La casa del re
(Riccardo Coltri)




Il cacciatore spalancò gli occhi e si rizzò a sedere. Tolse frettolosamente
la brace dal piccolo pozzo a vapore e lo foderò dell'erba verde e bagnata
che aveva in precedenza raccolto.
Appena in tempo, riflettè, guardando la posizione del sole. Devo essermi
appisolato. Prese la carne e la verdura dal cesto e le pose all'interno del
pozzo; quindi ricoprì il tutto con un altro strato di erba bagnata e ci
versò sopra l'acqua necessaria per produrre il vapore. Di nuovo quello
stupido sogno. Si trovava sull'isola da più di un mese, e l'immagine di lui
che cadeva nel vuoto, spinto da chissà chi, era l'unica fantasia che il
cervello riuscisse a proporgli ogni volta che chiudesse gli occhi. L'unica.
Si accorse che la spia collegata al terminale all'interno della capanna
stava lampeggiando. Probabilmente era un aggiornamento della lista. Ci
avrebbe dato un'occhiata più tardi.
Coprì svogliatamente la bocca del pozzo con sassi piatti e un pezzo di
stoffa e andò a raccogliere della terra per impedire la fuga di vapore.
Guardò il cielo. Prima delle sette sarebbe venuta giù qualche goccia,
sicuramente.
Mentre attendeva che la cena si cuocesse, fece un altro giro di ispezione
per controllare che le trappole per i giullari fossero a posto. Ne aveva
piazzata una appena fuori della sua recinzione, una grossolana "schiaccia"
con due bastoni che reggevano una pietra piatta, l'esca al di sotto. Molto
semplice da cotruire, ma poco efficace, si rimproverò. I giullari non erano
così stupidi. Prima di sera l'avrebbe mimetizzata con delle foglie. Dove la
boscaglia si faceva più fitta aveva posto una trentina di lacci con asta a
scatto, la sua specialità. Bastava che uno di loro, attirato dall’esca,
mettesse un piede nel posto giusto, e sarebbe rimasto appeso a testa in giù,
con la caviglia legata al laccio: troppo in alto perche i suoi amichetti
potessero liberarlo. Contava di catturarne almeno una dozzina, in questo
modo.
Passò per lo stagno e verificò la funzionalità delle ultime. Sì, potevano
andare bene, aveva fatto un ottimo lavoro. Attirati dalla canna da zucchero,
sarebbero rimasti impigliati nei lacci e sarebbero caduti in acqua,
trascinando con loro delle pietre. Un galleggiante di sughero legato al
masso avrebbe rivelato la posizione, dopo che il corpo e la trappola fossero
stati in fondo allo stagno.
Il cacciatore trasse del tabacco dal taschino della giacca e ne masticò un
po'. Si chinò per sputare. Di nuovo si chiese perché quei piccoli bastardi
fossero così ghiotti di canna da zucchero. Per fortuna poteva sempre contare
sulle bacche di ginepro per fare il gin, perché, in quanto al rhum, se lo
poteva anche scordare, visto che tutta la canna da zuchero serviva per le
trappole. All’inizio si era stupito di trovare del ginepro a quelle
latitudini, ma poi aveva deciso di lasciar perdere.
La Casa del Re. Un insieme di rocce stregate, incandescenti nei mesi estivi
e gelide d'inverno. Da che il cacciatore aveva cominciato a recarsi lì
(erano tre anni, ormai), era capitato addirittura che nevicasse, una volta.
In novembre. Pochi centimetri, che si erano sciolti praticamente subito, ma
sempre neve era. E questo in un isolotto di origini vulcaniche, abitato
perlopiù da maiali e capre, donde l'ironico nome dell'isola, che risaliva al
periodo… Boh, non era mai riuscito a tenerlo in mente. Milleseicentoerotti,
comunque, quando c'erano sovrani, pirati, patiboli e gente che non ne poteva
più.
Tornò alla capanna e prese due sacchi di sabbia bianca e un carboncino.
Disegnò sulla palizzata delle complicate figure geometriche e fece la stessa
cosa con la sabbia, per terra, vicino all'entrata. Impiegò il resto del
pomeriggio. Quei simboli li infastidivano, chissà perche. Ed era sempre
meglio evitare che si avvicinassero troppo al rifugio. Vicino allo stagno,
prima, aveva visto i resti di un animale. Una capra, probabilmente.
