SANO DI MENTE

Quanto tempo era che Leon stava disteso sul letto ? Neanche lui lo sapeva e non era questo ad interessarlo ora. La sua mente in questi momenti era occupata a farsi largo nell’oscura foresta dell’ignoto, cercava disperatamente di avanzare, ma di continuo, una fitta barriera di cespugli, alberi e liane gli ostacolava la strada ed erano questi i momenti in cui Leon avrebbe desiderato mangiarsi da solo per autopunirsi dopo l’ennesimo insuccesso della sua mente nei meandri di ciò che l’uomo ignora, forse per sua fortuna o forse per sua rovina. Quando era disteso sul letto assumeva l’aspetto di un uomo in trance, è la sua posizione era quella dei cadaveri quando vengono deposti nelle bare, d’altronde, solo la fronte corrugata faceva capire a chi lo vedeva che Leon non era morto.

Da non molto tempo i pensieri di Leon si erano spostati su un argomento che subito si rivelò affascinante per lui. Sapeva che poteva essere delicato e pericoloso per la sua mente traballante, ma una forza oscura e, come lui era certo, maligna, gli intimava di proseguire, pur senza farlo sentire succube della sua autorità. Leon infatti da qualche tempo si stava chiedendo se fosse giusto accettare l’uomo come un suo simile oppure se lui, oltre a considerarsi un alienato mentale, doveva anche considerarsi un alienato sociale, nonché fisico, o almeno un alienato d’aspetto. Cominciò a riflettere sulla sua persona immersa nelle strade del suo piccolo paese natale, capì, ponendosi da un punto di vista estremamente esterno a lui stesso e alla società in cui viveva, come era solito fare nel dare certi giudizi, che osservare lui quando si mescolava alla folla, era come osservare una pecora in un branco di mucche, una boccia nera in mezzo a tante bianche o un ratto in mezzo a tanti scoiattoli. L’idea fu accolta con un certo disagio da parte del ragazzo, che aveva capito di aver compreso una realtà troppo inaccettabile per poter essere assorbita.

Adesso cominciò a pensare agli amici, forse il rimuginare sugli amici avrebbe potuto portare a galla qualche ricordo che avrebbe medicato la profonda ferita appena aperta da lui stesso nella sua anima. Pensò a tante cose belle, a tanti bei momenti passati insieme, ma non riuscì mai a trovare un momento di puro piacere passato con i suoi amici. La ferita continuava a sanguinare.

Ben presto si vide costretto ad uscire dal tunnel di pensieri che aveva creato e si mise a sedere sul letto, sgranando e strizzando gli occhi in continuazione, come fanno le persone appena svegliate. Poi sentì il suono del citofono, non si alzò per andare a rispondere, ma tese l’orecchio per cercare di capire chi avesse bussato. Da lontano riuscì a sentire la madre che diceva che Leon era in casa, poi sentì posare la cornetta del citofono. Capì che cercavano lui.

Aprì la porta della sua camera da letto e chiese alla madre chi fosse al citofono. La donna rispose che si trattava di Giacomo, che era venuto a fargli visita.

Mentre ritornava in camera sua Leon sentiva una bestia che gli divorava lo stomaco, era la fottutissima voce della madre che, come al solito, gli massacrava il suo tormentato cervello e in generale ogni fibra del suo corpo. Il tormento si allontanò piano piano, fino a diventare un debole starnazzare, poi cessò del tutto. La bestia allentò la stretta, poi lo abbandonò.

Leon si sedette di nuovo sul letto della sua camera, aspettando che il suo amico entrasse.

La maniglia si mosse e Giacomo entrò:

suo amico infatti sembrò non fare neppure caso alla risposta.

Giacomo diede un occhiata alla finestra che si trovava sulla parete opposta a quella dove stava il letto, poi si sedette sull’amaca, che si reggeva sulla maniglia della finestra e su di un robusto gancio inchiodato nell’armadio.

Leon sapeva che Giacomo, prima o poi, gli avrebbe posto questa domanda e dalla sera precedente si era preparato la risposta. Cercando di assumere un’aria disinteressata e tranquilla rispose:

Giacomo annuì. Aveva posto la domanda a Leon solo per una sorta di rituale, ma già sapeva la risposta: Leon aveva un odio per le sue amiche di liceo che superava anche quello di Wallace verso gli inglesi.

