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Il mio viaggio di trasformazione

di Carola Cohn Robitscher


Nel marzo del 2001 ho partecipato a Berlino al mio primo gruppo di dialogo tenuto da One by One. Per poter comprendere il significato che questo incontro aveva per me e il lungo travaglio emotivo che ha preceduto la decisione di parteciparvi devo prima fare un breve riferimento autobiografico. La mia storia completa, pronta per essere pubblicata, si intitola: "Le mie nove vite - attraverso il retrospettroscopio".
Sono nata nel 1927 a Berlino, in una famiglia completamente integrata e non religiosa di benestanti ebrei tedeschi. Nella famiglia di mio padre erano 'berlinesi' da generazioni. Mio padre, un avvocato e musicista, era stato decorato durante la prima guerra mondiale con la croce di ferro di Ia classe. Lui credeva fermamente nella promessa della "eterna gratitudine della patria" che accompagnava la medaglia.
Mia madre nacque a San Pietroburgo, in una famiglia immigrata dalla Germania da tante generazioni. Anche se non erano religiosi, si erano convertiti al protestantesimo per potersi meglio integrare in Russia.
Durante la rivoluzione, furono dichiarati 'russi bianchi', espropriati di tutto e dovettero emigrare in Germania. Il fratello di mia madre fu esiliato in Siberia insieme alla sua giovane sposa inglese.
L'esperienza dell'esproprio e dell'immigrazione forzata furono determinanti per il futuro cieco rifiuto di mia madre a emigrare dalla Germania finché era ancora possibile farlo.
In casa non si parlava mai di politica davanti a me e mio fratello, di tre anni più giovane. Ho saputo delle persecuzioni, di essere una 'ebrea indesiderata' e del nazismo, da ciò che sentivo fuori casa e da quello che potevo osservare e sperimentare sulla mia pelle. Però non potevo né parlare né chiedere nulla a casa, essendo la politica un tema tabù nella mia famiglia.
Mio padre sapeva cosa stava succedendo e tentò di emigrare, ma fu sconfitto dai no di mia madre a lasciare la Germania.
E così, nel giugno 1942, dopo l'arresto di mio padre ad opera della Gestapo, ci siamo trovati riuniti per essere trasportati in carri bestiame sigillati, verso una destinazione sconosciuta. Arrivammo a Theresienstadt, il cosiddetto ghetto dei privilegiati, conosciuto anche come il ghetto dei bambini: da lì 15.000 bambini furono tolti dai genitori e spediti nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. Ne sopravvissero meno di cento e io sono una di loro, l'unica sopravvissuta della mia famiglia.
A Birkenau, sono stata tirata fuori dalla camera a gas per puro caso, da un SS che forse pensava fossi un'altra persona perché mi disse: "Cosa fai qui? Ti ho già tirata fuori un'altra volta". Io non avevo mai visto quell'uomo prima di allora, né lo rividi mai più!
Sono finita in un 'trasporto di lavoro' che portava me ed altre 499 giovani donne a lavorare come schiave in Austria. Soltanto dopo la liberazione ho saputo che eravamo state in un campo che faceva parte di Mauthausen.
Una volta liberata, ebbe inizio la mia odissea di 'ebrea errante' in diversi campi profughi, senza denaro e priva di qualsiasi informazione o aiuto. Con l'intervento della Hagana sono stata mandata in Palestina, benché non avessi la minima informazione sui pericoli e la realtà di quei trasporti. Vi rimasi 9 mesi. Ero considerata 'non desiderata' perché 'Yekke', cioè tedesca; alcuni ci ritenevano responsabili per Hitler! Tornai in Italia illegalmente senza altra scelta che aspettare l'affidavit per emigrare negli U.S.A. Dopo 19 anni sono tornata a vivere in Italia, il primo posto dove mi sono sentita libera.
Nel 1960 sono stata brevemente a Berlino per incontrare un amico d'infanzia di mio fratello che era sopravvissuto, restando sempre nascosto in città insieme ai genitori. Un ulteriore motivo del viaggio era la speranza di poter riempire le mie lacune di memoria, ma non è stato possibile. All'epoca ero altrettanto incapace di integrare ciò che ero con me stessa e con il mio passato berlinese.
Il momento più difficile fu quando in mezzo a una Berlino ancora distrutta vidi le due case dove avevo vissuto completamente intatte, probabilmente con il nostro arredamento all'interno, cosi come le avevamo dovute lasciare. Il mio odio e la mia rabbia furono tali che avrei potuto facilmente lanciarvi contro delle bombe. La mia ira e voglia di vendetta si scatenavano ogni volta che vedevo delle persone di una certa età ai quali avrei voluto chiedere se erano stati loro ad uccidere i miei.
Dovetti fuggire da Berlino con i miei buchi di memoria rimasti vuoti e profondamente spaventata dai miei sentimenti così inaspettatamente violenti. Era stata una visita davvero traumatica. Giurai che non sarei mai più tornata a Berlino né che avrei più parlato tedesco tranne che con amici molto fidati.