Possibile che fossero già fuori? Erano un po' in anticipo. Ma non era il
caso di correre rischi. Si chiuse nella capanna ed accese il fuoco, sul
quale mise a bollire dell'acqua. Secondo il suo calendario era il trenta
novembre. I giullari, in genere, si svegliavano dal letargo verso i primi di
dicembre. Il cacciatore si sdraiò sul materasso e si mise a sfogliare un
libro di fiabe per bambini. Qualche minuto dopo, alzò gli occhi dalla pagina
ed inspirò profondamente dalle narici: sentiva, nell'aria, l'odore
dolciastro dello zucchero.
Erano loro. Quei maledetti si erano già risvegliati e si stavano
avvicinando. Si chiese se si fosse dimenticato di qualcosa, ma non gli
sembrava proprio. Aveva preparato tutto. Aveva costruito un centinaio di
trappole e rinforzato la palizzata con un'altra fila di paletti, piantati
verticalmente e legati insieme con corde e sartie. La malta l'aveva
fabbricata con olio di testuggine. I fucili erano carichi, provviste ce
n'erano in abbondanza. Come una formica laboriosa, in un mese aveva stivato
carne secca, verdura, semi essiccati, radici e bacche, di cui si sarebbe
nutrito durante i lunghi mesi della stagione di caccia, quando la raccolta
non sarebbe stata possibile. Quanto all'acqua dolce, non era un problema: il
fortino sorgeva in un'ansa dell'unico fiume dell'isola. Il cacciatore aveva
addirittura pensato di deviare un po' il corso dell'acqua e costruire un
fossato. Un fossato, come quello dei castelli, con tanto di ponte levatoio e
tutto il resto. Da quel che aveva capito, i giullari non sapevano nuotare.
Ma gli sarebbero occorsi mesi di lavoro, e adesso si era già in novembre.
Non c'era più tempo. Accese le candele, sprangò porte e finestre ed inserì
un dischetto nel cd dello stereo portatile, che, come il computer,
funzionava semplicemente a pile. Reggae classico. Sospirò e lanciò
un'occhiata al crocifisso appeso alla parete. Aveva ricominciato a crederci.
Ci sei costretto, se decidi di passare l'inverno alla Casa del Re.
La palizzata fu colpita da una biglia di ferro, a cui ne seguì subito
un'altra.
Si balla, pensò il cacciatore, balzando in piedi e prendendo il fucile.
Uscì dalla capanna e si appostò nel punto della recinzione dove aveva fatto
alcuni fori. In uno ci infilò la canna del fucile, chiuse l'occhio sinistro,
premette il grilletto e ne colpì uno in pieno volto. Guardò di nuovo
attraverso il foro rettangolare.
I giullari scavalcarono il corpo del loro compagno e ripartirono all'assalto
del fortino. Erano armati di biglie, fionde e spade della lunghezza di un
piede. Il cacciatore caricò il fucile con mani tremanti, e buona parte dei
proiettili finì per terra. Sparò di nuovo e di nuovo fece centro.
Cristo! - pensò spaventato - Cristo, quanti sono!
Tornò di corsa nella capanna e prese la pentola che aveva messo sul fuoco.
Si scottò. La trasportò fuori, sbuffando ed imprecando. La issò al di sopra
della palizzata e scaraventò l'acqua bollente al di là di questa,
ustionandone alcuni che stavano tentando di scavalcarla. Si chinò, raccolse
il fucile e spiò dal foro: vide un laccio scattare ed intrappolarne uno.
Perfetto. A lui avrebbe pensato più tardi. Fuori, l'orda dei giullari urlava
e scalciava e lanciava biglie contro la palizzata, evitando però di
avvicinarsi troppo alle figure geometriche che il cacciatore aveva disegnato
sul lato nord. Si udì lo scatto di parecchi lacci. Provenivano tutti dal
lato est, dove aveva messo il manichino. Il giorno prima, con della paglia,
aveva costruito un fantoccio, l’aveva dipinto di blu e l’aveva crocefisso su
due assi di legno legate insieme. Funzionava sempre. Inserì i
proiettili e fece ruotare il tamburo con il palmo della mano. Sparò senza
prendere la mira e sfondò la testa di un giullare, che cadde senza un
gemito. Il cacciatore emise un fioco "tz!" di disappunto.
Non alla testa, non alla testa, non alla testa, si ammonì mentalmente.