I due non aprirono bocca per un po’ di tempo e Leon si meravigliò di come il suo amico non si annoiasse nel restare in quella situazione. Poi lo vide osservare con una certa curiosità, nuova a dire il vero, il poster di Marilyn Manson che aveva sopra la sua libreria. Lo guardò per qualche minuto, si trattava di un poster un po’ vecchio, risalente all’epoca in cui Marilyn Manson era veramente un Maestro. Nel poster il cantante era ripreso mentre, vestito in un modo macabro e ripugnante, si depilava le ascelle e le braccia, seduto su di una sedia in una squallida e sporca stanza. Giacomo si alzò dall’amaca e si avvicinò al poster per vederlo meglio, poi i suoi occhi si spostarono verso Leon, che in quei momenti non gli aveva mai staccato gli occhi di dosso, e infine disse:

Leon rispose che si trattava del grande Marilyn Manson, cercò di trasmettere a Giacomo le sensazioni che l’artista riusciva a trasmettergli e ad un certo punto, mentre si dilungava sulle sue urla liberatorie e sublimi per la sua anima, sembrava addirittura animato da una forza nuova e inaspettata, poi lo scarso effetto delle sue parole su Giacomo lo riportarono al suo stato iniziale, tra l’apatico e l’irascibile.

Giacomo, si avvicinò alla porta, poi trasse dal suo zaino il libro di storia e disse:

Mentre Giacomo andava via e salutava sua madre, Leon udì la donna vomitare tutta una serie di scuse a proposito dello stato d’animo del figlio, disse che da un po’ di tempo qualcosa doveva turbarlo e altre cose del genere. Di nuovo la bestia attaccò Leon. Il ragazzo sentiva il suo amico smentire le parole della madre, dicendo ipocritamente che Leon stava bene a suo avviso e che non aveva nulla di strano.

Questa volta la bestia tormentò lo stomaco di Leon per più tempo. Il ragazzo prese a pensare a tutto il tempo durante il quale aveva sopportato i laconici richiami della madre, pensò ai suoi consigli senza senso, delle vere utopie a giudizio del ragazzo. Poi la bestia, lentamente sene andò anche sta volta.

Quella sera Leon non si unì alla famiglia per la cena, disse, come scusante, che aveva fatto diversi spuntini durante il pomeriggio; una scusa infallibile questa, che gli diede più tempo per riprendere i suoi pensieri a proposito della specie umana.

La forza maligna infatti era sempre presente vicino a lui e gli intimava di riaddentrarsi in quella giungla piena di insidie. Leon, adesso, era già nel folto della foresta, ma non riusciva a trovare ciò che cercava e cioè quale dovesse essere il suo comportamento a proposito della sua scoperta. Voleva sapere come si sarebbe dovuto comportare l’indomani, allorché avrebbe di nuovo vissuto fianco a fianco con la specie umana.

Presuntuosità, pietà, cattiveria, amicizia formale……..Alla fine pensò che la vista di un essere umano l’avrebbe aiutato a capire i sentimenti che ora, dopo la sua scoperta, provava nei suoi confronti.

Durante l’accavallarsi di questi pensieri Leon stava rannicchiato a terra, in un angolo della sua camera da letto e, quando gli venne l’idea, pensò dove avrebbe potuto trovare un essere umano senza muoversi da casa. Scartò l’idea della sua famiglia poiché non avrebbe avuto una reazione spontanea, con loro infatti ci viveva da sedici anni. Pensò allora di dare un’occhiata dalla sua finestra, che dava su di una strada abbastanza trafficata, ma quando si affacciò si accorse che le persone non erano visibili nel modo che lui voleva, da quella distanza e da quella posizione infatti, riusciva a vedere solo il cranio, per giunta da molto lontano. Stava per chiudere la finestra e ritornare, sconsolato, a sedersi a terra, quando vide, dalla finestra dell’appartamento di fronte a lui, una donna che stava lavorando su di un computer e istintivamente capì, da una rapida foto scattata ed esaminata dalla sua mente che quello era un buon soggetto su cui fare l’esperimento.

La conosceva, si trattava infatti di un’insegnante di informatica con la quale Leon più di una volta aveva scambiato parola, ma sicuramente la sua reazione sarebbe stata pura e limpida.

La donna, Leon sapeva che aveva trentacinque anni, aveva i capelli lisci di un color rame, che gli arrivavano sulle spalle, il naso non era piccolo, ma neppure grande, era in sintesi il classico naso delle donne ariane, di medie dimensioni ma non adunco, ne largo o appuntito. Gli occhi erano di un azzurro stupendo e la luce della lampada che la donna aveva sulla scrivania glieli metteva in risalto, facendoli brillare di una luce accecante agli occhi dell’anima. Il suo corpo era abbastanza proporzionato e non aveva nessun tipo di eccessi. Mentre Leon la osservava era vestita di un camicia blu scura a maniche larghe, ma non poté vedere altro, poiché stava seduta.

