SAGGI CRITICI

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a cura di Francesco Patrizi

- BUNUEL MESSICANO ( estratti da “Gli Esili di Buñuel” di Augustin Sanchez Vidal, in Buñuel: cittadino messicano, a cura di Auro Bernardi, Le Mani, 2000, pp.25-43)

NAZARIN  di Alberto Moravia (tratto da Alberto Moravia al cinema, Bompiani, 1975)

- L’ANGELO STERMINATORE di Alberto Moravia (tratto da Alberto Moravia al cinema, Bompiani, 1975)

- BELLA DI GIORNO di Alberto Moravia (tratto da Alberto Moravia al cinema, Bompiani, 1975)

- LA VIA LATTEA di Alberto Moravia (tratto da Alberto Moravia al cinema, Bompiani, 1975)

- IL FANTASMA DELLA LIBERTA’ (estratti da “Il mestiere del critico” di Ugo Finetti, in Cinema Nuovo 1974)

 

 

BUNUEL MESSICANO ( estratti da “Gli Esili di Buñuel” di Augustin Sanchez Vidal, in Buñuel: cittadino messicano, a cura di Auro Bernardi, Le Mani, 2000, pp.25-43)

“Dei 32 film che diresse Luis Buñuel, 21 furono girati in Messico, paese dove visse 37 anni e del quale ottenne la nazionalità. Non sembra che per la sua matrice creativa siano imprescindibili le novità offertegli dal suo paese d’adozione: quando vi giunge, ha quasi 47 anni ed ha già maturato da tempo le sue scelte, in ogni campo (…) Il suo fu il caso di un esiliato, ma non di un esiliato qualsiasi. Non giungeva direttamente dalla Spagna, ma dagli USA, dove si era stabilito per quasi dieci anni. La professione di regista complicava, d’altra parte, una sua possibile collocazione, poiché i sindacati cinematografici messicani ammettevano pochi stranieri. Infine, un fatto specifico continua a richiamare l’attenzione: il Messico era un importante centro surrealista, dal quale erano passati lo stesso André Breton – che vi compose uno dei suoi manifesti più importanti- e Antonin Artaud; dove fu organizzata un’esposizione internazionale del movimento; dove, infine, si sarebbe stabilito uno dei surrealisti più ammirati da Luis Buñuel, Benjamin Péret. (…)

Buñuel arriva in Messico in un momento decisivo per l’industria più importante di lingua ispanica. Contrariamente a ciò che normalmente si crede, non accetta di buon grado e immediatamente i suoi budget commerciali, ma combatte aspramente per poter manifestare la sua genuina personalità in un progetto che, se lo avesse girato, avrebbe rappresentato uno dei vertici della sua filmografia, Illejible, hijo de flauta, di cui scrive la sceneggiatura in collaborazione con Juan Larrea. L’idea non era fattibile, quindi dovette guadagnare terreno lentamente accettando gli incarichi che gli interessavano, per quanto gli fu possibile. È la fase costituita da quelli che lui stesso ha denominato i suoi film alimentari. (…)

In ogni caso non si integrò passivamente nel cinema commerciale messicano. Ebbe sempre lo sguardo focalizzato su altri progetti più ambiziosi, in quel paese o negli Stati Uniti o in Francia, che non sarebbero andati in porto. Quando si fu adattato alle possibilità offertegli dal Messico, fu per lui decisiva la collaborazione con i suoi compagni spagnoli di emigrazione; Julio Alexandro, Luis Alcoriza, Juan Larrea, Max Aub, Gustave Pittaluga, Carlos Velo, Eduardo Ugarte e Manuel Altolaguirre. (…)

Oggi comincia a essere moneta corrente tra i ricercatori più scrupolosi la rivendicazione della fase messicana nella sua totalità, senza complessi. È ora di dichiarare pubblicamente qualcosa che Buñuel disse con chiarezza in privato, senza gesti plateali. E cioè che, a parte Un Chien Andalou, L’Age d’Or e Las Hudres, (ossia i suoi primi tre film realizzati in un irripetibile clima di mecenatismo), riuscì a diventare il regista che fu perché trovò un paese, il Messico, dove poté lavorare in condizioni che pochi altri luoghi gli avrebbero permesso.”

A.S.Vidal.

