spalle.

Mi girai immediatamente verso la porta cercando di aprirla, ma mi accorsi che era irrimediabilmente chiusa, per cui mi voltai dall’altro lato e vidi ciò che l’occhio di un mortale non dovrebbe mai vedere: a perdita d’occhio si estendeva una pianura livida cosparsa di alberi secchi e di laghi con dell’acqua melmosa e scura, che rispecchiava il colore del cielo che sovrastava, come un’enorme lenzuolo funebre, quella terra orrenda, sulla quale, camminavano delle creature magre e livide, vestite di stracci che cercavano angosciosamente un senso, anche piccolo, di ristoro e solo allora mi resi conto di come mi ero spinto lontano dal mondo e dell’importanza della frase di quel piccolo uomo, la quale avrebbe potuto evitarmi quella orrenda vista.

Dopo aver di nuovo controllato freneticamente se la porta fosse davvero chiusa a chiave, avanzai, timido, in quel luogo di morte e dopo aver fatto alcuni metri trovai a terra quella che sembrava essere la carcassa di un ’uomo, ma, osservando meglio quell’ammasso di ossa e pelle, cappi con orrore che quell’essere era ancora vivo e inoltre emetteva dei gemiti per il forte dolore che gli procurava uno sciame di grosse mosche che gli staccava la carne a piccoli pezzettini. Con la pianta del piede smossi un po’ il corpo di quel pover’uomo e gli insetti volarono via, cosicché potei vedere meglio le orrende situazioni del suo corpo: aveva l’intero ventre dilaniato, mentre sul petto c’erano infiniti graffi, anche piuttosto profondi. Gli occhi, trasformati dal dolore, erano quasi schizzati fuori dalle orbite e una sottile striscia di pelle copriva a mala pena parte del viso scavato e delle gambe sottilissime e sanguinanti.

Rimasi a fissare per un po’ quella carogna vivente, poi mi allontanai e mi addentrai in una volta di alberi secchi e spogli, che, con i loro rami allungati e simili a scheletriche mani, sembravano volerti afferrare e stritolarti.

Adesso i lamenti degli zombi giungevano più fievolmente, anche perché la zona degli alberi era quasi vuota, tranne qualche raro caso, in cui mi imbattei in qualche povero dannato venuto a soffrire, visto che quegli zombi sembravano immortali, da solo e in uno in particolare, ricordo che mi imbattei: si trattava di un ‘essere deforme, con la testa enorme e il corpo piccolo ed esile. La testa era impregnata di sangue, mentre gli mancava una gamba e l’altra era in cancrena, ma nonostante tutto era ancora vivo!

Quando uscii dalla foresta di alberi spogli mi ritrovai ai piedi di un lago melmoso, nel quale c’erano dei pesciolini dall’aspetto piragnesco e in cui galleggiavano dei sassolini di piccolo spessore. Molti zombi erano distesi nel lago, sembravano trarne grosso piacere, anche se i pesciolini gli mordicchiavano in continuazione le carni e i sassolini si conficcavano nelle loro ferite più profonde, facendoli urlare con quel filo di voce che avevano.

Per pura curiosità immersi la mano nell’acqua per vedere a che temperatura era e ne riscontrai che era fredda come l’aria di quel posto, forse non era più alta di dieci gradi centigradi. Non la tenni per molto tempo immersa però, poiché i pesciolini famelici subito cercarono di afferrarmela.

Non mi allontanai molto dal lago, quando uno zombi che mi aveva visto cercò di azzannarmi al collo, con un goccio di forza che gli rimaneva, ma io riuscii a disfarmene facilmente e con un calcio gli fracassai l’osso della gamba, che bucò la pelle, lasciando quell’orrendo essere a dimenarsi e a rantolare a terra. Dal canto mio mi presi un gran brutto spavento e ancora oggi ricordo i suoi occhi, che quasi gli uscivano dalle orbite, guardare me con una sete di sangue orrenda e la sua pelle sottilissima che gli lasciava intravedere le vene.