Leon si chiese come fosse possibile che quell’essere fosse un suo simile: i suoi occhi, i suoi capelli e, soprattutto, il suo modo di lavorare con calma e serenità……Quella calma e quella serenità tanto ignoti alla mente di Leon. Il ragazzo notò anche la posizione eretta che la donna aveva mentre lavorava, a corollario della sua calma e notando ciò pensò a quando lui era impegnato in lavori intellettuali e si piegava sul libro o sul foglio, cercando come un dannato di estorcere, con il suo atteggiamento rabbioso, informazioni ai testi scolastici. Non voleva e non sapeva dire se quella creatura fosse superiore o inferiore a lui, ma sapeva di sicuro che quell’organismo non era un suo simile e, inspiegabilmente eccitato da quest’idea, continuò a osservare la donna, cercando di ricreare anche il suo carattere in funzione dei pochi incontri che aveva avuto con lei.

Ricordava la sua gentilezza, quasi formale, che aveva nel salutare lui e le altre persone….E questo non depose in suo favore, Leon infatti odiava le formalità. Una volta, ricordò adesso, parlò con lui, naturalmente in modo molto pacato e cordiale, delle sue idee politiche, dicendogli del suo pensiero moderato, democratico e a favore delle classi più povere, in altre parole, pensò Leon, si trattava di una fottutissima borghese di sinistra… E nemmeno questo depose a suo favore.

Gentile, cordiale, borghese, moderata, era questo l’identikit della donna che Leon stava osservando. La sua mente fece immediatamente un confronto con il suo identikit: scortese, asociale, anarchico assoluto. Non c’era dubbio adesso che quella creatura non aveva niente in comune con Leon e il ragazzo si sentì autorizzato ad avere da lei tutto ciò che voleva, in altre parole era intenzionato a trattarla come un biologo tratta un topo di laboratorio.

Aveva gli occhi fissi sulla donna e i suoi pensieri si accavallavano l’un l’altro, il cervello quasi gli scoppiava e sentiva un mucchio di voci che lo incitavano a pensare ancor di più, a proseguire perché, adesso, era vicino alla verità, quando d’un tratto la donna tolse gli occhi dal monitor del suo computer e lo guardò. Migliaia di allarmi suonarono nella mente di Leon il quale subito cambiò espressione e, con un cenno del capo, salutò la donna, accompagnando il saluto con un sorriso tipico delle persone liete e tranquille. La donna, dal canto suo, rispose al saluto di Leon con un sorriso dolcissimo e altrettanto cordiale, misto ad una certa dose di formalità, poi, quando Leon si allontanò dalla finestra, riprese il suo lavoro.

Leon era un esperto nel cambiare velocemente aspetto, ma non per questo era un conformista, egli invece si riteneva un costumista dell’anima, capace di ingannare chiunque, allorchè ne avesse bisogno, sul suo vero aspetto. Al mondo c’era addirittura chi lo credeva un ragazzo equilibrato e perfettamente normale e c’era anche chi lo credeva un mistico o addirittura un pio !

Ma, nella stanza costumi dell’anima di Leon si era appena consumata una contesa, d’altronde senza speranza di vittoria per uno dei due contendenti. Alla vista dei dolci occhi della donna che fissavano Leon e, soprattutto, del suo sorriso, lo spirito umano del ragazzo aveva tentato di riemergere dall’abisso e di lottare contro l’entità maligna, ma quest’ultima, ora era troppo forte per poter temere lo spirito umano e, forse, lo era sempre stata, per cui fu facile per lei reprimerlo e rimandarlo da dove era venuto. La vista di quella donna che avrebbe potuto rendere Leon un essere umano, in realtà lo aveva reso un uomo completamente alienato, più diverso di quanto non lo fosse già prima.

Il giorno seguente Leon a scuola indossò la maschera del "normale" e, naturalmente, nessuno riuscì a scorgere la sua vera personalità. Questo lo faceva da tantissimo tempo, o meglio da quando aveva deciso di non emarginarsi completamente dall’uomo, ma di vivere a suo stretto contatto. Quando prese questa decisione Leon era ancora convinto che l’uomo fosse un suo simile, vale a dire circa due anni fa, ma questa idea era valida anche adesso, anzi, trovandosi in una gabbia di "diversi" era meglio non dare nell’occhio. Si sentiva in pratica come un infiltrato.

La mattinata passò tranquilla, uscito dalla scuola fece un tratto di strada con Lisa, la ragazza della festa, la quale non aveva niente contro di lui e, se Leon fosse stato una persona normale e integrata nella società, probabilmente sarebbe potuto diventare un ottimo amico della ragazza, ma, non sapeva perché, non riusciva a sopportare la sua vicinanza, sembrava che lei lo scrutasse e lo giudicasse in modo inquietante, era come quando una persona che di norma non vive a contatto con gli animali si trova di fronte a un cane che l’annusa e la scruta con aria enigmatica.

Alla fine Lisa svoltò nel vicolo dove abitava e Leon proseguì diritto.

