Filippina va in città

di Piera Rossotti Pogliano

 

Tra Lanslebourg e Chambéry, 27 febbraio 1781

Anche con un lapis, è difficile scrivere col mio diario appoggiato sulle ginocchia, avvolta come sono nel mantello pesante. Alla partenza dall’ultima stazione di posta, Maria, la mia balia, mi ha spinto sotto i piedi un mattone caldo, avvolto in un panno di lana, ma ormai ho assorbito tutto il suo calore e ho di nuovo freddo. Così, per cercare di non pensarci, ho preso il mio quaderno e scrivo, mentre Filippo è sceso dalla carrozza per sorvegliare la riparazione del carro dei bagagli, che ha perso una ruota ed è mezzo affondato nella neve con tutto il suo carico.

Filippo è mio marito: l’ho conosciuto cinque giorni fa e l’ho sposato ieri l’altro. Ancora non mi sembra vero, anche se l’idea del matrimonio mi ha accompagnata in questi ultimi anni – ne ho quasi venti, ormai! – e ho preparato un corredo che mio padre ha voluto ricchissimo, come si conviene per una de Sales, ha detto, con biancheria fine, camicie, mantili, salviette e lenzuola ricamate a reysella e a ponté dalle suore clarisse di Chambéry, poi vestiti di ermisino, di seta di Lione e della più fine sargia di Amiens. Tutte queste cose, ben ripiegate, sono adesso rinchiuse in robuste casse di noce, sul carro che ha perso la ruota. La neve cade fitta e improvvise raffiche rabbiose di vento, che scuotono anche la carrozza su cui mi trovo, l’ammucchiano contro ogni ostacolo. Vedo là fuori Filippo, non molto alto e un po’ massiccio, muoversi con fatica nella neve che gli arriva ai polpacci, gesticolare per incitare gli uomini a fare presto, poi tornare a stringersi freddolosamente nel mantello, attento ai numerosi cavalieri e alle carrozze che percorrono questa strada verso il colle del Moncenisio, dove anche noi siamo diretti. Solo a tratti odo delle voci: tutto è sovrastato dal tumulto delle acque dell’Arc che vorticano attorno ai grandi massi che ne ostacolano il corso e le sponde orlate di ghiaccio.

Sono fiera di aver sposato il marchese di Cavour, primogenito di una famiglia molto in vista, e desidero essere per lui una buona moglie, ma ne sono ancora intimidita, non riesco a sciogliere quel nodo di apprensione che mi stringe il petto. Forse, i vent’anni che ha più di me lo mostrano ai miei occhi come persona da temere e rispettare, e il suo sguardo, che pare continuamente concentrato su qualcosa che sa lui solo, non mi aiuta ad aprirmi alla confidenza che vorrei tra noi, e che il tempo, spero, mi insegnerà a costruire.

Non ero preparata a quell’intimità incredibile che fa la differenza tra una ragazza e una donna. E’ una cosa piccolissima e immensa, ho capito perché non la si possa raccontare. La balia mi ha aiutata a spogliarmi e a indossare la camicia da notte, poi mi ha rimboccato le coperte, con una carezza della sua mano ruvida mi ha raccomandato di obbedire a mio marito, perché il matrimonio è un sacramento. Ho annuito senza parlare, ero in preda a una grande apprensione e avevo la gola secca, ma mi sentivo anche molto curiosa, perché io sono fatta così e, anche quando ho paura, voglio sempre affrontare le situazioni a viso aperto. Filippo è arrivato dopo poco, le cortine erano tirate e mi impedivano di vederlo. L’ho sentito armeggiare per qualche momento, poi si è infilato nel letto accanto a me. Con il viso chiuso e concentrato di sempre, sul quale non ho ancora visto un sorriso, mi ha detto: "Sono vostro marito, dovete sottomettervi". Nuovamente, ho annuito, mentre avrei voluto dirgli che desidero con tutte le mie forze essere una buona sposa, che voglio essere al suo fianco nella vita, entrare nel suo cuore. Ma la mia gola serrata non è riuscita a emettere alcun suono. Ho sentito le sue mani insinuarsi sotto la mia camicia da notte, toccare il mio corpo, obbligarmi ad allargare le ginocchia e, un istante dopo, il dolore acuto e breve di una lacerazione, mentre Filippo ansimava sopra di me. Poi si è allontanato, rovesciandosi sui cuscini, e si è addormentato immediatamente. "Era questo?" ho pensato. Sono rimasta sveglia a lungo, sentendomi pesta e dolorante, stentando a credere quant’era accaduto, vagamente delusa. Poi, devo essermi assopita. Quando ho riaperto gli occhi, Filippo dormiva, col viso rivolto verso di me, la bocca leggermente aperta; l’abbandono al sonno lo faceva sembrare quasi indifeso. Sono rimasta per un po’ a guardarlo e ad ascoltare il suo respiro, poi lui ha aperto gli occhi, ho colto il suo smarrimento nel vedere che lo stavo osservando. "Voglio essere una buona moglie", sono finalmente riuscita a dirgli. Mi ha guardata un po’ sorpreso e ha quasi sorriso. Poi si è animato, ha voluto che mi togliessi la camicia ed è venuto di nuovo su di me. E’ stato meno doloroso e un po’ più lungo della prima volta.