Dopo l’aggressione dello zombi, scappai dai pressi del lago e corsi come un dannato fino ad arrivare in un luogo roccioso dove c’era una grossa spaccatura nella terra, dalla quale usciva a spruzzi del magma. Rimasi a guardare la scena con relativa tranquillità, visto che nei pressi non avevo visto zombi in libertà, osservando la lava che fuoriusciva e in generale la zona in cui mi trovavo; una zona scoscesa, ai piedi di una montagna nera in cima alla quale c'erano dei patiboli, sui quali vi erano degli zombi impiccati che si contorcevano ed emettevano delle urla strozzate, che ascoltai con una terribile angoscia fino a quando non udii un tremendo ruggito che proveniva da un’altra montagna, ad est di quella di cui ho parlato fino ad ora, e quando mi voltai per vedere l’essere a cui apparteneva quel ruggito vidi un’enorme uomo, alto più di due metri e mezzo, con le orecchie a punta lunghe forse trenta centimetri, una bocca munita di due grosse zanne da tigre, due occhi che rispecchiavano tutto l’incubo, o la realtà, che stavo vivendo e dei capelli nerissimi, che risaltavano sulla sua pelle bianca come il latte. Quella bestia stava venendo verso di me e agitava come un pazzo un’enorme falce, dalla lama lunga forse un metro.

Come chiunque al posto mio, indietreggiai velocemente e una goccia di magma mi cadde sul dito, facendomi emettere un urlo che riuniva sia il mio dolore che la mia paura, ma mi accorsi presto che il mostro era molto più veloce di me e mentre si avvicinava a grosse falcate urlava con una voce cavernosa e imponente: - Fuori di qui, torna da dove sei venuto o le tenebre ti avvolgeranno per sempre ! -

Ben presto mi raggiunse e mi colpì violentemente alla testa con il manico della falce, facendomi perdere i sensi.

Mi risvegliai nel letto dell’ospedale del paese e non appena aprii gli occhi vidi una giovane infermiera avvicinarsi a me e dirmi: - Come va, si sente meglio ? -

La falce.......la.......il lago e......e i pesciolini bastardi ? - furono le mie prime parole.

L’infermiera mi tranquillizzò e mi disse che ero stato ritrovato nel sotterraneo della mia casa, in una stanzetta in cui c’era un ’altarino. Il dottore diceva che probabilmente qualcuno mi aveva spinto verso una porticina, che si trovava su di una parete della stanzetta, la quale dava in uno stanzino in cui c’erano solo delle vecchie bottiglie vuote, facendomi urtare con la testa su di una trave, ma non riusciva a spiegarsi chi era stato, visto che ero stato trovato solo in casa e non c’erano tracce di altre persone entrate in casa mia.

Dopo pochi giorni di convalescenza potei uscire dall’ospedale e mi recai per un po’ di tempo a casa dell’infermiera che mi aveva curato, della quale divenni molto amico, poiché non volevo assolutamente ritornare in quella casa e mi decisi a farla abbattere, anche se, prima di farlo, chiesi a molte persone di Cervinara se sapevano qualcosa a proposito di una botola che c’era in quella casa, fingendo di non saperne nulla. Molti di essi non vollero parlarne, dicendomi solo che, se non mi conveniva abitarci, cosa che loro credevano, potevo anche andarmene. Altri mi dissero che effettivamente sapevano dell’esistenza di una botola in quella casa, attorno alla quale ruotavano molte leggende, ma non mi seppero dire molto di più. Infine, alcuni mi dissero che delle persone, degne di fiducia, dicevano che la botola portava al regno delle tenebre, all’inferno. Il primo ad aprire la porta che portava all’inferno fu l’omino, il quale poi non riuscì più a controllare il caos che si agitava sotto le fondamenta della casa e che, a volte, saliva in superficie come il magma emerge dalla crosta terrestre e perciò, decise di vendere la casa.

Domandai qualche notizia su sua moglie e la risposta mi fece gelare il sangue nelle vene: sua moglie era morta in un ‘ incidente stradale poco tempo prima che egli vendesse la casa. Si diceva che fosse il demonio in persona e, probabilmente, dopo la sua morte, il marito l’andò a riprendere nel luogo dove aveva più probabilità di ritrovarla.

 

LOKI

 

 



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