Il ragazzo adesso era arrivato vicino a casa sua, quando dal portone del palazzo di fronte vide uscire la donna che aveva visto ieri dalla sua finestra.

Leon fu colto di sorpresa, fino a quell’istante, da quando aveva visto la donna uscire dal portone, era stato assorto dalla leggiadra camminata di lei: elegante, diritta, composta, con gli occhi leggermente rivolti verso il basso. Solo la sua perizia di trasformista riuscì a salvarlo e assunse l’aria di chi ha qualcosa di importante da pensare, del tipo il compito di domani, l’interrogazione negativa di oggi e cose simili. Poi rispose:

Leon sorrise e la donna rispose al sorriso, assumendo lo stesso aspetto che aveva assunto quando lo aveva visto ieri alla finestra.

Mentre ci fu questo scambio di sorrisi i due si allontanarono l’un l’altro e si salutarono con un cenno del capo. Leon nel frattempo, pensò all’ipocrisia della donna, sicuramente infatti essa sapeva di essere bella, ma fingeva di non saperlo………O forse davvero non lo sapeva ? Subito il ragazzo si voltò e prese a osservare la donna che si allontanava. La vedeva camminare sempre in modo elegante, con i capelli lisci che si muovevano leggermente sulle spalle come dotati di vita propria e, sotto quei capelli, Leon sapeva che c’era il cervello della donna. Ma a cosa penserà ?……Ma, in fin dei conti, sono sicuro che pensa ? Queste furono le domande della mente di Leon, nel vedere la creatura allontanarsi. Non aveva un pensiero politico degno di tale nome, non si incazzava mai, era sempre gentile, lavorava freddamente al suo computer…..Tutte le cose che faceva Leon, quella donna non le faceva e viceversa, adesso Leon non aveva più dubbi, quell’essere, fosse stato vivo o morto, era la stessa cosa.

Leon stava salendo le scale, lento e soprappensiero, la donna infatti era sempre nei suoi pensieri e in modo particolare i suoi occhi: azzurri, profondi, del colore del mare sotto il sole d’agosto, con tutti quei luccichii. Avesse potuto averli ! Avesse potuto comtemplarli, ammirarli come due gemme…..Deposti in vasetto sotto alcool ! Non appena Leon pensò a quest’idea una voce cominciò ad incitarlo fortemente, in modo continuo, ossessivo, addirittura forsennato gli diceva: - prendile gli occhi, prendile gli occhi, prendile gli occhi…….. -. Proseguiva sempre, non gli dava il tempo di pensare, di riflettere se appropriarsi di quegli occhi fosse giusto o sbagliato e sapeva che finchè non si sarebbe deciso a strapparle gli occhi, quella voce non avrebbe cessato. Quando finì di salire le scale e bussò alla porta di casa sua, già l’idea di uccidere la donna e di rubarle gli occhi veniva presa in seria considerazione da Leon.

Pranzò con molta velocità, durante il pranzo infatti, il ragazzo non riusciva a pensare, e subito dopo andò in camera sua a pensare agli occhi dell’insegnante di informatica.

Ora se l’immaginava nel vasetto sotto alcool, poggiati sulla sua libreria, che si muovevano leggermente nel liquido trasparente, ma la voce interna non si era ancora fermata, Leon infatti, non aveva ancora preso una decisione definitiva, ma sapeva che doveva farlo e, se voleva che la voce smettesse di incitarlo, lui doveva ucciderla e prenderle gli occhi. Dopo aver riflettuto ancora un po’ sull’idea pensò che prenderle gli occhi sarebbe stata la cosa migliore, poiché capì che erano gli stessi occhi della donna a incitarlo, apparendo nella sua mente e dicendogli in continuazione: solo così potrai averci per sempre !

Aveva deciso, l’avrebbe fatto. L’ultima barriera e cioè sul modo in cui l’avrebbe fatto e quando l’avrebbe fatto, crollò allorchè il ragazzo si ricordò che la donna da un periodo di tempo tornava la sera tardi da scuola, probabilmente occupata in consigli e cose varie, e sarebbe stato più facile rubarle gli occhi quando c’era poca gente per le strade. Adesso la voce cessò, ma non prima di aver riso in modo che arrecò molto piacere a Leon….Poi pensò che forse era stato proprio lui a ridere in quel modo macabro e sguaiato !

Ore 21.15.

Come un leopardo che con il suo mantello si mimetizza perfettamente nella savana cacciando le antilopi, così Leon stava nascosto, vestito interamente di nero, con un cappotto di pelle che gli arrivava ai piedi e che con il bavero gli copriva il collo, in un vicolo che stava poco prima dell’appartamento dove abitava la donna e, circondato da cassonetti della spazzatura che vomitavano lerciume e schifezze varie e avvolto nell’oscurità, aspettava che l’insegnante di informatica tornasse da lavoro.