 

Lanslebourg, sera

Stamani ho avuto appena il tempo di riporre in fretta il mio quaderno, la ruota era riparata, Filippo è risalito in carrozza e siamo ripartiti per Lanslebourg, dove siamo arrivati col buio. Domani ci sarà la tappa più difficoltosa, la salita al passo del Moncenisio. Avrei preferito aspettare la primavera prima di mettermi in viaggio, sarebbe stato un modo più dolce per dire addio a casa mia, al castello di Thorens dove ho sempre vissuto, mi sarei abituata più facilmente all’idea di essere sposata e di dover andare a vivere in una grande città come Torino. Porto con me tanti vestiti che mi sembrano bellissimi… ma sarò alla moda, o farò irrimediabilmente la figura della provinciale? Sono anche intimorita dal fatto che, nel palazzo Cavour di Torino, troverò tre cognati e cinque cognate, tutti fratelli più giovani di Filippo, ma più anziani di me. Come mi accoglieranno?

Qui a Lanslebourg gli alberghi sono tutti molto affollati, non avrei mai creduto che, nonostante la stagione ancora invernale, tanta gente si muovesse avanti e indietro per questo valico alpino che io vedo come un ostacolo ma che risulta, di fatto, un confine assai permeabile. Soltanto con molta difficoltà, questa sera, siamo riusciti a trovare, in un albergo malconcio, posto per me e per Maria, che insisto per non abbandonare, in una camera in cui pernotteranno altre due signore (inglesi, se ho inteso bene). Mio marito dovrà accontentarsi di passare la notte nella sala comune, avvolto nel suo mantello, mentre i valletti dormiranno nella stalla, forse non più scomodamente di lui, per fare la guardia ai muli e ai bagagli.

L’oste ci ha servito con una certa malagrazia un piccolo pollo arrosto e, soltanto dopo che Filippo gli ha lanciato una moneta, afferrata al volo con grande prontezza, è uscita dalla cantina una polverosa bottiglia di Saint-Émilion, che ci ha alquanto riconfortati. Più tardi, una fantesca dai piedi scalzi e dal grembiule macchiato, armata di un mozzicone di candela, ha accompagnato me e Maria su per una ripida scala di legno, fino alla stanza che dovrò dividere con le signore inglesi. Sono due donne giovani e di alta statura, molto somiglianti, al punto che le credo sorelle. Hanno pelle chiara e occhi azzurri grandi, acquosi, un po’ sporgenti. Mentre la mia balia ispezionava con cura le cuciture dei pagliericci pieni di foglie su cui dovremo dormire, alla ricerca di eventuali cimici, nel loro francese approssimativo le due signore inglesi hanno cercato di spiegarmi che sono qui per la "ramasse", ma non ho capito esattamente di che cosa si tratti, anche se ne parlano come di una cosa molto divertente. Cercherò di scoprire di più domattina, interrogando l’oste. Intanto, stese le nostre lenzuola e i nostri mantelli sugli scomodi pagliericci, cerchiamo ristoro in un sonno che tarda a venire.