Ora stavano attaccando dalla parte sud. Il cacciatore si alzò, corse verso
quel lato della palizzata ed infilò il fucile nel foro. Doveva ricordarsi di
fare disegni su tutti i lati. Sparò quattro colpi di seguito, beccandone uno
e ferendone un altro al braccio, che scappò, barcollando, verso la foresta,
cadendo e rialzandosi. Il cacciatore lo lasciò andare. Prese la borraccia,
si rovesciò acqua sul volto e sulla testa e poi ne bevve una lunghissima
sorsata. Sto facendo un macello, pensò soddisfatto.Raccattò il fucile e
prese la mira. L'istante prima di sparare, si rannicchiò al suolo con un
lamento. Si tastò la nuca: sangue.L'avevano colpito con una biglia. Quegli
schifosi lo avevano colpito con una biglia!Arricciò il naso in una smorfia
furibonda. "Vi ammazzo tutti, bastardi schifosi!", ringhiò fra i denti, e
premette più volte il grilletto.
Per quattro ore, il cacciatore corse a destra e a sinistra all'interno del
recinto, cambiando di continuo fucile ed approfittando dei brevissimi
momenti di pausa per ricaricarli. Quando la situazione si fece critica,
verso le nove, salì sul tetto della capanna ed utilizzò il .353 Crosara con
mirino telescopico, ma lo fece a malincuore. Con il .353, c'era il rischio
che i corpi finissero carbonizzati. Il .353 era solo per i casi disperati. E
poi aveva munizioni solo per un mese. Riuscì ad impiegare per altre due
volte l'acqua bollente, poi, alle undici e mezzo, l'ultimo piccolo gridolino
acuto si allontanò in direzione della giungla e si spense nel buio.Il
cacciatore si accasciò al suolo, stremato.
Dio, quanti ne erano venuti. Un paio di centinaia, se non di più. Ma quanti
ce n'erano sull'isola? Rientrò nella capanna, starlco e indolenzito. Non si
sentiva più le dita.
Mise sul fuoco una tisana di erbe e, nell'attesa che cuocesse, medicò la
ferita alla testa, sobbalzando di dolore ogni volta che l'ovatta imbevuta
d'alcol si appoggiava sulla lacerazione. Fortuna che l'avevano preso solo di
striscio. Poi si preparò una sigaretta. Si ricordò della spia del terminale.
Si alzò grugnendo, si avvicinò alla tastiera e premette Fl. Sullo schermo
comparvero dei numeri. Il cacciatore cliccò sul mouse e fece proseguire la
lista verso il basso. Si fermò, aspirò dal rotolo e fece filtrare fuori il
fumo, lentamente. Aveva intuito giusto, era un aggiornamento. Il cacao a due
e cinque, la vaniglia a quattro e due. E il prezzo di un giullare era...
salito di... - mandò un fischio - 14O punti? Gesù d'amore acceso. Doveva
essere merito di quel nuovo spot pubblicitario.
Versò la tisana in una ciotola di terracotta e bevve una calda e tonificante
sorsata. Chiuse gli occhi e fece schioccare le labbra. Ottima, si
complimentò. Te la meriti. Centoquaranta punti...
Il mattino successivo era molto freddo. Al cacciatore parve perfino di
intravedere del bianco, qua e là, ma forse era solo brina. Aprì cautamente
la porta della palizzata e si guardò intorno. Il prato era disseminato di
cartucce. Raccolse i corpicini senza vita di ventiquattro giullari e li
accatastò in un angolo della capanna. Ventiquattro per
duemilaseicentoquaranta faceva - il cacciatore schiacciò l'uguale sulla
calcolatrice - Sessantaquattromilaottanta scudi. Bel colpo. Si avvicinò alle
trappole. Un giullare, appeso a testa in giù, privo del suo buffo copricapo
con i campanelli sulle punte e l'aria stremata, lo vide arrivare e si agitò
nel tentativo di liberarsi. Ma doveva essersi dibattuto tutta la notte. La
creatura agitò le minuscole braccia e digrignò i dentini limati a punta. Il
cacciatore si fermò e lo osservò, pensoso. Perché erano così simili a
bambini? Sospirò. Bambini con la pelle blu, vestiti da giullari.