Durante la giornata pensò molto ai sentimenti che avrebbe provato in quel momento, ma soprattutto pensò a cosa avrebbe provato quando l’avrebbe uccisa e poi quando le avrebbe preso gli occhi. Adesso stava provando molte di quelle sensazioni immaginate:

era infatti eccitato, contento e sapeva che fra poco avrebbe fatto qualcosa che lo avrebbe soddisfatto, altre invece, come la paura e la tensione, si rivelarono frutto della propria immaginazione, visto che era molto più teso quando andava la mattina a scuola che adesso ed aveva molta più paura ai compiti di matematica che ora.

Dopo circa un quarto d’ora di appostamento, vide da lontano una fiat punto gialla arrivare. Era la macchina della donna che in breve tempo superò il vicolo nel quale stava nascosto Leon ed arrivò con la vettura vicino al portone del suo appartamento, là la parcheggiò, poi spense il motore e, allora, Leon mise la mano all’interno del suo cappotto, dove aveva un grosso coltello da cucina, che aveva preso di soppiatto da una stipe, di nascosto dalla madre prima, di scendere. Lo tirò fuori e mise la mano nella quale aveva il coltello lungo il corpo, di poco spostata dietro il cappotto per non far vedere l’arma alla donna, poi uscì dal vicolo e si incamminò verso di lei.

Il ragazzo si avvicinava, in modo meccanico, il suo corpo non era più controllabile, mentre la sua anima era un tremito di gioia e, ad ogni passo che faceva verso la donna, aveva sempre nella mente gli occhi della donna nel vasetto sotto alcool.

Le arrivò vicino, lei stava chiudendo lo sportello della macchina a chiave e aveva la testa rivolta dal lato opposto a quello da dove veniva Leon. Il volto di Leon distava pochi centimetri dal suo adesso.

persona sconosciuta così vicina, poi riconobbe Leon e, con aria interrogativa, salutò il ragazzo, sorpresa di vederlo tanto vicino a lei, a quell’ora e da soli in strada.

La donna adesso era impaurita dall’aspetto di Leon, sta volta infatti il ragazzo non aveva il sorriso sulle labbra come le altre volte e la guardava fissa negli occhi, cosa che di solito non faceva. Anche lei ora lo fissava, con i capelli che gli venivano spostati tutti da un lato dal freddo vento d’autunno e lei che se li rimetteva a posto, cercando di capire cosa stesse succedendo al ragazzo, poi disse:

In quel momento la mano di Leon si era alzata dal corpo e, con un movimento rapido, aveva squarciato la gola della donna la quale cadde a terra e cominciò ad emettere gemiti soffocati, dibattendosi perché sentiva la morte attanagliarle l’anima. Il sangue sull’asfalto si aumentava formando una macchia macabra e inquietante di un rosso purpureo che nelle tenebre della notte sembrava quasi nero e Leon lo guardava finalmente veramente fiero di se stesso, poi spostava lo sguardo sulla donna che, con gli occhi azzurri sgranati, continuava a contorcersi a terra e si contorse fino a che Leon la sollevò per la schiena e, poggiatale la testa sul suo petto, le ficcò il coltello nel collo, facendolo fuoriuscire dalla parte opposta.

Adesso, finalmente, poteva contemplare gli occhi della donna per quanto tempo voleva e per un paio di minuti rimase a fissarli. Gli occhi, dopo che il coltello aveva trapassato il collo della donna, avevano assunto un’espressione maggiormente tranquilla di quando stava a terra a contorcersi e Leon non aveva mai avuto l’opportunità di vederli per tanto tempo, così da vicino e, soprattutto, con tanta tranquillità.

" Mettili nel vasetto….Mettili nel vasetto…."

La voce maligna proprio adesso aveva ricominciato a sussurrare all’orecchio del ragazzo, il quale subito si affrettò a fare quel gli comunicava, rallegrandosi del buon consiglio di quel qualcuno di cui egli ignorava l’identità. Estrasse, il coltello dalla gola della donna, emettendo un sordo gemito di piacere che fu la massima e migliore espressione di ciò che la sua mente malata e profondamente alterata provava in quei minuti e, in particolare, in quel momento, poi, con precisione chirurgica a lui ignota fino a quel giorno, tolse gli occhi dalle orbite della donna, con l’aiuto di un coltello, e li sistemò in un piccolo vasetto di vetro trasparente che aveva portato con se, riempì il vasetto con dell’alcool da cucina, preso, come il vasetto stesso, dalla tasca del suo cappotto, e, lasciata la donna distesa a terra senza le finestre della sua anima, si allontanò nell’oscurità senza sapere dove recarsi.

