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Comprensione profonda e senso di perplessità
STEPHEN BATCHELOR


Di solito si pensa al Buddha come alla persona che storicamente ha raggiunto l'illuminazione. Nel concepire, però, l'illuminazione o risveglio come uno stato particolare di trascendenza permanente, da cui ci sentiamo intuitivamente attratti, potremmo correre il rischio di non capire veramente le dinamiche che lo hanno determinato.

Che cos'è che ha portato il Buddha a cercare la comprensione, a cercare l'illuminazione? A spingerlo è stata una forma di curiosità filosofica o di ricerca religiosa di trascendenza? Penso che la risposta, o per lo meno una risposta a queste domande, si trovi nell'antico racconto della sua rinuncia.
Conosciamo probabilmente tutti la storia di come trascorse la giovinezza vivendo da giovane principe e di come, in quattro occasioni, gli capitasse di uscire dalle mura del palazzo e di vedere un vecchio, un malato, un cadavere e un monaco itinerante. Furono questi quattro incontri a farlo sentire infelice e prigioniero dell'esistenza lussuosa che conduceva e a spingerlo ad abbandonarla.

Possiamo ritenere che fu allora che il Buddha, o piuttosto il giovane principe, divenne consapevole delle questioni fondamentali della vita. Fu come se quei quattro incontri avessero risvegliato in lui la consapevolezza di essere anch'egli soggetto alla malattia, all'invecchiamento e alla morte e, nella figura del monaco itinerante, avesse riconosciuto la possibilità di un modo diverso di vivere.
Per la prima volta sentì che la sua stessa esistenza era un problema.
Sarebbe ingenuo pensare che non avesse mai visto niente di simile fino ad allora: l'importanza di quei quattro incontri fu che per la prima volta riconobbe il dilemma della propria esistenza risvegliandosi al fatto che si nasce, ci si ammala, si invecchia e si muore e che tutto ciò rappresenta la realtà fondamentale del nostro essere qui.
Quando ci imbattiamo in una simile esperienza del mondo ci veniamo a trovare di fronte a un mistero: tutte le strategie che abbiamo elaborato per sentirci al sicuro, per darci un'identità, per raggiungere determinati obiettivi nella vita sembrano scaraventate in un'altra prospettiva. A un livello molto profondo veniamo coinvolti da una domanda comunque la si formuli: "Che cos'è questo e perché?".

La vita che il Buddha ha condotto non indica affatto che sia stato il solo nella storia a trovare la risposta e che a noi toccherebbe soltanto credere a quanto ci ha detto: il processo che ha vissuto nel misurarsi con tali domande indica una possibilità per tutti noi.
La vita del Buddha rappresenta un paradigma di come la vita possa essere vissuta. Il modo in cui tale modello potrà prendere forma in ogni singola esistenza sarà naturalmente diverso secondo l'epoca storica o il contesto culturale. Se l'esperienza del Buddha è significativa per noi è perché in un certo senso è archetipica ed esprime potenzialità che sono realizzabili nella nostra esistenza, qui e ora.
Nel corso del tempo, il buddhismo ha assunto molte caratteristiche di una religione tra cui quella che, se crediamo in ciò che insegna una particolare scuola, allora saremo salvi e al sicuro garantendoci una soluzione di vita. Troviamo, dunque, differenti scuole buddhiste che rivendicano tutte di possedere la verità più alta o il vero insegnamento del Buddha e che cercano di attrarci in quella loro determinata credenza.

Abbracciare tali credenze può essere molto consolante, ma ha l'effetto negativo di allontanarci proprio dalle domande che ci avevano portato alla decisione di credere. Se da un lato abbracciare la credenza o la fede in una data scuola ci permette di trovare una soluzione all'ansia che accompagna il senso di interrogazione, dall'altro proprio la comodità di credere finisce per sostituirsi alla forza che spinge verso la possibilità di capire o di ottenere l'illuminazione.
Mi chiedo se il significato della vita del Buddha come modello consiste davvero nel darci qualcosa in cui credere piuttosto che nel renderci più coscienti di quali siano davvero le domande fondamentali.
Penso a quando nel buddhismo Zen, in Cina nel V e VI secolo, ci si allontanò dal sistema di credenze per tornare alle domande poste dal Buddha stesso. In cinese sono chiamate 'il grande tema della nascita e della morte' e nello Zen si nutre un sentimento di grande dubbio su questo grande tema. Potremmo parlare di perplessità o investigazione invece di dubbio, o usare qualsiasi termine analogo, anche 'sorpresa'.