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NAZARIN  di Alberto Moravia (tratto da Alberto Moravia al cinema, Bompiani, 1975)

Siamo nel Messico, alla fine del secolo scorso, cioè prima della rivoluzione “nazionale” del 1910. Un prete vive in un quartiere malfamato abitato da ladri, prostitute e vagabondi; e cerca, come il protagonista de L’Idiota di Dostoevskij, di “imitare” Cristo. Ma l’imitazione di Cristo è difficile oggi come ai tempi di Ponzio Pilato. Il prete è sottoposto a cento angherie, lo derubano, lo prendono in giro, lo percuotono. Lui si lascia prendere in giro, derubare, percuotere. È questo il suo rapporto storicamente giustificato con la realtà sociale e umana di un paese depresso, arretrato, superstizioso e analfabeta com’era il Messico un secolo fa. Una notte c’è una rissa tra alcune prostitute. Una di esse uccide l’avversaria con una coltellata e, ferita a sua volta, si rifugia nella stanza del prete. Questi non le rifiuta l’ospitalità, benchè sappia che ha commesso un delitto; la cura e la guarisce. Ma la polizia indaga; la donna allora scappa, non senza dar fuoco alla casa del prete. E lui, dal canto suo, abbandonato dai superiori, getta la veste talare e prende la strada, un vagabondo come tanti altri. Ma nel suo vagabondaggio, durante il quale vive di elemosina, incontra la prostituta e un’altra donna, un’epilettica abbandonata dal marito, che era fuggita con lei. Il prete non vorrebbe, è un uomo intelligente e umile, ma egualmente nell’atmosfera superstiziosa e fanatica del Messico, diventa una specie di santo. Lo costringono a far miracoli, lo seguono, lo venerano. Va a finire che le autorità li fanno arrestare tutti quanti, mentre cercano di alleviare le sofferenze di un paese devastato dal colera. La prostituta assassina e redenta sarà avviata alla prigione; l’epilettica tornerà col marito; il prete sarà messo a disposizione dei superiori, i quali, com’è prevedibile, secondo la frase di uno di loro, cercheranno di costringerlo a “fare un compromesso con la realtà”.

Luis Buñuel, in questo Nazarin girato dieci anni or sono nel Messico, ha voluto tratteggiare un suo “idiota” dostoevskiano, ispirandosi però non già al cristianesimo ortodosso, ma a quello cattolico. In questo film, al solito, Buñuel si rivela un regista diabolicamente estroso che mentre affonda le radici nella tradizione culturale e figurativa spagnola (si pensa spesso a Velasquez, a Murillo, a Goya), al tempo stesso sa riflettere con lucidità sulle cose del mondo moderno. Buñuel, insomma, non ignora anzi ci fa capire che la santità del suo eroe è in rapporto diretto con l’arretratezza sociale ed economica del Messico. Egli non giunge ad affermare che la prima non potrebbe esserci senza la seconda; ma ci lascia intendere chiaramente che il nesso c’è e non è casuale. In un breve e stupendo film: San Simeone stilita, Buñuel ha descritto un’altra santità, quella di San Simeone che vive in cima ad una colonna, lacero, barbuto, affamato. Poi, tutt’a un tratto, ecco nel cielo, al di sopra della colonna, sfreccia un potente aeroplano. Un istante dopo noi vediamo San Simeone trasformato in playboy, seduto al tavolino di un night club, davanti a un whisky, in maglione e pantaloni di velluto a coste. Che vuol dir questo? Vuol dire che Buñuel, pur essendo costituzionalmente cattolico, ha saputo “vivere” e decantare il suo cattolicesimo come esperienza attuale, fino a farlo diventare elemento culturale, piega psicologica, secrezione sociale. S’intende che Nazarin è un film assai notevole e singolare dal punto di vista formale. Buñuel vi recupera il verismo della fine del secolo; ma lo sforza fino a sfiorare il surrealismo. Un surrealismo che, come si è detto, risale non tanto a Breton, quanto a Goya. La figura di Nazarin è simile a quella di un santo spagnolo soave e ispirato della controriforma; intorno al quale il pittore si è sbizzarrito in cento episodi minori talvolta del tutto esterni alla vicenda, come per esempio quello del nano innamorato della prostituta. L’idea però è pur sempre quella di certi grando affreschi religiosi: una figura ideale e idealizzata (quella di Nazarin, interpretata con grande naturalezza ed efficacia da Francisco Rabal) e tutt’intorno una folla di mostri, di indemoniati e di tiranni.

Alberto Moravia.