Dopo del tempo trascorso Leon si ritrovò in piena città….Certamente ne aveva fatta di strada senza accorgersene! Aveva camminato tutto il tempo in modo distratto e quasi incosciente, rallentando di tanto in tanto per ammirare quella meraviglia che aveva con se: gli occhi dell’insegnante di informatica, nel vasetto con l’alcool e con un velo rossastro che li nascondeva un po’, quasi come una donna che si copre con delle stoffe trasparenti. Ogni volta che li osservava era come un trionfo per lui, la sensazione che provava gli ricordava molto quella che provava da bambino quando aveva un giocattolo nuovo e, ogni volta che lo guardava, gli sembrava quasi impossibile che lo avesse tra le mani. A quella sensazione però sene mescolava un’altra di gran lunga più forte e più piacevole; un senso di perversione appagata e di definitivo distacco dall’umanità che lo faceva sentire leggero e……Onnipotente, molto onnipotente, in grado di rivaleggiare con dio e ringraziava di continuo quella voce che lo aveva spronato, domandandosi solo adesso chi fosse e arrivando alla conclusione che chiunque fosse, Leon poteva soltanto ringraziarla, non importava se si trattava del Diavolo o della sua psiche malata.

Una luna piena che a Leon ricordava molto l’aspetto di un freddo e pallido cadavere, sostava immobile, ripugnantemente immobile, nel livido cielo sotto il quale Leon si trovava a passeggiare con gli occhi in mano, in un parco deserto con la sola compagnia del rumore dei bicchieri di plastica che il vento sballottava qua e la. Poco dopo si sedette su di una panchina e, di nuovo, fissò gli occhi e, nel godere della solita sensazione sta volta pensò che, ora, doveva trovarsi un posto in cui rifugiarsi, visto che non poteva più tornare a casa e non poteva restare in giro tranquillamente poiché tra poche ore, se non lo aveva già visto, la gente avrebbe visto il cadavere sfigurato della donna in mezzo alla strada e, allora, la caccia al mostro sarebbe incominciata.

Poco prima dell’alba Leon trovò un vecchio edificio abbandonato nella parte vecchia della città e subito vi si infilò dentro, con lo stesso sollievo che prova una bestia braccata nel trovare un buco o una feritoia in cui nascondersi. Dentro non c’erano mobili, non c’erano pavimenti….Non c’era rimasto più niente e solo le finestre cigolanti facevano capire che li, una volta, c’erano delle persone ad abitarci, in compenso, ma questo non fece molto piacere a Leon, di fronte c’era un condominio regolarmente abitato (lo capì perché vide due donne rincasarvi).

La sua prima giornata da fuggitivo Leon la passò guardando il frutto del suo crimine e provando estasi di piacere, ogni volta che guardava gli occhi infatti provava sempre la stessa sensazione che aveva provato guardandoli la prima volta ed erano sempre belli, luccicanti e blu. Quando si appisolava li stringeva a se e prima di chiudere gli occhi controllava che il coperchio del vasetto fosse ben avvitato, vederli imputridire sarebbe significato morire !

Erano le otto di sera quando Leon si alzò da un angolo del locale nel quale stava accovacciato, per andare a vedere dalla finestra cosa succedesse per strada e nell’appartamento di fronte in quella serata che succedeva ad una giornata caotica in città, trascorsa da Leon ascoltando le numerose sirene, gli squilli dei clacson e i miliardi di parole della gente. La strada adesso era illuminata dalle luci artificiali dei lampioni e delle insegne e ancora, di tanto in tanto, si sentiva qualche sirena da lontano che condiva il comune rumore cittadino. Dalla finestra dell’appartamento di fronte invece, a circa 20 metri, Leon vide una famiglia che cenava con la TV accesa e dal piccolo schermo riuscì a vedere la sua faccia, poi, dopo alcuni secondi, apparve sul monitor l’immagine della donna che lui aveva ucciso, a terra nella pozza di sangue. Improvvisamente sentì un’orda di esseri selvaggi che lo assalivano, gli mordevano le carni e gli dilaniavano il cervello, urlandogli in continuazione di pensare a cosa fare, a dove scappare, avvinghiandosi sempre di più a lui e la cosa era strana perché Leon già sapeva che adesso sarebbe stato ricercato dalla polizia, ma solo adesso si rese conto di quanto fosse difficile nascondersi.

I mostri dell’ansia continuavano ad azzannarlo, sempre con più insistenza, con le loro domande alle quali esigevano immediatamente una risposta, poi tra la folla comparve la presenza demoniaca che aveva aizzato Leon all’omicidio, che il ragazzo pensava ormai averlo abbandonato, e con un solo colpo di voce allontanò tutte le creature che, in quegli istanti, assillavano Leon e il ragazzo improvvisamente si sentì rianimato da una forza nuova, era di nuovo un leone immortale e la società umana non lo avrebbe spaventato…..Anzi proprio adesso l’avrebbe affrontata: sarebbe uscito da quell’edificio e avrebbe camminato finchè qualcuno non avrebbe tentato di importunarlo e allora avrebbe lottato come una bestia, aiutato dalla presenza maligna sua amica, per essere lasciato in pace, con i suoi occhi.