Ecco cos'erano quei maledetti. Da dove venissero, nessuno lo sapeva, ma il
dato di fatto era che vivevano e prolificavano solo lì, alla Casa del Re,
insieme ai maiali, alle capre e ai gabbiani. E che al mercato sulla
Terraferma valevano centoquaranta punti in più, quella mattina. A voler dar
retta alla leggenda, erano stati trasportati sull'isola nel 1694 da navi
irlandesi, per ordine della Chiesa, che in quel tempo, oltre alle streghe,
combatteva anche i folletti. Il cacciatore non sapeva cosa pensare. Potevano
anche essere marziani cascati giù dal cielo, se era per quello. Il discorso
era che avevano la faccia da bambini. Coprì la testa del giullare con un
cappuccio, gli legò mani e piedi, lo tirò giù dalla trappola e lo portò
dentro il fortino. Fare l'ammazzagiullari era un affare. E non servivano
licenze di nessun tipo. Occorrevano solo adattabilità, pazienza e un po' di
fortuna, più una tutto sommato piccola somma per "noleggiare" l'isola per un
tot di tempo.Il cacciatore era alla sua terza stagione, alla Casa del Re, e
contava di proseguire ancora per un altro paio d'anni. Poi, probabilmente,
avrebbe aperto un ristorante in Costarica. Gran Paese, il Costarica: il
sole, il mare, il teatro Nacional di San Josè, le senoritas con i fiori fra
i capelli… C'era tutto l'occorrente per una vecchiaia serena. Il gridolino
da pipistrello del giullare lo riportò alla realtà. "E' inutile che strilli,
ragazzino. - disse l'uomo, aprendo un cassetto e brandendo un coltello da
cucina - Non serve a niente. La gente è cattiva, non lo sapevi?".
Afferrò con una mano la testa del folletto, spingendogliela all'indietro, e
gli conficcò la lama nel collo. Il giullare spalancò occhi e bocca,
incredulo. Fiotti di sangue nero gli affiorarono dalla gola. Il cacciatore
fece una smorfia disgustata: più che nero, quel sangue era di colore blu
scuro. Significava che era privo di ossigeno. La notizia che circolava era
che il blu della pelle fosse dovuto a disfunzioni cardiache. Trasposizione
dell'aorta e dell'arteria polmonare, per la precisione. Forse era per quello
che andavano in letargo nei mesi estivi. Ormai era scientificamente provato,
ma per fortuna erano ancora in pochi a saperlo: i prezzi sarebbero crollati.
Rigirò il coltello nella carne del folletto e fece leva verso l'alto.
Conosceva un tizio, uno un po' checca, che comprava pelle blu a trecento
scudi il metro. Ci faceva dei vestiti, da quel che ne sapeva il cacciatore.
Che mondo stupido, pensò, e rise a denti stretti. Eppure andava molto di
moda la pelle blu, soprattutto nel Nordeuropa. Con buona pace degli
animalisti e del WWF, che facevano manifestazioni di protesta in tutto il
mondo. Cosa sarebbe accaduto se la gente avesse scoperto che i jeans che
portava erano di quel colore perché i folletti non erano altro che dei
malati di cuore cronici? Scacciò dalla mente quell'ipotesi catastrofica.
Addio Costarica, ecco cosa sarebbe successo. Quando il corpo fu spellato,
staccò la testa della creatura. Le ossa erano molto fragili, ma bisognava
centrare il punto giusto, altrimenti il prezzo si abbassava. I teschi
venivano trasformati in portaceneri, vasi, oggetti d'ornamento e un sacco di
altre stupidaggini. C'era la folletto-mania. Era macabro, sì, e anche un
tantino ingiusto, ma - il cacciatore si asciugò le mani sul grembiule sporco
di sangue blu - porco diavolo se rendeva bene! Dopo che ebbe spellato e
decapitato tutti gli altri, addentò il tappo di sughero di una bottiglia, lo
sputò sul pavimento e si concesse una lunga sorsata di gin. Si asciugò la
bocca e ruttò. Il primo giorno non era stato niente male.
2 dicembre. Nonostante i cinque centimetri di neve, sulla Casa del Re stava
cadendo una pioggia calda. Il cacciatore spiò dal foro. Sollevò di nuovo il
fucile e fece fuoco. Si abbassò. "Diavolo!", imprecò. Quel giorno non aveva
proprio mira. Tornò di corsa dentro la capanna, afferrò la pentola e la
trascinò fuori. Un po' di acqua bollente uscì dal contenitore, scottandolo.
