APRILE

di Francesco Patrizi

 

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C’è un’inquadratura, in Aprile, breve, discreta, apparentemente superflua che, a guardarla bene, appare invece concisa e lampante, ricca di significato tanto da poter essere considerata quasi una sorta di manifesto programmatico dell’intero film.

Questa inquadratura vede Nanni Moretti passeggiare lungo l’isola tiberina sotto l’ospedale dove ha appena partorito la moglie: dapprima vediamo Moretti a figura intera camminare, poi, con uno zoom l’inquadratura si allarga fino a comprendere il fiume, il muro ricoperto di scritte, il panorama. Il tutto in una breve manciata di secondi.

È il momento certamente decisivo della storia: la nascita del figlio; Moretti però tiene a distanza lo spettatore. Una scelta stilistica che marca la linea di confine tra finzione e realtà.

Il Moretti neo padre si riprende da lontano, cela l’emozione, la macchina da presa non scruta nel privato. Lo zoom che chiude la sequenza è letteralmente una presa di distanza.

Aprile è un film costruito sulla “distanza” come metafora, sull’incolmabile divario contemporaneo tra l’uomo di cultura e la società, tra lo sguardo che scruta in cerca di orientamento e l’apparire forsennato di un’immagine fittizia, televisiva, della realtà. Per questo il film è tempestato dalla presenza dei media, dei giornali, dei ritagli; pone il problema dell’inseguimento doveroso e problematico verso l’attualità.

Un episodio di ampio respiro è quello dello sbarco degli albanesi in Puglia: Moretti e la sua troupe si recano sul luogo dello sbarco preannunciato, ma non trovano nessuno, si imbattono nell’assenza dell’evento (così “presente” invece nei media).

È come se il cinema non riuscisse a tenere il passo con la cronaca, con la contemporaneità, come se faticasse a inseguire gli eventi, che d’altra parte sembrano esistere solo in tv.

L’immagine della troupe di Moretti immobile davanti al mare invernale, davanti al vuoto, davanti all’attesa, si carica di allusioni, celebra il salto del cinema oltre la cronaca, pone il cinema come strumento di riflessione storica, come sguardo deputato a cogliere il risvolto simbolico dell’evento.

Aprile fa dell’assenza una figura retorica, una cifra della contemporaneità. È un film sulla coscienza storica. La distanza si misura con l’evento mancato (sostituito dalla tv), con la politica (il mancato incontro con i vertici del PDS e la fuga dall’incontro con Bossi).

L’intervista con lo scrittore che sta traslocando (altra splendida metafora della condizione nomade, apolide, “sfrattata” dell’intellettuale) presenta un risvolto ancor più profondo: l’incapacità di Moretti di porre le domande, di rapportarsi… una fase di transizione, un rischio di chiusura, bilanciato però dalla nascita del figlio, un evento privato che diventa, nel discorso specifico, un “valore”.

In diverse scene cogliamo le tracce di un percorso regressivo; quando Moretti va incontro a Bossi per filmare l’evento sul Po, d’un tratto, per un ripensamento, si ritorna e preferisce mediare l’appuntamento tramite una radiolina, seduto in un bar a bere un bicchiere di latte; successivamente va a trovare la madre e si fa raccontare l’orario del suo allattamento quando era neonato. Il latte, più che un simbolo in sé, rappresenta la chiave, la spinta di una ricerca a ritroso, la ricerca della propria identità, della propria storia, delle radici.

Il latte, la madre, il figlio, sono elementi di una familiarità contrapposta all’estraneità della cronaca del paese. Il film è ricco di riferimenti attuali e sembra ribadire ad ogni fotogramma un cinema considerato come “dovere” civile.

L’urgenza dell’attualità, vissuta in modo contrastato, diventa il latte di cui nutrire il figlio; il film stesso sembra essere un vademecum, una guida, un percorso per il figlio, per la nuova generazione: insegna come sfuggire alla gabbia mediatica dell’attualità, come ritrovare la storia, come considerare se stessi “storia”.

Aprile non è un film/verità; non è un collage, una riflessione generica… basti considerare il finale, dove Moretti rivela il progetto di voler fare un musical.

Circondato da dolciumi, vediamo un pasticcere che balla felice: il balletto, il musical americano, sono sublimazioni dei conflitti… la pasticceria stessa è un regresso infantile nel desiderio (il regno dei dolciumi…); il musical è una fuga dalla realtà, è il rifugio nell’ideologia, nell’utopia.

Aprile simbolicamente si chiude proprio su una fuga dalla realtà; un esorcismo ironico e sarcastico, una messa in guardia, un barlume fulminante della deriva, del distacco, del baratro in cui si può cadere se si perde il filo rosso della Storia.

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In Caro Diario, Nanni Moretti raccoglieva ritagli di giornale, girava per i quartieri romani, vedeva film e parlava con la gente, ma finiva per raccontare se stesso e la sua malattia.

In Aprile, forma con i giornali una coperta e ci si avvolge, insegue la cronaca e finisce per raccontare di suo figlio.

Con questo materiale Moretti parla del suo tempo, del suo paese.

Moretti fonda il suo cinema non su un plot narrativo, sul racconto, ma sul Soggetto che, tra alienazione e identificazione, tra Storia e Sogno, resta l’ultimo aggancio per un cinema “etico”, di riflessione, saldamente ancorato alla realtà.

 

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