Penso che generalmente sia giusto vedere nel buddhismo una tensione tra l'approccio meditativo o contemplativo, che rimanda all'investigazione, e quello dottrinale, preoccupato maggiormente di preservare una determinata serie di risposte. Storicamente c'è una lotta tra queste due dimensioni del buddhismo.
In Cina si diceva che se c'è grande dubbio ci sarà grande comprensione, o risveglio, se c'è poco dubbio ci sarà poco risveglio, e quando non c'è nessun dubbio non ci sarà nessun risveglio.
In questo modo ci viene detto molto chiaramente che la qualità della comprensione dipende dalla qualità della nostra domanda o della nostra perplessità.
Se le domande risuonano molto profondamente in noi, allora ci sarà una comprensione che risuonerà, per così dire, a una stessa profondità, mentre, se si ha soltanto una sorta di curiosità spirituale, la comprensione si fermerà al livello dell'appagamento di quella curiosità. Infine viene implicitamente detto che, se non si ha proprio nessuna domanda e al tempo stesso si crede di conoscere già le risposte, allora si potrebbe non arrivare a nessuna comprensione.

LA NATURA DI BUDDHA
Nel XIII secolo, negli scritti del maestro giapponese Zen Dogen, troviamo che il porsi la domanda equivale alla natura stessa di Buddha. C'è un passaggio in cui Dogen si chiede: "Cos'è questa natura di Buddha?". Generalmente la natura di Buddha è intesa come la capacità di risvegliarsi che è in ciascuno.
Dogen, invece, risponde: "La natura di Buddha è: 'Cos'è questo?'". Tale risposta si rifà, andando indietro nel tempo, all'incontro tra Hui-Neng e Huai-Jang, quando la domanda per la prima volta entrò nella tradizione Zen. La natura di Buddha non è perciò una sorta di potenziale metafisico che esiste in maniera nascosta sotto la superficie della nostra vita, bensì è la nostra capacità di fare domande.
Se torniamo al Buddha storico potremmo dire che è stata la sua abilità nel porre domande, o nel sentirsi spinto a porre domande sulla vita, dopo aver visto la malattia, la vecchiaia e la morte, a creare le condizioni per la sua futura illuminazione.
La natura di Buddha non è in alcun modo qualcosa di filosofico, ma descrive le sensazioni fisico-mentali del dubbio. In questo senso Dogen porta il Buddha fuori dalla tendenza alla metafisica e alla speculazione e lo radica di nuovo, con forza, nell'immediatezza della nostra esperienza.

È interessante notare che, in un altro passaggio in cui parla della natura di Buddha, Dogen dica: "La natura di Buddha è l'impermanenza".
Penso che intendesse dire che l'intuizione che ci porta a diventare profondamente consapevoli del fatto che tutto è in uno stato di continuo fluire e cambiamento - ovverossia il processo di nascita, malattia, vecchiaia e morte - alimenta l'aspirazione a trovare la soluzione del problema del cambiamento. Sembra che per Dogen fosse molto simile chiedersi: "Che cos'è questo?" o essere profondamente consapevole dell'impermanenza.
Possiamo chiederci se non sia su questo punto che si incontrano la tradizione cinese, indiana e quella della vipassana Theravada.

L'ESPERIENZA DELL'INTROVABILITÀ

Quando Huai-Jang si recò da Hui-Neng, questi gli chiese: "Cos'è questa cosa? Com'è arrivata qui?". A quel punto Huai-Jang rimase senza parole. Trascorse otto anni nel monastero di Hui-Neng per lavorare sulla domanda. Alla fine tornò davanti al maestro e gli disse: "Adesso ho capito". Hui-Neng ripeté la domanda: "Allora, che cos'è?" e Huai-Jang rispose: "Dire che sia qualcosa non coglie il punto".

Questa può benissimo essere una risposta, ma ripetendola non risolveremo il problema. Forse per Huai-Jang fu una risposta risolutiva alla domanda, almeno per il momento, ma ciò che sembra indicarci è che non può esserci nessuna risposta in termini precisi di questo o quello.
Si tratta di una domanda di genere diverso da quello che ci poniamo nel corso della vita e che di solito finiscono per ottenere una qualche risposta: questa non permette di poter dire che la risposta sia questa o quella.
Seguiremmo una direzione sbagliata se cercassimo di venirne a capo con qualche risposta. Sarebbe come allontanarsi dall'incontrare la domanda e ciò, nel linguaggio di Dogen, equivarrebbe a negare la natura stessa di Buddha.
Le parole di Huai-Jang implicano che la sfida che abbiamo di fronte è di vivere pienamente, fino in fondo, con la domanda.
Forse avere un grande coraggio vuol dire proprio questo. Abbiamo il coraggio di aderire fermamente alla vita sentita come una domanda alla quale non è possibile dare risposte specifiche? In altri termini, siamo pronti a permettere alla misteriosa natura dell'esistenza di essere semplicemente ciò che è?