Il cacciatore strinse i denti. Issò la pentola e gettò il liquido al di là
della palizzata. Udì dei lamenti e sorrise. Piaciuto il bagnetto, piccoli
figli di puttana?
Si asciugò in fretta la fronte e raccolse il fucile di riserva. Sbuffò. Gli
occorreva un altro braccio, per stare dietro a quegli schifosi. Ne erano
arrivati tantissimi, stavolta. Si erano organizzati proprio bene. Continuò a
sparare, saltellando qua e là per il recinto. Lo stavano attaccando da tutti
e quattro i lati. Significa che i disegni sulla palizzata non funzionavano
più. Perché? I pelleblù indossavano i soliti vestitini verdi e i berretti
con i campanelli sulle punte, ma il cacciatore aveva notato qualcosa di
diverso, quella mattina. Un elemento estraneo. Uno di loro era differente
dagli altri, ne era sicuro. Ma ancora non… era riuscito ad inquadrarlo bene.
Si accosciò e sbirciò di nuovo il campo di battaglia. Là fuori si erano
dati appuntamento tutti i giullari della Casa del Re. Ognuno di loro valeva
almeno un sacchetto di scudi e… Il cacciatore socchiuse gli occhi e mise a
fuoco l'immagine. "Ma cosa stanno facendo?", si chiese ad alta voce. Sollevò
entrambe le sopracciglia e rabbrividì: si erano fermati! Il cacciatore fece
qualche passo indietro, confuso. Perché non combattevano più? Perché se ne
stavano lì impalati a guardare in direzione della giungla? Guardò anche lui.
Da dietro gli alberi ne stavano sbucando centinaia, e avanzavano disposti in
file ordinate. Alcuni di loro battevano su dei tamburi, altri innalzavano
dei gagliardetti. Acuto, nell'aria, si librò il suono di una cornamusa. Ecco
cosa stava succedendo: era arrivata la cavalleria.
Il cacciatore fischiò. "Fanno sul serio", riflettè, lottando per trovare la
cosa divertente. In fin dei conti, era come una recita scolastica. Solo che
quei "bambini", quando ci si mettevano, mordevano. Si grattò istintivamente
la mano con le dita mancanti, ricordo dell'inverno di due anni prima. Uno di
loro, in testa a tutti, stava osservando il fortino, facendosi schermo con
le mani. Si voltò verso gli altri e gesticolò, dando ordini in una lingua
che al cacciatore parve slavo, ma più probabilmente era celtico o irlandese
antico.
"Dev'essere uno dei capi. - intuì - Chissà che cosa sta dicendo?".
Finalmente ne vedeva uno. Era del tutto simile agli altri giullari, tranne
che per un particolare: il berretto bianco. Se avesse avuto anche la barba,
il cacciatore avrebbe detto che era il fratello cattivo del Grande Puffo.
Altri cacciatori suoi amici avevano avuto a che fare con una creatura come
quella che stava vedendo ora, ma lui, sulle prime, non ci aveva creduto. Ora
aveva la prova: quei piccoli bastardelli erano suddivisi in classi
gerarchiche. Ma perché era intervenuto anche il leader della comunità,
stavolta? Il cacciatore sparò un colpo e ridusse al silenzio il giullare che
suonava la cornamusa, la cui ultima nota fu uno sbuffo sfiatato e
melodioso. … Perché era intervenuto anche lui, maledizione? Sfilò la
sigaretta che aveva incastrato dietro l'orecchio e l'accese, proteggendo il
fiammifero con le mani. Stupidi ragazzini blu. Se credevano di spaventarlo…
"Se credete di spaventarmi - gridò - cascate male, perché io…". Ci fu un
lampo di luce bianca, a cui fece seguito un boato e un tremendo
scricchiolìo. Pioggia di sassi e legno. Il cacciatore si buttò a terra,
coprendosi la testa con le braccia. Appena il fumo si fu dissipato, si
rialzò e si guardò intorno, incredulo. Lo avevano bombardato! Controllò
subito se la palizzata fosse ancora intera: sì. Per fortuna aveva messo
un'altra fila di paletti. Ma con che cosa gli avevano sparato? Con una
catapulta? Sbirciò dal foro. Un folletto, lontano, stava guardando proprio
nella sua direzione, sorridendo, e gli puntava contro l'indice ad angolo
retto col pollice. Abbassò il pollice e le sue piccole labbra si mossero
fino a formare la parola: "Bang!". Il cacciatore emise un
sospiro tremolante. "Stupido nano irlandese", mormorò, e sputò la sigaretta
spenta. Raccolse il fucile ed infilò le cartucce. Ora gli avrebbe fatto
vedere. Mentre caricava, spostò distrattamente lo sguardo alla sua destra e
notò che un punto della palizzata si stava lentamente sciogliendo, colando
in filamenti come burro fuso e lasciando un'apertura del diametro di un
metro. Il cervello del cacciatore registrò la gravità della situazione, ma
tardò un po' prima di dare l'allarme. Serrò il fucile con uno scatto e fu di
nuovo sul punto di infilarlo nel foro per sparare. Sgranò gli occhi come per
un ripensamento e tornò a guardare la palizzata. "Dio…", mormorò.