Prima di uscire dalla stanza dell’edificio tirò il vasetto contenente gli occhi fuori dalla tasca del cappotto e li fissò ancora una volta e, ancora una volta, alla loro vista sul suo volto si disegno un sorriso enigmatico di chi è felice e basta. Li contemplò per alcuni secondi poi se li rimise in tasca e scese le scale.

Era quasi arrivato all’uscita quando, sull’ultima rampa, incontrò un bambino che stava seduto su di un gradino a divorare una barretta di cioccolato. La creatura aveva circa sei, sette anni, il suo corpo era largo e pingue con la pelle liscia e senza una piega, ben distesa dal grasso abbondante su tutto il corpo. Il collo era simile a quello di un tricheco e le mani del bambino erano intrise di cioccolato, così come la bocca e la punta del naso. Leon fissò per qualche secondo quell’untuosa creatura intenta a mangiare come un automa e nella sua mente si susseguirono come in un film le immagini della sua infanzia, popolate da creature grasse e prepotenti come quella che ora gli ostacolava la strada e lo fissava con aria da ebete e che una volta, quando lui era un bimbo timido e introverso, lo dominavano con la loro voce pesante e le loro mani voluminose. A quei pensieri irrigidì tutti i muscoli facciali, poi, prese il coltello che aveva nella cinghia e lo nascose dietro la schiena, mentre il ciccione continuava a fissarlo.

Leon sospirò profondamente come chi deve svolgere noiosamente un compito indesiderato, poi il suo volto si contrasse immediatamente in una smorfia di odio e di cattiveria, mentre toglieva il coltello da dietro la schiena e lo infilava nel grasso collo del bambino, facendoglielo uscire dalla parte opposta e facendolo penetrare nel muro dietro la sua testa. Sul viso del bambino che adesso stava "inchiodato" nel muro, rimase un espressione da ebete che tanto si addiceva al suo aspetto da macchina divora cibo e il sangue disegnò sul suo largo collo oscene figure astratte che tanto piacquero alla mente di Leon, ma che avrebbero ferito profondamente qualsiasi mente sana li avesse osservati. Lo osservò per qualche secondo, poi uscì tranquillamente dall’edificio e cominciò a camminare in strada.

Veniva guardato, naturalmente con aria indifferente, come sempre avviene nelle strade, ma a Leon sembrava che quelle persone lo scrutassero con aria interrogativa, minacciosa, e si aspettava che da un momento all’altro una voce si alzasse nella folla gridando: "eccolo è lui….Il mostro !". Una miriade di facce gli passava davanti agli occhi e ognuna di quelle facce era diversa e, nello stesso tempo, uguale alle altre. Mentre provava questa sensazione non aveva paura, era solo allerta in attesa di doversi scontrare per l’ultima volta con la razza umana e camminava, al contrario di quanto si potesse pensare, in modo fiero, impettito e guardava fisso negli occhi ogni persona che gli passava davanti, ma a questa provocazione nessuno rispondeva e, calando gli occhi a terra, lo oltrepassavano senza farci molto caso.

Dopo aver camminato per poco meno di un’ora, Leon si sedette su di una panchina, estrasse gli occhi dalla tasca e prese ad osservarli di nuovo. Lì guardava come un padre guarda la propria piccina a un saggio di danza, muovendo la testa di tanto in tanto per poterli vedere da diverse inquadrature e, quando per vederli come voleva doveva muovere troppo la testa, allora girava il barattolo, ammirandoli poi in quella loro nuova posizione, con un sorriso di fierezza e tenerezza sulla bocca.

Mentre Leon era intento nell’unica attività che gli procurava gioia nella vita, qualcuno si era avvicinato con aria curiosa a quel ragazzo assorto nella contemplazione un vasetto con due palline dentro. Naturalmente buona parte dei curiosi credette che non si trattasse d’altro che di una semplice palla di vetro, ma qualcuno, oltremodo curioso, non si era arreso a quella banale spiegazione e si era avvicinato ancora di più e per più tempo per vedere meglio di cosa si trattasse. Un uomo che si era avvicinato alla panchina ad un certo punto mutò l’espressione di curiosità che aveva sul viso in un espressione di profondo orrore e di paura animalesca e, avvicinandosi ad un ragazzo appoggiato ad un palo della luce, gli sussurrò senza muovere il capo: - Guarda, quello è il pazzo che sta sera hanno fatto vedere in televisione -.

