SERATA ROSSA

 

1. Il telefono squillò, e Sara abbassò il volume dello stereo.

Rimase con le orecchie tese e trattenne il fiato.

… Il telefono squillò per la seconda volta.

Mamma?, pensò.

Con la coda dell'occhio, guardò la porta chiusa della sua stanza.

Magari era lui.

Se fosse scattata fuori e si fosse precipitata in salotto, sareb-

be riuscita ad alzare la cornetta in tempo.

Giunse il terzo squillo, così pensò: Niente, ormai non faccio più tempo. Speriamo che la mamma stia...

La mamma rispose.

La sentì dire: "Pronto?".

Sara spense lo stereo e rimase ad ascoltare, mentre il cuore ga-

loppava veloce.

Forse è solo...

La voce lontana della mamma disse: "Sì. Un attimo che guardo se c'è".

Poi, Sara udì i passi della mamma che si avvicinavano verso la camera.

Oddio!, capì. E' lui.

La mamma bussò alla porta due volte. "Sara? Ti vogliono".

Mi vuole. "Chi è?".

"So mica. Un ragazzo".

"Un ragazzo?!". Sara si finse sorpresa. "Ma chi?".

"Boh".

"Vabbe'. Arrivo".

"Gli dico di telefonare più tardi?".

"NO, no, arrivo". Sara aprì la porta e camminò svelta verso il

salotto.

Prima di sollevare il ricevitore, prese un bel respiro.

Non fargli capire che hai fatto una corsa per venire a risponde-

re, riflettè.

Self-control, Sara. Mi raccomando.

"Pronto", disse, ed era calma.

La voce all'altro capo del filo sussurrò: "Sangue".

2. Remigio entrò in cucina senza accendere la luce ed aprì lo sportello del frigorifero.

Il fioco bagliore andò ad illuminare qualcosa a destra, vicino

alla parete.

Remigio si accigliò e guardò.

Ma cosa...?

Gli occorse un profondo respiro prima di riuscire ad arretrare di

qualche passo ed emettere un grido d'orrore.

Dietro il frigorifero, in piedi appoggiato alla parete, c'era il

cadavere di un ragazzo. I suoi occhi, gonfi e sporgenti, come se

qualcuno ci avesse soffiato dentro, guardavano verso l'alto.

Aveva la bocca semiaperta, come se anche lui fosse rimasto sor-

preso. Remigio osservò gli occhi vitrei del morto.

E disse: "Merda".

Poi, il ragazzo smise di fissare in su e ricambiò lo sguardo.

Prese ad avanzare verso di lui, le braccia tese.

Remigio arretrò e scosse la testa, come per protestare.

Sei morto, pensò confusamente.

Non puoi camminare... Non è valido.

Ma il ragazzo avanzava verso di lui, e, vivo o morto che fosse,

pareva non gliene fregasse un cazzo.

Mise una mano in tasca.

Estrasse un uncino arrugginito.

Sorrise a Remigio; un sorriso marcio e storto. L'uncino stretto

nella mano, si avventò improvvisamente contro di lui, arpionandogli il labbro.

Remigio incrociò gli occhi a guardarsi, stupefatto, il labbro

inferiore. Ora era teso e all'infuori, come quello di un pesce

catturato.

Non gli riuscì di fare commenti, con quel coso in bocca.

Il dolore era lancinante, supremo.

Il morto vivente tirò l'uncino verso di sé, strappando il labbro

di Remigio. Il labbro rimase attaccato al ferro, penzoloni e san-

guinante.

Remigio disse: "Aaaeeeahhh?", e si portò le mani alla bocca,

incredulo.

Lo zombie rise, come dopo una barzelletta spassosa.

Disse: "San-gue".

Inclinò la testa da un lato. La sua espressione era idiota, come

di uno che abbia preso una brutta botta in testa... O di uno che

sia morto e, nonostante tutto, continui a muoversi.

"San-gue", ripetè.

E Remigio, gli occhi sbarrati, obbedì e sanguinò.

Fu anche sul punto di perdere i sensi.

"San-gueeee".

"Hristo...", piagnucolò Remigio, barcollando. Le parole, senza il

supporto del labbro, uscirono dalla bocca distorte.

Gli riuscì di stare in piedi.

Con la mano premuta sulla bocca zampillante sangue e saliva, si

voltò e tentò di infilare la porta della cucina, ma i movimenti

erano resi lenti e impacciati dal dolore e dalla confusione men-

tale.

Il ragazzo lo arpionò per il colletto della camicia, attirandolo a sé.

"Sangue".

Remigio si agitò, sempre al rallentatore. "Lahiami andahe...".

Il morto vivente buttò la testa all'indietro e rise.

"Sangue di Remi-gioo".

"HO! Aiuho!".

L'uncino si conficcò nella guancia dell'uomo e lacerò la carne.

Mentre succedeva, Remigio tenne gli occhi stretti.

Aria fresca dove prima c'era un rivestimento di pelle.

Pensò: E' finita.

Lo era davvero.

Il dolore era quello che si prova una volta sola, prima di mori-

re. Remigio cadde in una strana posizione snodata.

... E, come il suo carnefice, più tardi si sarebbe probabilmente

rialzato con la voglia di fare un giretto.

Perché era lunedì, primo giorno della settimana. La luna era passata davanti a Marte, ed era successo un casino.

Nel cielo c'era una striscia rossa, come una frenata, come se un

gatto celeste avesse attraversato una strada spaziale.

Stavano uscendo tutti: chi dalla nuda terra, chi dai loculi, chi

dalle cripte, chi dal fondo dei canali.