Quando si risvegliò, con un dolore tremendo alla testa, pensò di essere già
all'inferno. Sbattè le palpebre. Si trovava sulla spiaggia nera della Casa
del Re, e circa duecento giullari lo stavano guardando arricciando il labbro
superiore e mostrandogli i dentini affilati. Aiutandosi con le braccia,
arretrò di qualche metro sulla sabbia nera. "Via! - gridò, facendo dei gesti
come per allontanare delle mosche - Andate via!". Si udì un brusìo, e il
gruppo di ometti blu si aprì in due file per far passare il leader, in piedi
sopra uno scudo trasportato da quattro servi, fiero ed impettito come un re
gallico. Solo allora l'uomo si accorse che il sole stava tramontan-do, e lo
guardò con aria trasognata. Il colpo che gli avevano dato alla nuca, dopo
che si erano introdotti nel fortino, lo aveva lasciato tramortito solo per
qualche ora. Sembrava un fatto accaduto giorni prima, invece era sempre il 2
dicembre. Spostò lentamente lo sguardo e notò i resti carbonizzati e fumanti
del suo motoscafo. Quei maledetti lo avevano trovato e gli avevano dato
fuoco. Anche il fortino, il suo bel fortino, poco più in là, era ridotto ad
un cumulo di macerie… Deglutì e si alzò in piedi, distaccato e beffardo. Il
leader saltò giù dallo scudo e si incamminò verso di lui con passi nervosi.
Era alto mezzo metro. Negli occhietti stretti come due fessure c'era tutta
la rabbia e la frustrazione di secoli di persecuzioni.
Quando fu vicino al cacciatore, alzò la testolina per guardarlo in faccia.
"Feuch an 'g canich!", esclamò, ponendo particolarmente enfasi sull'ultima
parola, ed indicò qualcosa in lontananza. Il cacciatore seguì la traiettoria
del suo ditino, ma non vide altro che acqua. Poi capì: l'oceano. Voleva che
se ne andasse dall'isola. A nuoto. Rise e scosse la testa, tremando.
"Fottiti! - ribatté - Da qui non mi muovo". Il folletto chiuse i pugnetti ed
irrigidì la mascella. "An 'g canich!". "Scòrdatelo, Grande Capo", ribadì il
cacciatore con più sicurezza, prendendo tempo. Non avrebbe potuto fare
l'eroe ancora per molto, però: gli serviva un'idea, e gli serviva subito.
Con la coda dell'occhio, calcolò quanti metri ci fossero da lì alla
boscaglia. Se l'avesse aggiunta, non lo avrebbero più preso (anche perché
correva più veloce di loro), ed avrebbe potuto usare i razzi di segnalazione
che aveva nascosto sopra la montagna: quelli della Guardia Costiera
sarebbero arrivati in meno di un giorno, e lui, nel frattempo, si sarebbe
nascosto nella grotta lì vicino. Poi si disse di non fare lo stupido: i
folletti erano armati di fionde e balestre, ci voleva un'idea un pelo più
intelligente. Dannazione. "Feuch an 'g canich!".
L'uomo deglutì ed arretrò. Non posso! - pensò confusamente - Non lo capisci
che non posso? Alcuni giullari si mossero verso di lui, ringhianti, ma il
leader fece loro cenno di fermarsi. Guardò il cacciatore con aria di sfida.