Nel marzo del 2000 venni a sapere che ci sarebbe stato un incontro di tre giorni che sembrava interessante alla Chiesa Valdese con 4 rappresentanti di One by One. Mi fu spiegato che si trattava di un'associazione tedesco-statunitense fra i figli di sopravvissuti della Shoah e i figli degli aguzzini allo scopo di tentare di stabilire un dialogo autentico fra loro, per poter cominciare a "capire il nemico", nel senso di Primo Levi e Martin Buber.
Inizialmente mi rifutai di parteciparvi, ma poi decisi di andarvi quando mi resi conto che, in fondo, ero libera di andarmene via in qualsiasi momento. Venni presentata alle due rappresentanti tedesche: Martina Emme e Ilona Kuphal. Con loro potevo parlare soltanto in inglese, anche dopo che Martina mi disse di aver saputo che ero nata a Berlino.
Rimasi ad ascoltare la loro testimonianza. Ero colpita dall'onestà e autenticità con la quale parlavano del passato nazista delle proprie famiglie e dei loro sensi di colpa e vergogna. Insieme ci furono anche le testimonianze di Rosalie e Deborah, due figlie di sopravvissuti. Cominciai pensare che se Rosalie poteva stabilire un dialogo e diventare persino amica dei 'tedeschi', avrei potuto provarci anch'io. Volli tentare e da quel momento riuscii a parlare con Martina in tedesco! La conobbi meglio offrendomi di farle vedere un po' di Roma.
Martina doveva tornare a Roma nel gennaio 2001 in occasione della mostra di One by One. La invitai a stare a casa mia e d'allora siamo diventate amiche.
La visita di Martina coincise con le manifestazioni per il "Giorno della Memoria", che in Italia si celebra il 27 gennaio, la data della liberazione di Auschwitz.
Ero stata invitata a portare la mia testimonianza in TV. Venni intervistata a lungo da Roberto Olla per il suo libro "Ancora ciliegie, zio SS" e per il suo film documentario "La Rivolta dell'anima" sulla resistenza passiva a Terezin. Finché i prigionieri nel ghetto riuscirono a fare musica, a comporre, a dipingere, anche illegalmente, gli ex-artisti furono in grado di riaffermare la loro umanità anche se ridotti a 'non-persone', in attesa della soluzione finale.
Per pura coincidenza, una parte del documentario doveva essere rifatta a causa di un problema d'illuminazione e la troupe della RAI TV venne a casa mia per rifare parte dell'intervista. Utilizzai quell'occasione per presentare Martina e il lavoro di One by One alla TV italiana. Nel programma della Rai per il "Giorno della Memoria" parlammo entrambe del significato dei gruppi di dialogo, rifacendoci a Martin Buber, e dell'importanza di tentare di "capire il nemico" nel senso di Primo Levi.
Dalla Germania, Martina, pur sapendo del mio rifiuto di tornare a Berlino, fece un tentativo per invitarmi a partecipare al prossimo gruppo di dialogo. Dovetti affrontare e tentare di risolvere i miei sentimenti molto ambivalenti. Ero terrorizzata dall'idea di dover rivivere un altro viaggio traumatico. Comunque, grazie alla comprensione dei miei conflitti da parte di Martina che mi offriva il suo sostegno e a Roberto Olla che riteneva che fosse ormai arrivato il tempo per affrontare e confrontarmi con Berlino, accettai l'invito.
In qualche modo ero conscia che il 'drago' tanto temuto si trovava dentro di me e che avrei dovuto combatterlo confrontandomi direttamente con la realtà esterna della Berlino di oggi.
Inoltre, più che dover affrontare la parte degli aguzzini, temevo il biasimo dalla parte delle vittime. Essendo non credente, in passato sono stata accusata di essere una traditrice dell'ebraismo!
Ero sconvolta. Nel mio libro ho citato Heine: "Denk ich an Deutschland in der Nacht, so bin ich um den Schlaf gebracht" (Se penso alla Germania di notte, il mio sonno finisce a botte). La stessa insonnia mi colpì prima e dopo Berlino. Nonostante ciò, sono molto contenta di essere andata ad affrontare il 'drago' e di essere tornata sollevata dagli antichi pesi, avendo lasciato alle spalle vecchie paure e incubi.