La storia dell'incontro tra Hui-Neng e Huai-Jang ne ricorda una più antica che riguarda Bodhidharma, il monaco indiano, vissuto un secolo prima di Hui-Neng, che portò l'insegnamento della meditazione in Cina.
Si dice che rimase per nove anni in una caverna su un monte guardando il muro e la leggenda racconta che per non addormentarsi si tagliò le sopracciglia. Un giorno un suo discepolo, Hui-K'o, lo andò a trovare; nevicava, e Hui-K'o, arrivato fino alla caverna, per mostrare la sua determinazione nella pratica, si tagliò un braccio e rimase fermo lì, con il sangue che colava. Chiamò il maestro e lo implorò: "La mente del tuo discepolo non è ancora in pace. Ti prego, dalle riposo".
Bodhidharma rispose: "Portami la tua mente e io la farò riposare". Hui-K'o replicò: "Ho cercato la natura della mia mente, ma non l'ho trovata" e Bodhidharma: "Ecco, ho fatto riposare la tua mente".
Di nuovo il punto è che se si guarda alla natura della propria esperienza non si può ottenere o affermare nulla. Non vuol dire che non ci sia nulla, ma che non c'è nulla di cui possiamo dire con precisione: "È questo". Proprio come nella risposta di Huai-Jang: se diciamo che è come qualcosa non cogliamo nel segno.

Quando formuliamo la domanda "Che cos'è questo?" poniamo la stessa domanda di Hui-K'o: qual è la natura della mente, dell'esperienza? Quando sentiamo che c'è qualcosa che non riusciamo a trovare entriamo in uno stato di ansietà, di irrequietezza.
La meditazione ci porta a scoprire di colpo che non c'è davvero nulla di cui si possa dire: questa è la mente, questo sono io o questa è la risposta alla vita. Più si cerca e più si capisce che si può andare avanti a cercare per sempre. Ma non c'è una sorta di grande nulla cosmico: c'è solo un'infinita introvabilità'.
La stessa cosa succede al fisico che cerca la natura ultima della materia: più va avanti e più trova particelle sempre più piccole.
E anche se ci capitasse di trovare l'ultimo quark, o quello che sia, viene il sospetto che investigando nello stesso modo sulla natura dell'esperienza non arriveremo mai a trovare degli analoghi elementi ultimi.
L'esperienza dell'introvabilità è una sorta di liberazione: diventa un lasciare andare il forte desiderio o l'abitudine che abbiamo di aggrapparci a noi stessi come a qualcosa.
Ci libera permettendoci di diventare creativi, di trasformarci in modo da lavorare nel mondo secondo molteplici possibilità. Fintanto che pensiamo che ci sia qualcosa da trovare, che ci sia qualcosa di riposto in noi, restiamo bloccati, immobilizzati.

Anche nella storia di Bodhidharma credo che si possa ravvisare una connessione tra la tradizione indiana, Theravada e tibetana. In quest'ultima, ad esempio, l'espressione sunyata, vacuità, vuole indicare precisamente il concetto che, in definitiva, non c'è nulla che si possa trovare analizzando la concezione del sé o del corpo.
L'impossibilità di trovare qualcosa di concreto è il significato del termine vacuità. Nirvana, nel linguaggio di Nagarjuna.
A me sembra che tutte le tradizioni buddhiste confluiscano nel riconoscere questa sorta di incondizionata accettazione dell'introvabilità, del non-sé, della natura del Buddha o comunque la si voglia chiamare.

La sfida del buddhismo consiste nel vivere la vita secondo questa prospettiva ed è a questo punto che inizia la pratica: come vivere sulla base di questo senso di interrogazione, di introvabilità nel mondo della diversità, della sofferenza e del cambiamento.
Anche se abbiamo forse intravisto un tale modo di sperimentare il mondo, è poi molto facile perderlo e venire riafferrati dalle abitudini, dai meccanismi, dalle ossessioni e dai desideri che fanno parte della nostra psicologia.
Di nuovo tutte le scuole buddhiste riconoscono che persino dopo un'esperienza di intuizione profonda o di risveglio i meccanismi delle nostre abitudini si ricompongono come prima.
La pratica, allora, consiste nel vivere la vita in modo da non lasciare che una simile esperienza si appanni, rimanendo, invece, sempre aperti alle sue possibilità.

 

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