Perché?

 

 

1 - Un amico ritrovato

"Da quanto tempo ci conosciamo?" - mi chiese ancora, con insistenza. Dopo un rapido calcolo, risposi:

"Da quarantadue anni. Ci siamo conosciuti al ginnasio… quindi…"

"…il liceo." - m'interruppe – "Poi l'università, la lunga facoltà di Medicina."

Ricominciammo il gioco dei ricordi con cui ci dilettavamo nei nostri sempre più rari incontri:

"Il professor Grassadonia…"

"E quel compagno balbuziente…"

"La cravatta rossa del professore di matematica…"

"La gita a Siracusa…"

"E quella ragazza che…"

"L'ho incontrata alcuni anni fa: sposata, con quattro figli. Una balena!"

"La prima materia… io non la volevo dare…"

"Ti abbiamo spinto davanti al professore. Tremavi: ed era luglio!"

Potevamo passare ore, come in altre occasioni; ma, quella volta, eravamo stanchi. Sentivo, con intima sofferenza, che ci animava il meccanismo della finzione. La nostra conversazione non era fine a se stessa: serviva come atto preparatorio di una qualche drammatica rivelazione.

Con Antonio avevo diviso il banco al ginnasio e al liceo. Era il compagno di scuola di cui si parla nel tema in classe, il compagno di squadra al quale si passa il pallone sui campi di calcio, il fratello mai avuto. Scegliemmo ambedue Medicina, io per passione e convinzione, lui per emulazione, per non interrompere il nostro rapporto, la nostra frequentazione. O forse fu il contrario, non lo so. Dividemmo così notti insonni, fatiche, ansie; ma anche progetti, passatempi, gioie. Fino all'ultimo anno della facoltà, quando ci orientammo verso interessi specialistici diversi e preparammo la tesi in Istituti distinti.

Eravamo amici che niente può separare, tranne la vita.

Il lavoro, la famiglia, la routine, la fatica di vivere, la noia finirono per allontanarci, per farci incontrare sempre più raramente, sempre più occasionalmente.

"Tu hai scelto Medicina interna ed io Psichiatria." - disse improvvisamente Antonio con tono accusatorio, come a volere imputare alla nostra attività professionale il fatale deterioramento di un’amicizia.

"Come mai hai scelto Psichiatria?" - ribattei – "Non ti ci vedo a curare matti."

"Me lo dici adesso!" - obiettò – "Dopo 30 anni!"

Ci abbandonammo ad una risata liberatoria. Poi restammo a guardarci in silenzio: io perso nei miei ricordi; lui, chissà!

"Da quanto tempo ci conosciamo?" - tornò a domandare Antonio, dandosi da se stesso la risposta – "Da quarantadue anni?"

"Da 42 anni." - confermai.

"Sei la persona che conosco da più tempo e che mi conosce da più tempo." - continuò Antonio – "Pensi che io possa venire qua, a casa tua, a raccontarti fesserie?"

"No. Non credo." - risposi con convinzione – "Non ne vedo il motivo."

"Oppure credi che io possa partire di testa?" - domandò con aria investigativa.

"Beh, sai… chi pratica lo zoppo…" - lanciai la battuta che nessuno dei due trovò divertente. L'atmosfera s’era fatta tesa. Antonio inspirò profondamente: eravamo giunti al dunque.

"Voglio riferirti una mia esperienza professionale." - spiegò – "Mi serve il tuo giudizio: di medico e di amico."

2 - Il racconto di Antonio

Alcune sere fa, credevo d’avere finito le visite; avevo congedato l'infermiera e m'apprestavo ad uscire. In sala d'attesa c'era ancora un uomo: seduto su una poltrona, leggeva tranquillamente una rivista, come se aspettasse d’essere chiamato al suo turno. Non si scompose quando gli domandai:

"Avevate appuntamento?"

Richiuse la rivista lentamente e la ripose con delicatezza, come se avesse tra le mani un oggetto estremamente fragile. Rimanendo seduto, rispose:

"I miei ritmi non mi consentono di stilare programmi di nessun tipo. No. Non avevo appuntamento."

