Kubrick il film come oggetto d’arte da rivedere.

Spesso i film si ricordano per alcune immagini: un gesto di un attore, un paesaggio, il volto di una donna. Ad esempio ripensando a Citizen Kane di Wells mi viene in mente la sfera di cristallo con dentro la neve, ricordando le Notti di Cabiria di Fellini penso alla scena della processione, immagini diverse, particolari che spesso sintetizzano o raccontano quasi tutta l’opera di un autore. Ripensando oggi ai film di Kubrick mi vengono in mente immagini diverse: l’espressione demoniaca di Nicholson, solo nell’enorme stanza dell’Overloock hotel, gli occhi gelidi di Alex con cui si apre Arancia meccanica, lo sguardo stupito dell’astronauta di Odissea della Spazio quando viene a contatto con la realtà metafisica del Monolite. Immagini diverse ma con un unico filo conduttore. Sguardi, occhi, di persone che hanno visto il mondo e si svelano al mondo  attraverso i loro occhi. L’arte di Kubrick si fonda sul visibile, l’oggetto simbolico non si nasconde si mostra il più possibile, si dà allo spettatore nella sua sconcertante complessità, nel suo insieme di significati che non possono essere appresi con un unico sguardo. Tecnicamente ciò si realizza in vari modi: nell’illuminazione perfetta di ogni scena, dove non ci sono zone d’ombra e tutti i particolare sono visibili mentre lo sguardo spaurito si perde nell’impossibilità di abbracciare “la realtà”, nella tecnica dello zoom all’indietro, dove il particolare è prima protagonista e poi si smarrisce nel tutto (si pensi ai movimenti della m. d. p. in Barry Lyndon dove i personaggi si ritrovano immersi in un paesaggio immenso), nella ricostruzione minuziosa di ogni scena in cui niente è lasciato al caso, negli innumerevoli ciack che costringono gli attori a recitare tenendo conto di ogni emozione. Le scene dei film di Kubrick descrivono una realtà densa di significati dove nulla si sottrae allo sguardo dello spettatore che, paradossalmente, non può “vedere” tutto ciò che è visibile. Ma il cinema del regista di E.W.S. non è solo cinema della visione ma cinema della revisione. Gli occhi dello spettatore sono “aperti” sulla realtà filmica di Kubrick ma non possono comprenderla pienamente: da qui la sensazione, quando si lascia la sala del cinema, di non aver visto tutto, di non aver afferrato ciò che si poteva. Da ciò nasce la necessità di “rivedere”, di tornare su ciò che si era percepito, del senso di stupore e a volte anche di fastidio che proviamo di fronte ai film di Kubrick che non si concludono con i titoli di coda ma che continuano dentro rivisti alla luce di stati d’animo diversi. Piani complessi che si inseguono e che non è possibile catturare i un unico sguardo. Ma ciò che vale per lo spettatore vale anche per il regista. Ecco quindi l’ossessione del montaggio, la necessità di modificare e rifare le scene mille volte, la paura di non essere mai soddisfatti perché c’è sempre qualcosa da aggiungere e/o da cambiare. La realtà viene ricreata e ricrearla è uno sforzo difficilissimo che implica sempre un’attività di re – visione, per essere al tempo stesso credibili e non credibili, fedeli e infedeli, veritieri e ingannatori. Con la morte di Kubrick non solo scompare un grande artista che molto ancora poteva dare al cinema, ma scompare sempre più, l’idea del film come oggetto complesso, un’opera che non si dà in una volta sola ma si concede a strati, che vuole rappresentare la complessità del vivere, che non è oggetto di consumo usa e getta e perciò non può essere realizzato negli stretti tempi della produzione. Lo sforzo della completezza, l’angoscia della perfezione e l’inganno di avere a disposizione un tempo infinito, questo il sogno che l’artista Kubrick si è portato con sé lasciandoci un silenzio scuro e gelido come il suo Monolite.