Fui svegliato da uno strano suonare di campana.
Non il solito scampanio regolare prodotto dall'armonioso tiro della corda, ma un susseguirsi di rintocchi in rapida successione seguito da un lungo vuoto colmo di silenzio.
Poi ancora uno, due, tre rintocchi, e di nuovo il silenzio, più lungo di prima, più intenso. E ancora, improvvisamente, uno, due, tre, quattro, cinque colpi di batacchio, e di nuovo niente, se non l'eco dell'ultimo colpo diffondersi lentamente nel silenzio e nell'inevitabile attesa.
Mi alzai e aprii la finestra. Il paese era completamente immerso in una densa nebbia e a stento riuscii a vedere la sagoma poco lontana della chiesa e del suo campanile.
Ero giunto a Bradisville la sera prima, stremato dal lungo viaggio per Hammer in Alsazia. A mala pena ero riuscito a trovare nel buio la strada per quel paese che, ignoto persino alla carta stradale, mi avrebbe però permesso di riposare qualche ora prima di proseguire. Di Bradisville ignoravo anch'io l'esistenza sino al pomeriggio del giorno prima, quando un camionista diretto a Sud me lo indicò come il primo posto abitato dopo il Passo di Schutzenkhamher. Ricordo che si stupì della mia scelta di raggiungere Hammer attraverso Schutzenkhamher poiché, a causa del suo impervio tragitto e dei paesaggi intorno deserti e spettrali, avvolti per di più da una nebbia perenne, era da molti considerato una specie di Passo maledetto. Non prestai caso a quanto mi disse, limitandomi a ricordare la direzione ed il nome di Bradisville quale meta finale di una pesante giornata di viaggio. Già... ero profondamente scettico allora, e non credevo affatto all'esistenza di ciò che non riuscivo in qualche modo a comprendere. Ero convinto che la vita fosse tutta quanta racchiusa nel circolo che descrive il tempo dalla nascita alla morte di qualsiasi essere vivente.
La campana suonò ancora per sette volte, e ancora il silenzio seguì l'eco in esso soffocata.
Mi vestii rapidamente e scesi di sotto per la colazione.
Non incontrai anima viva lungo il corridoio, né lungo le scale, né nell'ingresso dell'albergo. Guardai allora per strada, ma anche là non vidi nessuno attraverso la nebbia, non una sagoma d'uomo, non un movimento, niente di niente... E non udii neppure un rumore: solo un silenzio ovattato albergava là fuori, e in esso l'attesa inspiegabile dei rintocchi di campana.
Mi voltai di scatto e vidi un lungo corridoio che dalla destra del bancone conduceva probabilmente a una sala da pranzo. Lo percorsi in fretta e come giunsi sulla soglia del salone vidi con mia grande sorpresa una decina di persone sedute dinanzi a tavoli perfettamente apparecchiati, ma senza alcuna vivanda nei piatti, e neppure acqua nelle brocche o nei bicchieri, né pane nei cestini. Tutti quanti stavano in silenzio e senza mostrare il pur minimo movimento mi guardavano con sguardi fissi attraverso i loro occhi vitrei.
"Buongiorno..." feci per dire, ma dalla mia bocca non uscì neppure un suono.
"Buongiorno" riprovai, e nonostante la mia bocca si muovesse e la lingua scandisse la parola, io non udii alcun suono.
Colto da uno spavento atroce gridai, ma non servì ugualmente. Il silenzio perfettamente tale non fu neanche sfiorato dall'impeto incontenibile del mio gridare. Fuggii via d'istinto, in preda al terrore, e scappando lungo il corridoio mi accorsi che i miei piedi non provocavano alcun rumore pestando il pavimento, né i miei abiti frusciavano, né il fiato si faceva affannoso.
Mi precipitai fuori e corsi lungo la strada, nella nebbia. D'un tratto uno, due, tre, quattro colpi di campana mi assordarono e fermandomi di colpo fui costretto a coprirmi le orecchie con le mani per ripararle dal riverbero tremendo di quel suono dirompente. L'eco che seguì l'ultimo dei rintocchi fu come un lento svanire di dolore, e all'arrivo del silenzio la nebbia, molto più fitta di prima, m'impedì di correre ancora. Potevo fare soltanto un passo alla volta lungo la strada, giacché soltanto un passo in avanti mi permetteva di vedere dove dirigere il passo successivo.
E di passo in passo giunsi sino alla mia auto, che riconobbi solo all'ultimo. Cercai disperatamente le chiavi nella tasca della giacca e trovatole tentai di aprire la portiera. Ma come scattò la serratura dodici terribili colpi di batacchio mi massacrarono l'udito fino a farmi quasi svenire. Fu così che barcollando all'indietro estrassi involontariamente la chiave dalla serratura e la campana immediatamente tacque offrendomi, col disperdere lento nel silenzio l'eco del suo ultimo orrendo rintocco, un crescente sollievo alla sofferenza.
Non appena riuscii a muovermi mi diressi oltre la macchina nel disperato tentativo di fuggire comunque da là, ma ad ogni passo che facevo la nebbia sempre più fitta mi impediva di farne un altro della stessa lunghezza. Finii, di lì a qualche metro, col trascinare in avanti i piedi pochi centimetri alla volta, finché, trovandomi dinanzi a un muro del quale non potevo che vederne la non fine, sia in lunghezza che in altezza, capii che non avevo altra strada oramai da percorrere se non quella per tornare indietro.
Come mi voltai e presi a camminare verso l'albergo la nebbia si diradò del poco necessario per farmi nuovamente scorgere la direzione, un passo intero alla volta.
Rientrai nell'albergo e percorsi il lungo corridoio verso la sala. Mi sedetti a un tavolo e fissando gli occhi di un ospite a me vicino vidi ora in essi la mia stessa paura, il mio silenzio, la mia inconsolabile solitudine.
Nel fondo gelido dei suoi occhi era racchiuso tutto quanto il mio prossimo, eterno, ineluttabile futuro.
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