Lo esaminai con attenzione professionale. D'età indefinibile, ma certamente sopra i quaranta anni, presentava due caratteristiche immediatamente osservabili: un’estrema magrezza e il volto coperto da una fitta ragnatela di profonde rughe. Se fosse stato abbronzato, avrei dedotto di trovarmi di fronte ad un marinaio. Invece, la sua pelle era chiara, di un pallore insano, come di chi è reduce da una lunga degenza o da una pluriennale reclusione.

Teneva sul capo un berrettino verde, di tessuto leggero, simile a quelli che portano talvolta i ciclisti: non lo tolse mai, per tutto il tempo della nostra conversazione.

Guardai l'orologio: mancava un quarto alle nove.

"Beh!" - mi decisi – "Vi ricevo. Venite di là."

Lo introdussi nello studio dove prendemmo posto secondo le regole: io dietro la scrivania, lui su una poltroncina davanti a questa. Non intendevo porre domande: se era arrivato lì, avrebbe parlato.

"Non sembrate meravigliato della mia invadenza." - debuttò – "Chissà quante ve ne sono capitate nella vostra carriera!"

"Di solito ricevo per appuntamento." - precisai.

"Lo so." - ribatté – "Mi sono informato sul vostro conto. Fa parte del mio mestiere."

"Che mestiere fate?" - indagai.

"Non è un mestiere." - si contraddisse – "E' un'attività ancora non riconosciuta dalla scienza ufficiale."

Quell'uomo cominciava ad incuriosirmi, ma non volevo farlo intendere. Guardai l'orologio con ostentazione, per indurlo a concretizzare, senza divagare ulteriormente. Sembrò comprendere il mio gesto, perché, con tono deciso, riprese:

"Dottore, lei mi guarda e vede un uomo, simile, né più né meno, ad altri uomini. Magro più del normale, è vero; invecchiato precocemente, anche questo è vero. Ma indistinguibile dagli altri uomini. Se mi toccate, mi sentite solido, fatto di carne, ossa, sangue e nervi, come tutti gli uomini. Ma questo è un inganno. Io non sono un uomo." - fece una pausa drammatica e concluse – "Sono un'anima in pena."

"Qual è la vostra pena?" - domandai con voce calma, professionale, per incoraggiarlo a proseguire in quella che ritenevo una confessione.

"Non potete comprendermi." - asserì.

"Perché siete venuto da me, allora?" - dissi, brusco.

"Ecco! Lo vedete?" - ribatté – "Voi siete convinto di trovarvi di fronte un malato di mente, un povero mentecatto bisognoso delle vostre cure e non sapete invece quanto siete lontano dalla realtà. Io non sono un uomo, quindi non ho bisogno della vostra scienza."

"Chi siete, dunque?" - sbottai con voce malferma.

Sembrò esitare, prima di rispondere:

"Sono un'idea astratta che la paura dell'umanità ha reso concreta. Mi hanno dato tanti nomi nell'arco dei secoli, nomi che solo a pronunziarli incutevano terrore: peste, colera… Adesso mi chiamano il male del secolo."

"Cos'è che siete?" - feci, a voce più alta di quanto avrei voluto.

"Io sono il cancro."

Pronunziò queste parole con voce tranquilla, come se si fosse presentato, come se avesse detto:

"Sono il ragioniere Rossi."

Fin dalle prime parole di quell’uomo s’era insinuata in me un’indefinibile sensazione che era andata gradatamente montando. Avvertivo i battiti cardiaci accelerati, un’eccessiva sudorazione della fronte e delle mani, un vuoto alla bocca dello stomaco. Fenomeni per me insoliti e che, in assenza di opportuni sinonimi, posso definire paura. Si. Ebbi paura. Paura di quell'uomo o di cos'altro rappresentasse. Paura di me stesso, delle mie reazioni. Mi alzai per fare qualche passo nella stanza, stizzito nel vederlo sempre comodamente e tranquillamente adagiato sulla poltroncina.