Molti funerali non furono portati a termine.

Si alzavano, si spolveravano gli abiti e cominciavano a cammina-

re, simili a grottesche scimmiette della Duracell.

E volevano tutti la stessa cosa.

3. "San-gue".

"Ma chi parla?", chiese Sara.

No, di sicuro non era Claudio, quel ragazzo a cui aveva dato il

numero di telefono durante la lezione di geografia.

Allora, di chi si trattava?

Per un attimo le era parso di riconoscere la voce di...

Scosse la testa.

Le era parso di riconoscere la voce di Gianluca.

Il suo Gianluca, ucciso tre anni prima su una strada assassina.

Ma non era possib…

All'improvviso Sara udì un tonfo, che la fece tornare al presen-

te. Grida ed esclamazioni di aiuto, vetri che si rompevano.

Si dimenticò di essere al telefono.

Cosa succede, laggiù?, pensò, accigliandosi, abbassando per un

momento il ricevitore e sbirciando dalla finestra.

Per la strada c'era un sacco di gente. Molti erano vestiti di

stracci, e camminavano in modo strano. Rompevano vetrine e scassavano automobili.

Sentì che, al telefono, l'interlocutore misterioso le stava di-

cendo qualcosa.

Riaccostò velocemente l'orecchio e disse: "Eh?".

"Sto arrivan-do, am-ore", ripetè lui.

Ed era proprio la voce di Gianluca.

4. Gli chiese da quanto tempo non lo facesse, ma non ottenne risposta. Dopo un po', riformulò la domanda.

Ancora silenzio.

"Mi senti?".

"Uuh?".

"Ho chiesto: da quanto tempo non ti confessi?".

"Uuh. Aah", gorgogliò la voce dall'altra parte della tendina del

confessionale.

"E' molto tempo?".

"Ehe. Eh. Uuh".

"Sì, eh?".

"Ahua".

"Sei in libertà vigilata?". Don Carlo ridacchiò.

"San...".

"EH?".

"San...".

"San? San chi?", rise Don Carlo.

"Sannn!".

"San Carlo, come mi dovrebbero fare. O forse ti riferisci alle

patatine?". Altra sghignazzata da prete.

"San-guee. Sang. Ue".

Don Carlo rimase in silenzio.

Disse: "Non sono sicuro di avere capito bene".

Lo sconosciuto tirò la tendina a mostrarsi a lui.

Era un uomo sui quarant'anni, il volto spaventosamente magro.

I capelli sembravano ragnatele. Aveva la pelle grigia.

"San-gue!", ribadì. E sorrise all'espressione di Don Carlo, rima-

sto con la bocca spalancata.

"Signore". Il prete si fece il segno della croce per l'ultima

volta. Poi, il braccio del morto vivente scattò ad afferrargli la

gola, e strinse. Strinse. Strinse...

Spinse in avanti più volte, e la testa del prete andò a sbattere violentemente.

L'assassino si leccò le labbra nella severa oscurità del confes-

sionale e guardò estasiato il rivolo rosso che scivolava sulla

tempia dell'uomo.

"Uh, uh!", gongolò.

5. Un'ora dopo la porta si sfasciò, come colpita da un maglio, e

sulla soglia comparve un giovane.

Il cadavere di un giovane.

Era vestito di stracci eleganti, e un occhio gli colava sulla

guancia, come gelato estivo.

Sara strillò.

"C-Ciao, put-put... - Gianluca sbattè gli occhi e fece smorfie,

nel tentativo di pronunciare quello che voleva dire - Put-tana".

"Iiiiih!".

"Ehe". Il morto sorrise.

Sara, piangendo, gli tirò addosso un cuscino; il libro che c'era

sul comodino. Chiamò a squarciagola i suoi genitori, ma ormai

loro non potevano più sentirla.

Il morto alzò un braccio.

Ed avanzò verso la sua ex ragazza.

6. Con la luce del mattino, tutto finì. I morti si paralizzarono in

quello che stavano facendo e caddero, come se qualcuno avesse staccato la spina.

Furono raccolti e riseppelliti, e le casse vennero chiuse con

lucchetti. Alcuni legarono i polsi e le caviglie dei loro cari; altri, li ammanettarono.

Giorni dopo, terminato l'inventario dei nuovi deceduti, si tentò

di dare alcune spiegazioni, e vennero consultati medici, scien-

ziati, filosofi e religiosi.

Un anno più tardi, il dibattito era ancora aperto, e aveva da

parecchio varcato i confini della città in cui si era verificata

la cosa, estendendosi in tutta la regione; nell'intera nazione.

Nel mondo.

Ma la gente non ascoltava più: stavano tutti preparandosi per

quando sarebbe successo di nuovo.

Si procuravano armi, costruivano barricate.

Recintavano i giardini con filo spinato, piantavano palizzate.

Facevano rifornimenti di cibo, di sigarette.

Perché sarebbe successo di nuovo, era inevitabile.

I lucchetti sarebbero stati spezzati, le corde, in qualche modo,

sciolte.

Quando il dottore ti dice che hai un tumore, ce l'hai davvero.

Se i politici dicono che aumenteranno le tasse, prima o poi lo

faranno.

Solo le cose belle sono restìe a verificarsi, e quando i morti

erano usciti non era stato affatto bello.

Quindi, sarebbero tornati.

La gente lo sapeva.

Oh, sì, era sicuro.

E quel giorno...

Quel giorno, quando il cielo si sarebbe nuovamente ferito, l'eser-

cito dei defunti avrebbe contato su molti, molti più soldati.