"Cothamòre, 'm avich", sibilò, annuendo. Lo disse con un tono da:
"D'accordo. L'hai voluto tu". Si tolse il mantello, sfoderò la spadina con
fare teatrale e consegnò il tutto a un servo. Arrotolò le maniche del suo
vestitino e, per un istante, il cacciatore ebbe l'assurda idea che re
folletto volesse fare a pugni. Il leader, invece, si sfregò le mani e poi
buttò le braccia in avanti, come a voler gettare via qualcosa. Il cacciatore
vide chiaramente un fascio di luce sprigionarsi dalle sue dita e rotolò per
terra, schivando il colpo. Dannato nanerottolo! - pensò, rialzandosi
subito - Ecco con che cosa mi hanno sparato, prima! Come accidenti ha fatto?
Finalmente la situazione gli apparve in tutta la sua folle realtà: era da
solo, su un'isola selvaggia dove si sarebbe dovuto morire dal caldo e invece
c'era freddo, impegnato a litigare con un mezzo uomo blu che conosceva la
magìa. Un essere che si batteva perché il suo popolo non fosse più
trasformato in vestiti e portaceneri. Si abbassò e schivò di nuovo il colpo.
I giullari si erano disposti in cerchio attorno ai duellanti, che ora si
muovevano con cautela in senso orario, studiandosi. Il cacciatore era alto
uno e ottantotto e pesava settantanove chili; il re dei folletti gli
arrivava alle ginocchia, ma era armato e incavolato. E si stava di nuovo
sfregando le mani. L'uomo si mise in posizione di difesa, pronto a buttarsi
a destra o a sinistra, a seconda della traiettoria del lancio. Una cosa era
certa: doveva assolutamente fare fesso quel tappo. Con un re morto, gli
altri giullari sarebbero stati meno pericolosi di una tribù di pigmei. Il
cacciatore si leccò le labbra. Fare scacco al re. Ecco, la cosa stava tutta
lì.
Guardò il folletto. Sinistra! Fu colpito di striscio. Risucchiò aria e si
rialzò, premendosi la spalla. "Cristo!". La vista gli si annebbiò quasi
subito. Cadde in ginocchio.
Re folletto si voltò verso il suo popolo e chiese qualcosa. Il cacciatore
riaprì gli occhi. I giullari si consultarono, soppesando la proposta del
leader. Poi, centinaia di manine voltarono il pollice verso il basso: niente
da fare. A morte. I battiti dell'uomo ripresero a galoppare.
Il re fece ruotare il braccio, si avvitò come un giocatore da baseball e
"sparò", ma il colpo finì a pochi metri da lui. Il cacciatore, dopo un
sussulto, ebbe la forza per arricciare verso l'alto un angolo della bocca.
Si alzò in piedi, lentamente. Deve aver finito le batterie. Sul suolo, nel
punto dove il leader aveva sparato, si materializzò una piccola sfera di
colore rosso, che prese a girare verticosamente su se stessa. Il debole
sorrisetto del cacciatore si raffreddò fino a diventare una smorfia
incredula. Oddio! - pensò terrorizzato, e ricadde in ginocchio - Ma quello è
un Carriga-pooka! Fu l'ultima cosa coerente che pensò. L'istante successivo,
la sfera si sollevò e partì verso di lui, che la vide ingrandirsi man mano
che si avvicinava. Prismi di colore azzurro-verde. Buio. Il cacciatore fu
percorso da una scossa e catapultato a terra, dove rimase, con tutti i
muscoli contratti. Rabbrividì di nuovo, battè i denti, inarcò la schiena in
uno spasmo e tentò con tutte le sue forze di resistere alla furia del
Carriga-pooka rosso che stava scorrendo dentro di lui come una scarica
elettrica. Sbloccò i polmoni e mandò un urlo, ma durò poco.
Smise di dimenarsi e rimase impietrito in quella posizione innaturale;
morto, ma rigido come un pezzo di legno, con l'elettricità rossa che non
aveva ancora smesso di scorrere nelle sue vene.
Quando sottili striscioline di fumo azzurrognolo cominciarono ad uscirgli
dalle orecchie, il leader alzò una mano atteggiata a coppa e richiamò a sé
la sfera, come in una ripresa filmata al contrario.
"Duat nac 'n at, Carriga-pooka!", disse, serio, indicando il cadavere del
cacciatore.
I giullari annuirono, d'accordo con quell'ipotesi.


(Riccardo Coltri, 1997. Racconto pubblicato su "Inchiostro" numero 12,
maggio 1997, con il titolo di "Cayo Enfermo". Seconda versione, allungata e
in parte riscritta: maggio 1999).




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