 

Lanslebourg, 28 febbraio 1781

Dopo una colazione molto frugale, con una specie di zuppa il cui unico pregio era di essere calda, ci siamo rimessi in viaggio per superare il valico. Stamani, molto presto, sono arrivati dei marrons, le guide locali, per offrire i loro costosi servigi. È una spesa comunque inevitabile, se si vogliono oltrepassare queste montagne, che tuttavia continuo a ritenere un baluardo impossibile. Eppure, incredibilmente, tanta gente va e viene per queste regioni in ogni stagione. L'unico vero pericolo, pare, oltre agli smottamenti primaverili, sono le tormente di neve, generate dal violento scontro di un vento che si chiama Lombarda e soffia dal Piemonte, con i venti che provengono dalla Vanoise e dal Piccolo Moncenisio. Allora tutto si oscura e anche le guide più esperte preferiscono non avventurarsi sul passo, benché non manchino punti di riferimento e piccoli rifugi.

Oggi c'è una calma brumosa, le cime delle montagne intorno sono sfumate dalle nubi, l'atmosfera è grigia e greve, ma le guide dicono che non c'è da avere nessun timore. Mentre, con Filippo, sorveglio che tutte le casse del mio corredo siano caricate sul dorso dei muli che abbiamo noleggiato, le nostre carrozze vengono prestamente smontate, con destrezza e rapidità, e caricate su altri muli, per essere trasportate al di là del valico. Vedendo la mia apprensione, un marron si avvicina e si toglie rispettosamente il cappello. Ha grosse mani scure e nodose, dai suoi abiti forse mai lavati si sprigiona un odore forte di fumo e di sudore, ma il tono con cui mi parla è rassicurante: non c'è alcun punto veramente difficile nel passaggio, ai precipizi più pericolosi sono state messe delle balaustre e si valica da Lanslebourg alla Novalesa in sole sei ore. Più rassegnati che convinti, prendiamo posto su piccole portantine individuali, alle quali si alternano otto portatori.

Mentre procediamo a una velocità che mi sembra incredibile, vista l'erta salita, incrociamo proprio le due Inglesi di ieri sera sulle famose "ramasses", che ho poi scoperto essere delle piccole slitte di legno a un posto, guidate sapientemente dai montanari di qui, che scendono velocissime, si dice in otto minuti, dalla sommità del colle fino a Lanslebourg, la qual cosa è considerata da alcuni viaggiatori un vero divertimento, al punto che molti si fermano qui parecchi giorni e più volte effettuano questa discesa che definiscono "inebriante". Al posto delle slitte di legno, fino a qualche anno fa, venivano usati fasci di rami, donde il nome. Le due signore non mi riconoscono nemmeno: hanno gli occhi illimpiditi dal freddo, le guance accese di paura e di piacere.

Giunti alla cima del passo, si allarga dinanzi ai nostri occhi un insospettabile pianoro, ben guardato dalle alte montagne circostanti, e un lago che dicono molto profondo e che rispecchia il cielo grigio di oggi.

Ci fermiamo all'Ospizio per una breve sosta, il tempo, per i portatori, di riposare un poco e ristorarsi con un bicchiere di vino caldo, nella grande sala comune, dove già un gruppo di marrons si sta rifocillando e ascolta intento un anziano che racconta, accompagnandosi con larghi gesti, una storia di masche e di Bergnif, il principe dei diavoli, che si riconosce dal piede caprino e dai miasmi di zolfo che emana. Incuriosita e affascinata dal racconto del vecchio, vorrei rimanere ad ascoltare, ma i bravi monaci ospitalieri insistono per farci accomodare in una saletta più raccolta e per offrirci un loro liquore d'erbe, piacevolmente profumato di camomilla e assenzio, che però non riesco a bere, perché veramente troppo forte; accetto volentieri, invece, una gustosa minestra di castagne e latte, tutto quel che c'è da mangiare. Il priore, facendo viste di volersi scusare per la frugalità del cibo, è in realtà desideroso di intrattenersi con i visitatori. Buon parlatore, ci racconta la storia ormai quasi millenaria del sito, arricchendola di dettagli minuti, che rivelano il suo appassionato affetto per questi luoghi e per la storia del fondatore dell'Ospizio, Ludovico il Pio, poi mi indica, in mezzo al lago, un minuscolo isolotto chiamato La Motta: qui, nel 1619, era stato ricostruito l’assedio di Rodi contro i Turchi, simulando una battaglia navale grazie alle evoluzioni di ben dodici battelli, come parte dei festeggiamenti del duca Carlo Emanuele I per la giovanissima Cristina di Francia, che passava il valico, con un ricco seguito, per andare sposa a suo figlio Vittorio Amedeo.

