Bag of bones
(Mucchio d'ossa)

di Stephen King

 

Sono da considerarsi ormai finiti, credo, i tempi in cui il nome di Stephen King era relegato al di fuori del perimetro stanziale della Comunità Culturale Ufficiale. I tempi in cui i libri del "King of Maine" in Italia erano stampati solo in economica (mentre ora è in atto l’operazione opposta, per cui tutte le sue opere, anche le più vecchie, vengono rieditate in edizione rilegata…). I tempi in cui veniva considerato semplice scrittore di genere o di bestseller "di cassetta". Le cose si stanno evolvendo (e non c’è che da compiacersene) anche per la tradizionalmente rigida setta della Cultura Italiana. E così a King vengono dedicati incontri di approfondimento di varo genere, corsi universitari, articoli su riviste culturali e monografie. Stiamo pensando in particolare al saggio di Antonio Faeti, "La casa sull’albero", edito da Einaudi. Quando uscì questo saggio (nel ’98) fu pubblicato in Italia "Bag of bones", reso nell’edizione italiana con Mucchio d’ossa", benché la sua "anima gemella" d’oltreoceano, lo "storico" traduttore Tullio Dobner, non si fosse trovato d’accordo con questa soluzione editoriale. "La resa letterale – dice Dobner – sarebbe "sacco d’ossa". Bag of bones è infatti anche un modo per indicare il funerale dei neri, cosa che nel romanzo non viene esplicitamente fuori, ma il tema del razzismo e dei neri sì". Dobner, nato l’anno prima di King e del suo stesso segno zodiacale (la vergine), ha per sua stessa ammissione trovato nello storyteller americano l’anima gemella: "sono invecchiato con King – ci dice – solo che lui fa i miliardi di dollari e io le centomila lire. Quando lo traduco però ho l’illusione di scrivere, solo che io non faccio la fatica di pensare". Dobner, nel suo intimissimo legame (sempre indiretto e mediato dalla pagina romazesca), ha trovato una decisa evoluzione nella scrittura kinghiana: "Prima il suo periodo era complesso e ponderoso, ora sta maturando e cambiando, la sua scrittura è più pulita", certo sempre affascinante, una calamita per nervi ottici! Sebbene si senta pesante il cammino (ripido, in salita) che ci guida attraverso le prime 200 pagine (uno scherzo su un totale di 600!), a un certo punto la strada comincia la sua discesa, prima lenta, poi sempre più precipitosa e bisogna correre con lei, rallentare un poco e poi di nuovo correre, per arrivare alla fine, per arrivare all’agrodolce frutto del risolutivo (happy) end.

Siamo a Derry, uno degli "ombelichi" del Male nel cosmo kinghiano e il protagonista è uno scrittore, il che ne accentua le notazioni autobiografiche e fa del romanzo il tassello di un’ideale trilogia di cui sarebbero parte "Misery" e "La metà oscura" (in cui sono sempre protagonisti scrittori…in difficoltà). Questa volta è successo che a Mike Noonan è morta la moglie, per di più incinta. La metabolizzazione di un dolore così grande e il cosiddetto "blocco dello scrittore" occupano per i successivi quattro anni la vita di Mike, che alla fine, quasi irresistibilmente attratto, decide di trasferirsi nella casa di villeggiatura al Lago Dark Score. Sara (Sara Laughs) è il nome della casa, lo stesso nome di una cantante nera vissuta da quelle parti ad inizio secolo e poi improvvisamente scomparsa nel nulla col piccolo figlio, Kito. Presenze invisibili, eppure terribilmente reali, stregano la casa, mentre mostri più pericolosi ancora si aggirano per le strade di quella località, famigliarmente chiamata TR. La miccia che porterà alla conflagrazione finale (in perfetto stile kinghiano) viene innescata dall’incontro di Mike con la giovane vedova Mattie e la figlioletta Kyra, legate da un cavo invisibile ma solidissimo alla rete di orrore che fa da trama e ordito all’apparentemente tranquillo scorrere della vita in quella cittadina. C’è un feroce delitto sul fondo di quell’abisso di violenza e pazzia, e c’è una paura antica quanto l’uomo da esorcizzare: le colpe dei padri ricadono sui figli…

Un nuovo libro per King, un nuovo bestseller che ha avuto, questa volta, anche il plauso della critica e non solo del botteghino. Un nuovo libro e un nuovo tema, narrativo e sociale: la ghost story da una parte, la discriminazione razziale dall’altra, a rendere sempre più forte e icastica l’immagine di uno scrittore in lotta contro l’ingiustizia in cui sguazza il degradato mondo degli uomini e delle cose. Novità, sempre, ma nella continuità. King ha ormai creato il suo mondo e i suoi personaggi, tutti legati (non solo quelli di questo libro) da cavi invisibili. In ogni nuovo libro, lui torna "a casa", ma ogni volta ne visita inesplorati anfratti e sentieri. E così se alcuni elementi (che, proppianamente, possiamo definire "funzioni") fanno di "Bag of bones" una fiaba, la meticolosità dei particolari e delle caratterizzazioni, che continuamente richiamano i libri precedenti, lo fanno rientrare in un ciclo che ha tutti i crismi dell’epica. Lo scaldo del Maine ha creato l’epica americana di fine millennio! In un bar di Derry, Mike incontra infatti il Ralph Roberts protagonista di "Insomnia", mentre il Thad Beaumont protagonista de "La metà oscura" compare fra i suoi "rivali" nei primi posti delle classifiche del Times. Ma sono tanti anche i personaggi minori, che riportano ai libri ambientati a Castle Rock (primo fra tutti "Cose preziose"). Ritornano ambienti (Jessie ricorda il Lago Dark Score ne "Il gioco di Gerald") e vengono richiamate cose e situazioni già incontrate (chi ha dimenticato i fatti legati agli indiani Micmac in "Pet Sematary"?). E tutto questo sembra dire: "Bentornato a te, vecchio lettore, bentornato a casa!"

 

Elissa Piccinini

 elissa.p@tiscalinet.it

 

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