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L’ANGELO STERMINATORE di Alberto Moravia (tratto da Alberto Moravia al cinema, Bompiani, 1975)

In una città latino americana o spagnola, in una ricca dimora situata nel “Calle de la Providencia” (il film formicola di simboli, a cominciare dal nome di questa strada) convengono per un ricevimento un gruppo di persone del mondo elegante. Ma qualche cosa non va nella serata. Intanto, senza motivo apparente, come si dice facciano i topi allorchè la nave è in pericolo, i servitori, ad uno ad uno, fuggono; poi, finito il pranzo, quando è venuto il momento del congedo, inspiegabilmente, gli invitati rimangono, anzi, si apprestano a passare la notte nella casa, accovacciandosi alla meglio sui divani e in terra. Viene il mattino, la compagnia è tutta pesta e scarmigliata, ma nessuno pensa di tornarsene a casa. In realtà gli invitati vorrebbero andarsene ma non possono: un misterioso, sinistro incantesimo impedisce loro nonché di uscire in strada perfino di varcare la soglia del salone. Passa un’altra notte, passa un altro giorno, passano molte notti e molti giorni e la brigata è sempre lì, nel salone, ormai ridotta a un’accozzaglia di gente lacera, sporca, puzzolente, avvilita, disperata. Naturalmente scoppiano incidenti, tragedie: alcuni vengono alle mani, altri delirano, un vecchio signore muore di infarto, due fidanzati si uccidono. Ma ecco, una delle signore ha un’idea: tornare indietro con il ricordo al momento preciso in cui, la prima notte, gli invitati furono sul punto di congedarsi e non lo fecero, rifare la scena, vedere dov’è la misteriosa cerniera tra il normale e l’anormale. La ripetizione funziona; rifacendo la scena, gli invitati questa volta riescono a spezzare l’incantesimo, fuggono finalmente dalla casa maledetta. Ma il giorno dopo, durante il Te Deum di ringraziamento nella cattedrale ecco, il funesto fenomeno si ripete. Subito dopo la messa, i fedeli fanno per uscire ma non ci riescono, qualche cosa gli impedisce di lasciare la cattedrale. Intanto fuori, nella strada, è scoppiata una rivolta e la polizia spara sulla folla.

Luis Buñuel non è un regista spagnolo, è “il” regista spagnolo, tanto, in lui, i principali caratteri della cultura spagnola sono presenti con vigore e chiarezza. Buñuel è un uomo di sinistra, di una sinistra libertaria, anarchica, blasfema; ma è anche, se non per convinzioni, per costituzione, un cattolico, o meglio un vecchio cristiano iberico. In arte, è un realista, di un realismo frontale, violento, duro, ingenuo, nella tradizione picaresca; ma è anche un fantastico, un magico, un surrealista visionario alla maniera di Goya e di Dalì.

In questo L’Angelo Sterminatore, Buñuel ha voluto darci l’allegoria del destino della borghesia. La ricca dimora stregata da cui non si riesce a uscire, è la cultura borghese condannata all’impotenza dalle proprie contraddizioni; il gruppo degli invitati è la società borghese coi suoi vizi, le sue ottusità, le sue superstizioni, i suoi pregiudizi, la sua alienazione. La borghesia potrebbe risolvere i suoi problemi soltanto se avesse un po’ di buona volontà, un briciolo di immaginazione. Ma non ci riesce, rimane chiusa nel suo bozzolo funesto, è condannata.

Abbiamo detto: allegoria; non rappresentazione simbolica. Infatti il simbolo è spesso oscuro, indecifrabile; l’allegoria invece è sempre molto chiara. Il simbolo sta addosso alla rappresentazione, la deforma; l’allegoria se ne sta lontana, permette il realismo più normale. Nell’Angelo Sterminatore Buñuel ha fatto un’allegora, con un significao per niente oscuro da una parte e una rappresentazione del più normale realismo dall’altra. Il film non è del tutto convincente anche se, attraverso un procedimento iterativo, acquista via via forza e spessore, nel senso di una fatalità sinistra e minacciosa. Perché non siamo del tutto soddisfatti, anche se dobbiamo riconoscere a Buñuel una singolare capacità di caratterizzazione di certi aspetti del mondo borghese? La ragione dell’insoddisfazione ci sembra la seguente: Buñuel ha voluto fare qualcosa di non  tanto diverso dal realismo allegorico di Kafka. Senonchè, mentre Kafka riesce a dare al realismo una dimensione magica attraverso la mancanza assoluta di psicologia e di dramma e la descrizione ossessiva e impassibile dei particolari della vita quotidiana, Buñuel, lui non ha saputo rinunziare né al dramma né alla psicologia. La spia a tutto ciò la fa lo stile del film, di un naturalismo un po’ troppo esplicito, appena qua e là sollevato da rari tratti surrealisti. E tuttavia bisogna riconoscere che nel ricordo il film si ricompone idealmente, rivela una sua necessità maliziosa e ambigua.