"Avevate detto di essere un'anima in pena." - dissi, speranzoso.

"Lo sono in pena, lo sono." - affermò – "Da quando ho preso coscienza del mio ruolo, soffro e mi dispero senza speranza. Voi mi capite? Sono il nunzio innocente di tremende sventure, temuto ed odiato da tutti."

"Vorreste essere amato?" - domandai, per stare al suo gioco.

"No." - dichiarò – "Io stesso odio quello che sono, ma non posso essere altri."

Nella mia carriera ho visitato, curato e talvolta guarito svariatissimi tipi di malati: schizofrenici, paranoici, esaltati, depressi e malinconici. Quell'uomo sfuggiva ad ogni tentativo di classificazione; non riuscivo ad inquadrarlo in nessuna categoria di malattie mentali. Riuscivo soltanto a provarne timore, come se rappresentasse per me un pericolo incombente.

Quasi avesse letto nei miei pensieri, quell'essere aggiunse:

"Non tentate di formulare una diagnosi, non ci riuscireste. Non sono uno dei vostri malati che crede d’essere Napoleone o Giulio Cesare. Io sono quello che sono. Io sono il cancro. Terribile e quasi invincibile."

"Quasi?" - feci esitante.

"Non sono invincibile…" - continuò – "…perché sono sazio di vittorie: desidero perdere."

"Com'è possibile vincere contro di voi?" - domandai.

Si alzò, finalmente, e, dirigendosi verso l'uscita, spiegò:

"Se mi affronteranno due anime forti, unite e coerenti, sono destinato a soccombere."

"Perché siete venuto a raccontarmi tutto questo?" - fu la mia ultima domanda.

"Se sono venuto a trovare voi, un motivo c'è." - disse. E uscì.

3 - La diagnosi

Il racconto di Antonio m'aveva lasciato sbalordito. Adesso toccava a me azzardare un tentativo di classificazione: cosa aveva indotto il mio amico ad inventare quella storiella?

Lo fissai con attenzione e scorsi la verità:

"Tu ci credi!" - esclamai – "Hai ricevuto la visita di un paranoico… e gli credi. Sei convinto d’avere incontrato un'entità astratta, soprannaturale, di avere parlato con l'ombra delle nostre paure, fattasi corpo. Perché?"

La risposta fu immediata. Antonio tirò fuori da una borsa che aveva con sé numerose buste di vario colore e le dispose sul tavolo davanti a me.

"Da due giorni tengo lo studio chiuso." - spiegò – "Ho fatto qualche accertamento. Sai com'è! una cosa tira l'altra. Guardali."

Esaminai le lastre radiografiche, i referti delle ecografie, delle scintigrafie e degli esami di sangue; controllai e confrontai il nome impresso sulle lastre con quello stampato sulle buste.

"Sono le mie." - commentò Antonio – "Non ci sono dubbi."

Non occorreva un'alta specializzazione per porre diagnosi. Un intero polmone era invaso da un esteso processo neoplastico che infiltrava anche il mediastino, le costole e le vertebre. Metastasi erano già presenti in varie zone dello scheletro e nel fegato. Nonostante l'apparente benessere del soggetto che mi stava dinanzi, il cancro aveva invaso il suo organismo. In breve ne avrebbe minato ogni resistenza: per Antonio non c'era speranza.

"Sai di che si tratta?" - feci esitante.

"Si." - rispose con sicurezza – "Sono stato visitato dal cancro."

Ero consultato come medico e come amico. Non volevo che l’uno prevalesse sull’altro o viceversa, e avrei preferito rinunziare ad ambedue gli incarichi.

"Povero Antonio!" - pensai – "Ha avuto bisogno d’inventare una storia fantastica per trovare il coraggio di venirmi a chiedere aiuto. Di tanto ci siamo allontanati!"