Il priore vorrebbe parlare ancora a lungo, ma non possiamo trattenerci, se vogliamo arrivare alla Novalesa prima di notte. Ormai, non mancano che tre ore di cammino, ma che cammino! Scendiamo per mulattiere strette e ripidissime, che ben meritano la denominazione di "Scale", mentre i nostri portatori saltano con disinvoltura da un masso all'altro, muovendosi in sincronia ché, in caso contrario, saremmo sbalzati fuori in ogni momento. Mi avvolgo ben stretta nel mantello, aggrappandomi ai braccioli del sedile. Anche se sono stata allevata in montagna e ho visto più di un precipizio, ogni tanto chiudo gli occhi e mi lascio trasportare, fidando nella bravura di questi montanari e nella protezione del mio avo, san Francesco di Sales.

Nonostante le mie apprensioni, arriviamo alla Novalesa sani e salvi. Il borgo che circonda l'abbazia è grande e molto animato, su tutto domina l'odore forte dell'orina dei muli. Mio marito asserisce che, in certi periodi, ve ne siano fino a novemila. Qui è un continuo susseguirsi di osterie e stallaggi, un andirivieni incessante di viaggiatori di qualità, di mercanti, di pellegrini, di marrons.

Penso che Filippo voglia alloggiare all'Abbazia, ma vedo che ordina con decisione di dirigersi verso un albergo, l'Écu de France, secondo lui più confortevole. In effetti, dopo qualche discussione e l'incentivo di alcune monete d'argento, un'ostessa dalla corporatura di granatiere, con un non lieve accenno di peluria sul labbro superiore e il largo viso incorniciato dalla cuffietta increspata tipica di questi posti, acconsente a cederci delle camere abbastanza comode e pulite e a servirci immediatamente un pasto caldo. Ci rifocilliamo con piacere gustando un'eccellente trota del lago al burro fuso, cui Filippo fa seguire molte fette di una carne simile a prosciutto, che io tocco appena perché eccessivamente saporita. Veniamo a sapere che si tratta di marmotta salata, consumata abitualmente da queste parti. Poi viene portato in tavola un grosso pezzo di un formaggio locale, il Beaufort, che assomiglia alla toma savoiarda. Innaffiamo il pasto con un mediocre e inadatto Chablis, ma è l'unico vino che siamo riusciti a ottenere dalla virago che manda avanti questo albergo. Al momento di pagare, Filippo è contrariato: per il passaggio con i portatori, lo smontaggio, il riassemblaggio delle carrozze e le spese per il vitto e l'alloggio, abbiamo speso quasi cento franchi e ritiene che sia troppo. Lo lascio a recriminare ed esco con Maria fin sulla soglia per prendere una boccata d'aria pura, nel freddo già intenso della sera.

Abbazia della Novalesa, 1 marzo 1781

Speravo di raggiungere Torino oggi, ma siamo costretti a una sosta fuori programma, a causa di un grave attacco di gotta di Filippo. Sarà l'eccessiva marmotta salata di ieri? Un po' a disagio per il suo malessere, mio marito si fa assistere soltanto da un valletto e non mi vuole accanto a sé. Il frate erborista, subito chiamato, ci ha comunque rassicurati: una dieta severa, il riposo e qualche decotto d'erbe, regolarmente assunto per pochi giorni, dovrebbero operare un piccolo miracolo e, senza sperare in una completa guarigione, permetterci di raggiungere Torino.

Approfitto di questa pausa forzata per riposare e passeggiare anche un poco nei dintorni, accompagnata da Maria.

Il tempo ora volge al bello e, anche se l'aria è ancora fresca, un sole chiaro invita a uscire, con una mezza promessa di primavera a cui, però, mi si dice di non credere senza riserve perché troppo precoce e non ancora confermata.

La vita della gente di qui non è molto diversa da quella delle nostre montagne di Savoia. Nelle stradine sassose, la neve calpestata è maculata di giallo, per via dei liquami che escono dalle stalle, l'impressione generale è di sporcizia. I poveri sono poveri ovunque. Infagottati in grandi scialli o mantelli scuri, per difendersi dal freddo, adulti dal viso triste e bambini dal moccio al naso, tutti appaiono pallidi e smagriti, con le gengive sanguinanti e sovente sdentati in ancor giovane età; non di rado sono affetti dal gozzo. Ho chiesto al frate se ciò sia causato da una qualche malattia, ma mi ha risposto che il problema maggiore rimane la malnutrizione. La base dell'alimentazione di questa gente è la polenta, spesso preparata con farina mal conservata e ammuffita, che accompagnano con quanto rimane del latte dopo aver fabbricato burro e formaggio, un liquido assai poco nutriente, che chiamano laità. A questo si aggiungono poche castagne, rape, cipolle e minestre di erbaggi nella bella stagione. I polli che allevano, il burro e le uova, sono riservati alla vendita e sono la loro unica fonte di denaro contante. Il meraviglioso scenario delle montagne e l'aria limpida non bastano evidentemente a compensare una vita resa dura dal difficile sforzo di sopravvivere.