Tra i numerosi attori bisogna ricordare soprattutto Cesar Del Campo che è il colonnello, Enrique Rambal nella parte di Nobile, Silvia Pinal in quella di Letita, Lucy Galardo in quella di Lucia, Claudio Brook in quella del maggiordomo e molti altri. La recitazione, assai normale e perfino un po’ piatta, è quasi sempre in voluto contrasto con il dialogo sovente stravagante, allusivo e oscuro.

Alberto Moravia.

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BELLA DI GIORNO di Alberto Moravia (tratto da Alberto Moravia al cinema, Bompiani, 1975)

Sévérine, moglie borghese di un giovane chirurgo, è stata, bambina, accostata da un bruto. Da questo trauma le sono venute due ossessioni parallele: di colpa e di voglia di ripetere la colpa. Un erotomane a nome Husson le fa la corte, invano; un giorno, per caso, le rivela l’indirizzo di una casa di appuntamenti che in passato gli è accaduto di frequentare. Subito, Sévérine, si precipita alla casa e chiede alla tenutaria, Madame Anais, di lavorarci. Così comincia  per lei una doppia vita: signora irreprensibile a casa; Sévérine, al bordello in cui si reca ogni giorno dalle due alle cinque, diventa la prostituta “Belle de Jour”. Tutto andrebbe liscio se a un tratto non accadessero due fatti. Il primo è che Husson, l’erotomane che le ha dato l’indirizzo e l’aveva corteggiata invano, si presenta alla casa di appuntamenti e la riconosce; il secondo è che uno dei clienti, un giovane spagnolo, si innamora di lei. A Sévérine il ragazzo piace finché non è che uno dei soliti clienti che la violentano e la profanano; ma non vuole saperne del suo amore. Lo spagnolo la fa seguire, irrompe nella sua casa; Sévérine lo scaccia. Lo spagnolo si apposta, abbatte a colpi di rivoltella il marito di Sévérine; a sua volta viene ucciso dalla polizia. Adesso il marito è paralizzato e quasi cieco, non si sa se guarirà. Arriva Husson e, per vendicarsi della ripulsa di Sévérine, gli svela la verità sul suo ferimento e sulla doppia vita della moglie.

Nella motivazione del premio di Venezia, a proposito di questa Belle de jour di Luis Buñuel, si diceva che “il film confermava la grande lezione del surrealismo di cui Luis Buñuel è uno dei rappresentanti più illustri”. Questa frase non ha nulla di convenzionale. In realtà Luis Buñuel ci ha dato uno dei rari film che siano al tempo stesso spettacolo e opera d’arte. E questo l’ha ottenuto grazie soprattutto alla sua esperienza del surrealismo, forse la sola avanguardia che abbia cambiato e arricchito la nostra visione del mondo e conquistato nuovi territori di conoscenza.

Ci sono due specie, almeno, di surrealisti. Quello fantastico nel quale il sogno si presenta come realtà (Dalì, Ernst, Delvaux, Magritte…); e quello nel quale la realtà si presenta come sogno (Lautremont, l’Aragon del Paysan de Paris, Nadia di Breton, Roussel, lo stesso Freud). Belle de Jour appartiene alla seconda categoria. Perché la realtàè un sogno in Belle de jour? Perché Sévérine ha sognato tutta la vita, con nostalgia e senso di colpa, di essere profanata e violentata; e, alla fine, il suo sono si realizza. Per questo la prima parte è superiore alla seconda. In questa prima parte, infatti, il sogno di Sévérine non incontra alcuna smentita: essa vive il proprio sogno e sogna la propria vita. Aveva sognato di essere posseduta da un bruto; ed ecco il bruto le sta sopra e la possiede davvero. Così, appunto perché sogno e realtà vi si identificano così perfettamente, anche il bordello non è il luogo della realtà, ma un luogo di sogno nel quale, appunto, la sola realtà è il sogno di Sévérine. Donde la precisione allucinata dei particolari; l’assenza di psicologia. Invece, nella seconda parte, Sévérine è costretta a svegliarsi. Qualcuno la riconosce, qualcuno la ama. Scoppia una tragedia che non è sogno, bensì, purtroppo, mera realtà. Ma Sévérine è un’incorregibile sognatrice: quando viveva il suo sogno di stupro, allora sognava di essere punita; adesso che il marito è paralizzato e sa della sua doppia vita, sogna che il marito è sano e non sa nulla e loro si amano e vivono felici. Ma si capisce che fa questo sogno per illudersi di potere, un giorno, tornare di nuovo al bordello e riprovare il brivido dello stupro.

