La bestia

di

Riccardo Jevola
riccardojevola@supereva.it
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Spalancando gli occhi nel buio capii che non potevo fuggire me stesso, non potevo sottrarmi alla sua vendetta.

Erano trascorsi soltanto tre giorni da quando la bestia si era svelata, ma quella notte mi parve fosse invece trascorso tutto quanto il tempo della mia vita. Tutti i ricordi, tutte le emozioni, tutte le gioie sino ad allora vissute, tutto quanto il mio passato si era improvvisamente trasformato in un lungo incubo, e ciò dall’esatto momento in cui ebbi modo di capire il lento tessere della tela che la bestia di giorno in giorno, negli anni, mi aveva pazientemente avvolto addosso in attesa dell’epilogo.
La verità iniziò a svelarsi allorché mi accorsi dell’orribile sagoma della mia ombra. Ero seduto su uno sgabello al bancone di un bar, con le spalle rivolte al muro. Dinanzi a me, dall’altra parte del bancone, un gigantesco specchio rimandava il riflesso di tutto quanto mi stava dietro. Avevo appena finito di bere l’ennesimo bicchiere di whisky quando, alzando lo sguardo, vidi impressa sul muro l’effigie mostruosa della mia ombra. Si trattava di una figura enorme, molto più grande di quella che avrebbe potuto creare il mio corpo, con una forma di testa animalesca, i capelli lunghi sin quasi alle spalle, una gobba sulla schiena, una coltre di peli sui suoi contorni, e infine, penzoloni alla mia sinistra, una orrenda coda grossa e pelosa.
Rimasi per un attimo immobilizzato dal terrore e non riuscii neppure a muovermi. Poi, pensando si trattasse di uno stupido gioco di ombre, alzai il braccio destro per scorgere meglio la mia parte di corpo in quel che credevo essere un groviglio mostruoso di ombre cinesi. Fissando quell’innaturale figura alle mie spalle vidi alzarsi la mia zampa, grossa e minacciosa, con gli unghielli sguainati al posto delle dita, quegli unghielli feroci e acuminati che certo non potevano essere la sola ombra distorta delle mie dita.
Gridai, ma nel tentativo di fuggire caddi per terra svenuto. Rinvenni all’ospedale. Dopo un po’ un medico venne a trovarmi dicendomi che avevo avuto un malore in un bar, ma che le mie condizioni generali erano comunque sufficientemente buone da consentirgli di dimettermi.
Accettai la dimissione e tornai a casa in taxi. Per tutto il tragitto non feci altro che pensare con orrore a quell’ombra, senza peraltro avere mai il coraggio di voltarmi a guardarla.
A casa entrai in bagno e senza rendermene conto inesorabilmente lo specchio me la mostrò ancora una volta. Tremenda e mostruosa stava ancora là, come in procinto di divorarmi.
Scappai dal bagno e corsi in camera. Spensi la luce e mi nascosi sotto le coperte. D’un tratto il più orribile dei pensieri si impossessò di me: la bestia, adesso che stavo coricato nel letto, era stesa proprio sotto di me! Gridai terrorizzato e fuggendo il letto mi riparai al centro della cucina. Mi voltai di scatto e nuovamente vidi quel mostro partire dai miei piedi e riempire tutto quanto il muro alle mie spalle.
"Chi sei?" chiesi disperatamente con un fil di voce, mentre sentivo di nuovo cedermi le forze.
Un lungo silenzio accompagnò l’attesa della risposta, un’attesa che mi terrorizzava. Ma non giunse, non giunse mai alle mie orecchie la sua voce. Giunse soltanto, e dal profondo del mio corpo, un orrendo ululato che paralizzandomi mi fece svenire ancora una volta.
Mi ripresi quasi all’alba, quando il gelo del pavimento s’impossessò delle mie ossa. Cercai di alzarmi in fretta, nell’istinto di fuggire quell’orribile essere steso sotto di me, ma non ci riuscii. Spinto dalla disperazione mi aggrappai ad una sedia e con immensa fatica finalmente riuscii a mettermi in piedi. Guardai nuovamente per terra e nuovamente quell’essere mimava orribilmente ogni mio movimento rendendolo goffo e animalesco.