"Che mi dice, dottore? Mi conviene disdire le vacanze estive?" - fece Antonio, nell'amaro tentativo di buttarla sul ridere.

"Di certo, non è cominciato tutto alcune sere fa." - dissi, convinto. Chissà quanti sintomi, comparsi nei mesi scorsi, erano stati minimizzati, sottovalutati, trascurati, come avviene spesso ai medici quando si tratta d’indagare su loro stessi: a causa degli impegni e della convinzione di possedere il potere di tenere lontano da sé ogni tipo di malattia.

"Non importa quando è cominciato." - dichiarò Antonio – "Appena ho avuto i referti ho subito pensato a te."

"Non sono un oncologo." - dissi, sconsolato.

"Non mi serve un oncologo." - precisò; poi, con crescente entusiasmo – "Capisci? Siamo noi le due anime forti che, uniti, lo sconfiggeremo. Insieme abbiamo sempre vinto, lo ricordi?"

Non mi sovvenivano episodi di vittorie ottenute insieme. S’era fatto il ’68, lottando per una maggiore libertà e una migliore democrazia. La fantasia al potere. Eravamo giovani, colmi d’entusiasmo e disposti a considerare vittoria una serie di sconfitte onorevoli. Adesso ero stanco. Stanco di confrontarmi quotidianamente con la morte ed uscirne vinto. Antonio m’invitava ad una nuova battaglia persa in partenza ed ignorava quale sacrificio mi stesse richiedendo.

"Lotteremo insieme, Antonio." - assicurai – "Conosco alcuni Centri altamente specializzati dove ho già inviato miei assistiti. Ci andremo insieme, ti accompagnerò. Quanto di meglio la scienza può ottenere, sarà tentato."

Colsi lo sguardo scettico di Antonio; non potevo ingannare un collega. Le sue parole erano tristemente vere, quando affermò:

"La scienza attuale non può fare niente per me. Né io chiedo nulla alla scienza. Ma, per fortuna…" - continuò – "…abbiamo un'altra strada."

Comprendevo lo stato d'animo del mio povero amico, per avere, altre volte, affrontato analogo fenomeno: la magia, il soprannaturale come ultima ratio, l'estrema speranza laddove la logica, la scienza è fallita o è impotente. Comprendevo, ma non potevo assecondarlo in quest’iniziativa.

"Antonio." - spiegai – "Cerchiamo d’essere scientifici, come siamo sempre stati e come ci hanno insegnato ad essere. Tu dichiari di avere incontrato un, come dire, un fantasma? Una malattia fattasi corpo…"

"Lo so." - m'interruppe – "E' assurdo, ma è la sacrosanta verità. Io l'ho visto, ho parlato con lui… Dobbiamo cercarlo." - implorò – "Affrontarlo insieme."

"E poi." - continuai – "Che facciamo? Lo afferriamo per il collo? Lo denunziamo alla polizia?… Magari lo uccidiamo, eh, che dici?"

"Ce lo dirà lui cosa fare." - affermò Antonio con tono convinto ma non convincente – "Se lo affrontiamo uniti, ci dirà lui come sconfiggerlo. Non vuole vincere questa battaglia: me l'ha detto."

Fissai il mio amico con compassione: lo vedevo vinto nello spirito, ancor prima che nel corpo.

"Comprendo cosa hai provato in questi giorni e cosa provi adesso." - conclusi – "Domattina farò qualche telefonata, fisserò appuntamenti, partiremo… Lotteremo insieme."

Chinò la testa e sussurrò:

"Come vuoi tu."

M'illusi di averlo convinto. Ma, nel congedarsi, dichiarò con la solita risolutezza che ben gli conoscevo:

"Una cosa è certa. Io non morirò di cancro."

4 - La vittoria di Antonio

Antonio mantenne la promessa.

Gli telefonai a casa, nella tarda mattinata, per annunziargli:

"Ho chiamato Parigi. Ci aspettano per dopodomani. Possiamo prendere il volo diretto: ho già prenotato tutto, aereo e albergo."