È inutile cercare delle implicazioni sociali in questo film: Freud non è Marx, e questo è un film, alla lontana, freudiano. Il grande merito di Buñuel anzi è stato di aver scartato con mano leggera ogni denunzia moralistica; di essersi tenuto, con superiore maestria, a una rigorosa descrizione. Tutto è visto attraverso gli occhi di Sévérine; e Sévérine appunto è una sonnambula o, se si preferisce, una visionaria.

In un simile film, la regia prevale, anzi riassorbe l’interpretazione. Catherine Deneuve, volto consumato dalla lussuria e dal senso di colpa, è un’immagine memorabile. Accanto a lei, visti da lei, bisogna lodare Jean Sorel, il marito; Michel Piccoli che è Husson; Francisco Rabal e Geneviéve Page.

Alberto Moravia.

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LA VIA LATTEA di Alberto Moravia (tratto da Alberto Moravia al cinema, Bompiani, 1975)

L’ultimo film di Luis Buñuel, “La Via Lattea”, racconta il pellegrinaggio di due accattoni francesi a San Giacomo di Compostela ilSpagna. Il pellegrinaggio è, però, anche quello del Cristianesimo non più nello spazio ma nel tempo, da un’interpretazione all’altra, da un’aberrazione all’altra, da una caduta all’altra. Il viaggio a piedi dei due barboni serve, dunque, da filo conduttore per una serie di episodi slegati e stravaganti nei quali il regista, con estro eccezionale dovuto, si direbbe, all’estrema sincerità proprioa dell’età (la vecchiaia conduce secondo i casi alla sincerità totale sia alla menzogna più ermetica), illustra alcune delle innumerevoli eresie che hanno conferito attraverso i secoli alla religione, fatto “astorico” per eccellenza, un suo particolarissimo carattere “storico”. Il modo con il quale sono evocati via via figure ed eventi è la cosa più interessante del film; vogliamo dire che Luis Buñuel non aveva mai raggiunto una così diabolica leggerezza e una così misteriosa magia nell’evitare le secche della logica e nel giovarsi, secondo la lezione del surrealismo, delle risorse dell’inconscio. Richiamati in vita da minimi pretesti analogici, ironici, grotteschi, verbali, via via sfilano davanti ai nostri occhi, mentre i due barboni camminano lungo le strade di Francia e di Spagna, le più diverse figure del’eterno dramma religioso. Un raccontino ci fa vedere Gesù, che rinunzia a radersi la barba, il primo capellone del mondo; il diavolo appare in sembianze di fanciullino segnato dal sangue delle stimmate; i manichei di Priscilliano celebrano in un bosco, di notte, i loro riti orgiastici; il problema della transustanziazione è discusso da un maitre d’hotel e quello delle doppia natura del Cristo da un prete ammattito; al miracolo di Cana secondo piero della Francesca, segue una recita  di bambini in un collegio, secondo il Douanier Rousseau; subito dopo, però, in un’inquadratura blasfema tipicamente surrealista, un plotone di anarchici fucile il Papa; rispunta il diavolo in sembianza di languido adolescente; assistiamo a un grottesco duello tra un gesuita e un giansenista; due studenti spagnoli che ricevono dalla Vergine il dono di un rosario, sono due eresiarchi del ‘500 e al tempo stesso due cacciatori di quaglie di oggi. Infine, secondo la profezia di un misterioso personaggio apparso all’inizio del viaggio, i due accattoni, proprio alla porte di SanGiacomo di Compostella, cedono alla lusinghe di una prostituta. I piedi itineranti di un Gesù convenzionale da presepe ci dicono nel finale che il viaggio del Cristianesimo non è terminato e che Gesù continuerà a mettere non solotanto i figli contro i genitori ma anche i fedeli contro la Chiesa. Abbiamo detto che Luis Buñuel ha avuto in questi film la sincerità scatenata e ispirata propria dell’età (Luis Buñuel ha 69 anni); aggiungiamo che è anche la sincerità di un ateo di tradizione volteriana che ha riflettuto tutta una vita su un suo particolare cattolicesimo anch’esso né attuale né moderno. Siamo fuori della “storia”, furoi dell’Ottocento, fuori del marxismo. E tuttavia è indubbio che il film di Luis Buñuel è molto moderno e attuale. Come ha fatto a operare, è il caso di dirlo, un simile miracolo? Crediamo che questo si debba prinipalmente alla già citata esperienza surrealista, nonché alla conseguente scoperta dell’importanza dell’inconscio e dell’onirico. Si noterà, infatti, che la religione appare a Buñuel quasi esclusivamente come sorpresa miracolosa o come aberrazione eretica. Il che vuole dire che Buñuel vede la religione come perpretua esigenza dell’immaginazione, come perenne rivolta fantastica. I miracoli sono illusioni più reali della realtà; le eresie, sogni intellettuali vissuti ad occhi aperti: chi non vedrebbe in questi due aspetti della religione una conferma che la vita è sogno (come per Calderòn de la Barca) oppure miraggio (come per Don Chisciotte)? Così, grazie alla strana combinazione del surrealismo freudiano e della polemica anticlericale spagnola, “La Via Lattea” approda sul terreno sicuro di un’affascinante ed estrosa rappresentazione.