ll primo giorno dell'incontro, durante la prima colazione, fui colpita in maniera negativa dal fatto che gli 'aguzzini' stavano seduti tutti insieme ad un tavolo, mentre le 'vittime' stavano insieme altrove. Commentai la situazione e mi fu detto che presto non sarebbe più stato così. Dopo di che notai che la sequenza degli interventi seguiva la stessa 'regola': domandai se era possibile cambiare l'ordine e parlare prima del previsto. Desideravo interrompere la divisione fra le due 'fazioni'.
Non racconterò qui del primo intervento dall'altra parte che ascoltai (questo materiale verrà pubblicato sulla prossima Newsletter di One by One), ma solo di quanto rimasi commossa dal dolore autentico, dal pentimento e senso di colpa che c'erano nelle parole di un figlio che si sentiva ancora responsabile per le azioni del padre. Un altro partecipante, la cui famiglia non aveva commesso né era stata coinvolta attivamente nelle atrocità, parlò della profonda vergogna che sentiva come tedesco per la storia passata e di come questa abbia lasciato cicatrici indelebili ovunque.
Dopo il primo intervento, toccava a me. Non potevo fare altro che parlare dei miei sensi di colpa per essere l'unica sopravvissuta della mia famiglia.
All'età di 3 anni ero stata respinta da mia madre che era totalmente presa dal arrivo di mio fratello che diventò il suo Seelentroester, 'consolatore dell'anima'. Ciò mi portò a provare un crescente risentimento fino ad arrivare ad odiare mia madre a tal punto che pensavo che nessuna coesistenza sarebbe stata mai possibile fra noi. Una di noi due avrebbe dovuto cessare d'esistere! Adoravo mio padre e amavo il mio piccolo fratello, sapendo che non aveva nessuna colpa dell'ossessione di nostra madre.
Il cieco rifiuto di mia madre ad emigrare per tempo ci aveva portato a finire nei campi di sterminio. Dal punto di vista emotivo, fu come se la "soluzione finale" fosse stata la mia soluzione personale! Che diritto avevo di sopravvivere quando avevo avuto questi buii, devastanti segreti nascosti nel profondo dell'anima?
Confessai questi sensi di colpa e vergogna eterni prima che Ilona parlasse della sua vergogna e dei suoi sensi di colpa per il padre, che aveva fatto parte delle SS. L'aver potuto condividere ciò che fino a quel momento era stato un peso segreto e inammissibile, mi permise finalmente di piangere le lacrime che fino ad allora avevo sempre trattenuto. Potevo piangere nelle braccia di Ilona che cercava di consolarmi.
Dopo l'esperienza di condivisione dei nostri rispettivi sensi di colpa e vergogna, tutte le arbitrarie divisioni fra di noi cessarono di esistere. Diventammo degli esseri umani, uniti dalla reciproca comprensione per le nostre sofferenze.
Da quel momento, condiviso da tutto il gruppo, non potei più accettare la categorizzazione in 'vittime' contro 'aguzzini', dopo più di 55 anni da quei fatti storici che hanno lasciati i loro segni su tutti noi.
Con mia grande sorpresa e sollievo, fui compresa e non criticata dalla parte ebraica. Erano d'accordo con me quando parlai della mia necessità di guardare e di valutare le persone esclusivamente in termini umani e individuali, anziché etichettarle.
Altrimenti si corre il rischio di un altro genocidio: cessiamo di essere persone e diventiamo simboli per le bandiere di vendetta per odi indimenticati ed eterni. Per esempio, questo è proprio ciò che è avvenuto in Serbia dove il genocidio perpetrato doveva vendicare una battaglia contro i turchi, persa nel 1208!
Ho imparato un'altra lezione durante quella difficile settimana. Ho dovuto affrontare i miei pregiudizi: dovevo ammettere che i tedeschi sono, e devono essere considerati, come essere umani, anziché rappresentare il simbolo del male e della soluzione finale. Mi sembra che ci sia stata quasi una specie di scambio di ruoli: per tanti ebrei i tedeschi sono ormai diventati "non-persone", anche quando ammettono che alcuni sono perfino loro amici. Tanti anni fa, in Germania, ho sentito dire la stessa cosa quando si parlava degli ebrei!