Di colpo decisi, in preda alla disperazione, di tentare di capire, di mettere da parte, per quanto potevo, la paura, ed iniziai a compiere dei semplici movimenti con l’intento assurdo di familiarizzare con quella figura che nonostante tutto, terribilmente, mi apparteneva. Mi avvicinai alla parete e la guardai attentamente, mettendomi di profilo con la testa, di lato con il corpo, alzando ed abbassando le braccia, le gambe, mettendomi seduto, alzandomi, disperandomi infine piangendo per non riuscire a capire cosa mi stesse accadendo.
Ma fu proprio allora, disperandomi nell’osservarla, che capii cos’era la bestia. Quell’orribile essere, riflesso del me contrapposto alla luce, era la vendetta del mio passato. Troppi errori avevo commesso, troppe violenze avevo perpetrato ai danni della mia coscienza, troppe volte avevo tentato di ucciderla soffocandola con le ragioni di chi non vede altro che i propri scopi immediati.
Sì, lo capii con lucida chiarezza, quell’animale ero io stesso, l’animale ch’era dentro di me! In quell’istante l’ombra si staccò dal muro e balzandomi addosso mi dilaniò. Il buio s’impossessò della mia mente e credetti fermamente di morire.
Attorno a mezzogiorno mi risvegliai nel letto e con immensa sorpresa mi accorsi che non c’erano ferite sul mio corpo, come non v’era neppure una macchia di sangue nel letto, sui miei vestiti. La bestia era scomparsa: al suo posto soltanto la mia ombra di sempre, quella esile e gracile di un corpo snello e minuto.
Come mi resi conto che l’incubo era finito la felicità esplose in me tanto da diventare incosciente. Pensai si fosse trattato di un delirio alcolico e come se niente fosse accaduto tornai alla mia vita di sempre. Feci le stesse cose, con gli stessi pensieri, con la stessa vile astuzia, e poi, a sera, tornai al bar.
Bevvi molto, e sovente guardavo la parete alle mie spalle attraverso lo specchio per scorgere di nuovo l’apparire di quello che ritenevo, ogni bicchiere di più, quasi un divertente scherzo della mente.
Non accadde niente, e forse persino un po’ deluso ritornai a casa.
L’indomani, il terzo giorno, feci ciò che proprio non avrei dovuto fare. Nel tentativo di recuperare del denaro che un tale mi doveva lo minacciai di morte, e lo minacciai a tal punto che provai gusto a farlo, provai un immenso piacere ad immaginare di ucciderlo veramente. Quando me ne andai la coscienza ancora una volta mi rimorse, ma la ignorai come sempre convincendomi che se anche qualcuno l’avesse ucciso non avrebbe fatto altro che liberare il mondo da un essere spregevole e senza alcun valore.
A sera, nel solito bar, bevvi oltre misura e a notte fonda mi risvegliai completamente ubriaco su una panchina nel parco. Non feci neppure in tempo a chiedermi cosa potesse essere accaduto che stesa per terra dinanzi a me vidi vegliare minacciosa ancora una volta la bestia.
"No!" gridai forte balzando in piedi e cercando di fuggire, ma l’ombra mi seguiva inesorabile, pronta a dilaniarmi. Esausto e senza più equilibrio sulle gambe mi fermai cadendo poi seduto per terra.
In quell’esatto momento l’orrore s’impossessò di me e non riuscii più a muovere neppure un muscolo. Immobilizzato, come avvolto nella tela di un ragno, vidi sollevarsi lentamente l’ombra da terra, avanzare verso di me, giungere così vicino alla mia faccia che nel buio di quell’essere senza luce intravidi lontanissimi i suoi due occhi gialli e imperturbabili: gli occhi di un demonio.

Adesso non so più dove sono, forse sono ancora nel parco e sono passate soltanto due ore, o forse sono altrove e sono trascorsi due anni, due secoli, ma quegli occhi dinanzi a me continuano a fissarmi e a penetrarmi la mente tanto che di attimo in attimo non attendo altro che d’esser divorato.




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