Alberto Moravia.

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IL FANTASMA DELLA LIBERTA’ (estratti da “Il mestiere del critico” di Ugo Finetti, in Cinema Nuovo 1974)

“(…) Buñuel si propone la drammatizzazione, nei vari episodi, di precisi temi rifiutando (salvo all’inizio) la rappresentazione dell’immediato realismo proprio perché egli intende mostrare una società in cui gli uomini “guardano” ma non “vedono” ciò che sono e ciò che li circonda. Il “non vedere” della società borghese, la sua inversione nell’autoritarismo e nell’arbitrio, è la conseguenza della mancanza di ogni prospettiva di sviluppo. È in questo contesto che Buñuel si ricollega alla poetica freudiana del “perturbante”: ciò che è familiare diventa spaventoso, incertezza se una figura sia persona o automa, se qualcosa sia o no vivente, il ricorso di eventi analoghi e, infine, quintessenza del perturbante, l’essere ridotti a sosia.  E sosia significa anche struttura “circolare” come vedremo nell’ultimo episodio, e del resto tutto il perturbante ha alla propria base un aspetto ripetitivo per cui, precisa Freud, il ritorno non intenzionale si salda con un senso di impotenza. (…)

I nuovi dominatori della giovane repubblica francese sono anticlericali, bevono nei calici e mangiano ostie ( I episodio), Foucauld è stufo della “simmetria” della propria vita quotidiana (II episodio), i preti rivelano come certi santi siano decaduti e la chiesa rinnovi il calendario (III episodio), il professore teorizza la transitorietà dei costumi sociali e arriva a citare Margaret Mead (IV episodio), il medico cerca di infondere fiducia a Legendre, malato di cancro, dicendogli “sapete, al giorno d’oggi…” (V episodio). Il potere, la chiesa, la famiglia, la società si rinnovano dunque? Al contrario (…)

Buñuel mostra come tendere a un orizzante immaginario e irragiungibile nel conato del “dragone” di giacere con la donna morta dopo essersi invaghito della sua statua.

(…) resta da spiegarsi perché quando il dragone scopre la tomba non si trova davanti a un cadavere putrefatto ma ad un corpo che sembra solo addormentato (…)

è appunto la struttura del “guardare” e del “vedere” che Lacan riassume nella figura dello struzzo nel suo seminario su La Lettera Rubata di Poe. Anche per Buñuel, come per Lacan, la “realtà” ci viene presentata nel film come “ciò che è mostruoso”, “ciò che non va”, “ciò che non esiste”. E contro questa realtà “ufficiale”, la cui apoditticità viene rimessa in discussione, la morta intatta, il bagliore del corpo giovane nel letto della vecchia zia, il grido umano nello zoo vengono a riaffermare i diritti dell’immaginazione, il potere dell’immaginazione, intendendo con questo la possibilità di vedersi diversi. (…)”

Ugo Finetti.

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