Ma dovremo sempre avere una qualche categoria da combattere, che rappresenta il diavolo o il male, sulla quale proiettare tutte le responsabilità per qualunque cosa non funzioni nel mondo, o per ciò che non va con noi stessi, dovuto ai nostri problemi personali?
Questi meccanismi sono noti come "proiezioni paranoidi". Sono stati impiegati dai nazisti quando incolparono gli ebrei di avere causato tutti i mali del mondo così da poter poi giustificare il bisogno di purificare la Germania e il mondo, con la soluzione finale.
Parlando di paranoia, permettetemi di fare un gioco di parole: la soluzione finale fu pianificata alla Conferenza di Wannsee. In tedesco paranoia o un'idea folle si dice: Wahn - perciò, è stato alla Conferenza di Wahn che il nostro destino fu segnato nel 1942!
L'idea folle di Hitler, il suo "Wahn", di una "super-razza ariana" cascava su terreno fertile; i capri espiatori furono trovati e fu più accettabile questo che affrontare le realtà della sconfitta nella prima guerra mondiale con il suo seguito di inflazione, disoccupazione e tutti gli altri gravi mali sociali del dopo guerra.
A questi punto vorrei esprimere la mia completa solidarietà con One by One e anche la mia gratitudine per tutto ciò che cercano di fare. Ho già deciso di tornare a Berlino per il prossimo incontro e inoltre spero che avremo presto la possibilità di organizzare un ramo di One by One anche in Italia.
Però ci sono due critiche che vorrei fare agli amici di One by One:
1. Come sopravissuta, mi sembra di non esistere perché One by One si rivolge principalmente alla generazione dei figli dei sopravvissuti. Siamo rimasti in pochi e, come i dinosauri, siamo in via d'estinzione. Ma finché esistiamo ancora e possiamo ancora testimoniare, vorremmo essere inclusi. So che questa situazione si è venuta a creare all'inizio quando i figli hanno dato vita l'associazione, senza nessuna intenzione di escluderci. Però, confesso che questa omissione mi ha fatto sentire relegata allo status di "non-persona" !
2. Mi vengono i brividi ogni volta che sento o leggo la parola Olocausto invece che Shoah. So che questo termine è usato negli U.S.A., ma dubito che lì siano a conoscenza della definizione del termine. 'Olocausto' si riferisce a un sacrificio religioso e perciò mi sembra un termine poco adatto in questo contesto.
Vorrei infine esprimere la mia gratitudine a Martina per tutto quello che fa e ha fatto e per il Mensch (l'essere umano) ch'è. Devo a lei se ho potuto effettuare una sorta di riconciliazione con la Germania accompagnata dai miei tentativi di "capire il nemico" leggendo il suo eccellente libro, molto bene documentato (Der Versuch den Feind zu verstehen). La comprensione e il sostegno di Martina hanno avuto il risultato che ho potuto rivisitare Berlino - una Berlino totalmente diversa da quella che ricordavo e temevo nella mia mente.
Ho scoperto che Berlino è una bella città, un fatto che ho sempre negato. Ho potuto liberarmi di enormi pesi di dolore e odio. Ho potuto ritrovare le mie radici berlinesi e accettarle senza dovermi più scusare di essere tedesca. E, come Martina ha potuto constatare, ho ritrovato anche il mio vecchio senso umoristico berlinese, e persino cantare vecchie canzoni scordate degli anni '30. Infine, ma non per ultimo, sono stata capace di usare il mio cognome senza temere che, come la stella gialla di David, ciò mi avrebbe etichettato ed esposto a derisione e pericoli.

Vi ringrazio tutti e, individualmente, One by One, per il mio viaggio di trasformazione!

Aprile 2001

Questa testimonianza fa parte del libro in preparazione di One by One "Journeys of Transformation" a cura della Puffin Cultural Foundation.


 

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