* * *

Sono rientrata e sono andata in camera di Filippo. È bastato un gesto per tacitare il valletto che si è fatto sulla porta: sono sua moglie, voglio vederlo. La sofferenza è evidente sul suo viso, il colorito è grigiastro, la febbre piuttosto elevata. Mi siedo sul letto, attenta a non causargli dolore, perché gli duole moltissimo il piede destro, dove si è fortunatamente già fissata la gotta e per questo il frate ha consigliato di introdurre sotto le coperte due ceppi di legno, per tenerle sollevate; anche il più piccolo contatto con le coltri è molto doloroso.

Mio marito sembra contrariato che io lo veda in queste condizioni e io non oso allontanare il valletto, né dire a Filippo che, dal momento che sono sua moglie, ho intenzione di assisterlo in ogni cosa, perché ritengo che questo sia il mio dovere e perché credo che le cure di una sposa amorevole possano essere la migliore delle medicine. Riesco soltanto a dirgli: " Cavour, dovete guarire presto, amico mio", toccandogli una mano, che sento umida e molle sotto la mia. Mi fa cenno di sì e vedo nei suoi occhi quasi un sollievo, quando mi alzo per uscire. Come fargli capire tutto il resto?

C'è una pena dolorosa dentro di me. Non per la gotta di Filippo, non è questo. Il male è fastidioso, ma insisterò perché si curi, passi regolarmente le acque, consulteremo buoni medici e quant'altro. Non è questo il problema maggiore. La domanda che mi pongo è un'altra: mi permetterà di diventare veramente sua moglie, di condividere la sua vita, i suoi pensieri, le sue preoccupazioni? Mi permetterà anche di dargli qualche gioia? Non c’è stata più alcuna intimità fisica tra noi, dopo la sera delle nozze, eppure mi sembra di capire che sarebbe importante. Filippina vuole entrare nella tua vita, marito mio. E non si arrenderà senza combattere.

 

 

Torino, 7 marzo 1781

Questa mattina presto, pronti a partire, nonostante una minaccia di pioggia che rendeva il cielo basso e immobile, mentre salivo in carrozza mi sono accorta di non avere i guanti che indosso abitualmente in viaggio. Filippo, finalmente in piedi, anche se cammina aiutandosi con un bastone, ha ordinato di avviarci comunque; poi, forse visto il mio sguardo mortificato e, al contempo, disapprobatore, ha permesso a Maria di risalire in camera per cercarli. E' stata cosa di pochi minuti, la balia è subito ritornata con l'oggetto incriminato e ci siamo messi in viaggio immediatamente. Ero desiderosa di partire, ma la dimenticanza dei guanti, non coscientemente voluta, è stata forse un modo per esternare gli opposti impulsi presenti dentro di me, di giungere finalmente alla meta e di ritardare il più possibile questo arrivo a Torino che pavento e desidero.

Finalmente, lasciata alle spalle Avigliana, dominata dalla Sagra di San Michele, le montagne si allontanano, ma rimangono sempre visibili verso ponente e completano l'orizzonte, come un punto fermo sul quale arrestare i pensieri. Chissà se le vedrò anche da Torino?

La campagna è già verdeggiante, dalla strada fangosa si dipartono sentieri che la pioggia ha lasciato come lucidi di bava, si incontrano rade carrozze. Ho scorto anche alcuni casali, tutti costruiti in mattoni rossi, quasi senza finestre esterne. La sera, serrato il gran portone del cortile, debbono essere molto simili a piccole fortezze. Forse è così chiuso anche il carattere dei Piemontesi?