"Mia moglie non sa niente." - disse. Questo era un problema, ma suggerii subito una soluzione:

"Diremo che andiamo per un Congresso. Poi si vedrà."

Non accennò più al racconto sullo strano visitatore. Mi sembrò tranquillo, rassegnato ma tranquillo: disposto, insomma, a lasciarsi guidare e sostenere da me.

Contavo di richiamarlo nella serata. Mi stupii ricevendo, nel pomeriggio, una telefonata di Sara, la moglie di Antonio. Interrompendosi più volte, con la voce rotta dalla commozione, m'annunziò:

"L'infermiera era andata allo studio per le pulizie… Lo ha trovato lei… C'era una pistola… Antonio si è ucciso."

Mi prese un fremito che riuscii a stento a contenere, un’incontrollabile rabbia nei confronti di me stesso. Conoscendo Antonio, me lo dovevo aspettare. Dovevo prevedere il suo gesto. Era mio obbligo, di medico e di amico, intuire che le sue parole nascondevano un’estrema determinazione: a modo suo, Antonio aveva vinto la sua battaglia. Non era morto di cancro.

Non comprendevo però il motivo della telefonata. Che io sapessi, Sara era all'oscuro del mio recente incontro con il marito. Alla mia domanda inespressa, rispose:

"Antonio ha lasciato una lettera per te." - e poi – "C'è qui un commissario che vuole parlarti. Te lo passo."

S'intromise una voce maschile:

"Sono il Commissario Sommatino." - disse – "Durante il sopralluogo nello studio abbiamo trovato una lettera indirizzata a lei. Non l'abbiamo aperta, ma sono sicuro che lei non avrà nulla in contrario a mostrarci il contenuto."

"Dove siete?" - domandai.

"Se viene subito, mi troverà in casa del dottore."

Sara m’accolse in lacrime; cercai invano di consolarla.

"Perché l'avrà fatto?" - si domandava.

"Non lo so." - mentii.

Le lettera era in una busta chiusa su cui stava scritto: Dopo la mia morte consegnatela al mio amico N. Dier.

Aprii la busta; al suo interno c'era un foglio ripiegato sul quale Antonio aveva scritto la data di quel giorno e una sola parola:

"Perché?"

Perché, cosa?

Perché si muore?

Perché proprio a me e in questa maniera?

O, forse:

Perché non mi hai creduto?

Perché non mi hai assecondato?

Ecco, questo credo che Antonio volesse e si aspettasse da me: essere assecondato in questa sua ultima speranza. Contro ogni logica, contro ogni fredda elucubrazione scientifica, avrebbe voluto finire i suoi giorni sapendomi accanto in un’irrazionale lotta contro l'ignoto.

Non era sua intenzione morire commiserato ed assistito come malato terminale, sostenuto da fleboclisi e morfina. Voleva chiudere la sua vita come una favola: due cavalieri senza macchia e senza paura che si battono contro il drago cattivo.

Al Commissario non potevo mentire. Spiegai a lui e a Sara quello che sapevo: della malattia di Antonio e della sua muta disperazione.

Tacqui su tutto il resto.

5 - Epilogo

In chiesa il prete ebbe parole di elogio per il defunto e di conforto per i presenti. Prima della tumulazione, Sara volle che io dicessi qualcosa. Temevo quel momento. Avevo voglia di chiedere ad Antonio perdono in pubblico, perdono per averlo abbandonato alla solitudine e alla disperazione che la scienza sa dare e che la fede soltanto riesce a mitigare. Trovai la forza di dire poche parole:

"Non ti dimenticheremo mai."

Uscendo dal cimitero incrociai alcuni operai che lavoravano ad un’aiuola. Uno di questi, pallido e magro, portava sul capo un berrettino verde simile a quello dei ciclisti. Quando incontrò il mio sguardo, strizzò un occhio e ruotò l'indice in un gesto mimico inequivocabile:

Ci vediamo dopo.

Andrea Didato