Il ragazzo assunse un’aria stupita e chiese all’uomo cosa stesse dicendo. L’altro rispose:

Il ragazzo vi si recò subito, anche se continuava ad essere piuttosto sorpreso, lui infatti, gli assassini li aveva sempre visti in televisione e mai nella realtà, anche quando ne parlavano i giornali, per lui era sempre come se si trattasse di fiction.

Probabilmente qualche passante aveva sentito l’uomo sussurrare al ragazzo e adesso una piccola folla si era radunata ad una riguardevole distanza da Leon, il quale continuava ad essere catturato dagli occhi nel vasetto. Cinque persone prima, una decina poi e adesso circa una trentina di persone stava osservando Leon, chi da vicino, con aria incuriosita e niente affatto impaurita e chi invece lo spiava da dietro a una macchina o ad una cabina telefonica, pronti a scappare al minimo segno di pazzia del ragazzo.

Dopo un quarto d’ora arrivò la polizia a sirene spente e dalle tre macchine che erano giunte li scese un gruppo di poliziotti in giubbotto antiproiettile e mitra, oltre alla solita pistola nella fondina e si recarono verso la folla. L’uomo che si era accorto di Leon si recò loro incontro e gli indicò chi fosse il sospetto e il poliziotto si meravigliò non poco di vedere il sospetto criminale circondato da quella folla mentre era intento a contemplare un piccolo barattolo ci vetro che aveva in mano, per cui chiese conferma all’uomo se si trattasse proprio di quello li e l’altro annuì velocemente.

Il poliziotto si recò da Leon, mentre i suoi colleghi si erano appostati nei pressi della panchina del ragazzo, a una decina di metri circa, pronti a fare fuoco se cene fosse stato bisogno. Adesso il poliziotto era arrivato proprio di fronte a Leon, il quale però non si era neppure accorto di lui, come non si era accorto della folla che lo circondava.

un’aria molto severa, soprattutto per nascondere il disgusto provocatogli dalla vista di quegli occhi nel vasetto sotto alcool, insieme allo strato di sangue.

Leon sobbalzò e fissò il poliziotto negli occhi mentre istantaneamente il senso di paura che si era impossessato di lui appena aveva visto l’agente di polizia era stato sostituito da un senso di tranquillità, come chi già sa in che modo deve comportarsi in una determinata occasione. Riportò la vista sugli occhi nel vasetto e rispose con aria stanca:

Gli occhi di Leon adesso guardavano di nuovo quelli del poliziotto, ma nella sua mente si alternavano migliaia di immagini della sua vita, con la mamma, con gli amici, con la donna che aveva ucciso. Erano tutte immagini di grande felicità che Leon mai aveva ricordato e che adesso stavano riemergendo dagli abissi. Era quella l’ultima battaglia dello spirito umano di Leon, che tentava disperatamente di riemergere, ma, ben presto dovette arrendersi alle affilate armi della forza maligna che proiettò nella mente di Leon immagini di violenze, emarginazioni e torture psichiche da lui subite e adesso le orecchie di Leon udivano una sola voce, rauca e forte, che diceva: - Vieni con me, vieni con me…. –

Adesso capì che quello era il suo Demone Custode, mandato dal Diavolo, ma non ce l’aveva con lui, poiché era grazie a lui che adesso sapeva la verità e fra non molto le tenebre eterne l’avrebbero avvolto e le suo orecchie avrebbero goduto delle terribili risate demoniache, delle carezze e dei baci di Alecta e della felicità che, lui sapeva, solo l’Anticristo poteva dargli.

Aveva una mano nella tasca del cappotto dove aveva il coltello e, prima di estrarlo, pensò per l’ultima volta alla verità, alla sua verità: Dio ha creato gli uomini e il Diavolo aveva creato lui e quelli come lui e gli uomini che lui facevano parte degli eserciti dell’umano (e quindi del divino) e dell’antiumano (e quindi del diabolico). Ma se l’umano era quello che lui aveva conosciuto, allora lui era fiero di appartenere all’esercito dell’antiumano ed era questa l’unica scelta non forzata della sua vita.

Per l’ultima volta guardò gli occhi, quegli splenditi e lucenti occhi, poi, mentre nelle sue orecchie risuonava chiaramente Rock is Dead di Marilyn Manson, come un fulmine, estrasse il coltello dalla tasca del cappotto e lo fece passare lungo tutta la sua gola. L’ultima espressione che rimase sul volto di Leon era di felicità intensa, con un sorriso di piacere, di appagato piacere, stampato sulla faccia. Le pitture oscene color sangue cominciarono a delinearsi sul collo del ragazzo e, tra la folla molti vomitarono, alcuni svennero……E tutti urlarono.

LoKi