Sono curiosa di vedere la città. Tutto quel che ne so l'ho appreso leggendo le Lettres familières del De Brosses, che è stato a Torino nel 1740. Ho imparato a memoria alcune righe e me le vado rimemorando, ansiosa di confrontare le sue impressioni con le mie. "Turin me paroît la plus jolie ville de l'Italie; et, à ce que je crois, de l'Europe, par l'alignement de ses rues, la régularité de ses bâtiments et la beauté de ses places, dont la plus neuve est entourée de portiques. Il est vrai que l'on n'y trouve plus, ou du moins rarement, ce grand goût d'architecture qui règne dans quelques monuments des autres villes; mais aussi on n'y a pas le désagrément d'y voir des chaumières à côté des palais. Ici rien n'est fort beau, mais tout y est égal et rien n'est médiocre, ce qui forme un total, petit à la vérité (car la ville est petite), mais charmant."

Siamo arrivati a Torino nel pomeriggio. La prima cosa che mi ha colpito, a parte il rumore delle ruote che rotolavano su un selciato, è stato l'odore della città, per me nuovo. Non era del tutto sgradevole, ma greve dei fiati e delle esalazioni di tanta gente che vive in uno stesso luogo, dell’odore forte degli escrementi dei cavalli e si distendeva ad avvolgere le cose, correva lungo i muri, si addensava sul terreno. La prima impressione che ho avuto della città, infatti, è stata quella della sua chiusura. Ben delimitata dalle mura, per non esplodere si è sviluppata in altezza con case strette e scure che per me, abituata alla libertà dell'occhio nella mia Savoia, risultano un poco opprimenti, anche se la sensazione viene alleggerita dalla presenza di lunghe prospettive, come quella di via Dora Grossa. Questo nome, purtroppo, le viene dal rigagnolo centrale, che qui, mi ha spiegato Filippo, si chiama doira e serve allo scolo di liquami e immondizie. Per i pedoni, qua e là, ci sono delle specie di passerelle per l'attraversamento ma, specialmente quando piove, dev'essere difficile camminare per queste strade senza inzaccherarsi.

Passando per la città, Filippo mi ha indicato numerosi palazzi di famiglie con le quali i Cavour sono in contatto ma, purtroppo, in questo momento non ne ricordo i nomi. Ricordo però la bella impressione arrivando su di una vastissima piazza al centro della quale c'è un palazzo, detto di Madama Reale (la Cristina di Francia del racconto del priore!), con maestose torri antiche e una facciata molto più recente, abbellita da statue e colonne, opera di un architetto famoso, mi pare che si chiami Juvarra e non sia di qui. Questa immensa costruzione è collegata al palazzo reale vero e proprio da una specie di brutta galleria. Dalla piazza si diparte la via di Po, che arriva fino al fiume e, mi ha detto Filippo, è larga ben sei trabucchi, contro i tre o quattro delle altre vie.

Il cuore di Torino è gradevole senza eccessi, De Brosses aveva ragione: vecchio e nuovo si compenetrano e vivono insieme, dando un'impressione di eleganza misurata, di bellezza poco appariscente, di città pensata e forse imposta, non spontanea, ma giudiziosa. Sento che andremo d'accordo.

Ho voluto fermare sulla carta queste mie prime impressioni, che naturalmente saranno sottoposte alla verifica dell'esperienza, perché questo è il luogo dove dovrò vivere e veder nascere i miei figli, se il Signore vorrà mandarmene. Mi sono anche proposta di conoscere a fondo la mia nuova città e la sua storia, di imparare a decifrarne il volto nascosto, per imprimerlo nella mente e farlo mio, come ho fatto con ogni pietra di Thorens che, per questo, è proprio casa mia.

Un po' presa da questi pensieri, quasi senza accorgermene siamo arrivati a Palazzo Cavour, che si trova in una contrada dal nome dolcissimo, Madonna degli Angeli. Ho pregato per un attimo, mentre la carrozza, superato un imponente portone e un vasto atrio, entrava nel cortile principale, di belle proporzioni. Eravamo attesi, poiché un valletto ci ha preceduti per ordine di Filippo e subito, mentre già ci si occupava dei cavalli, si è fatto incontro il maestro di casa (è il solo di cui ricordi il nome, si chiama Felice) e tutta la servitù, composta forse di trenta persone, molto rapidamente è venuta a farci ala all'ingresso. Hanno tutti un buon aspetto, pulito e decente.

Filippo, benché ancora sofferente nel camminare, mi ha offerto il braccio. Mi sono fermata un attimo ad annusare l’aria. C’era un odore rassicurante di pane appena sfornato, di zucchero caramellato. "Sono finalmente a casa", ho pensato.

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